La riforma Bonafede: più dubbi che certezze

Il sistema giudiziario italiano è in crisi, principalmente per il numero spropositato di processi che si svolgono ogni anno; di conseguenza giudici e magistrati non riescono a svolgere il proprio lavoro con celerità facendo dilatare i tempi necessari per emettere una sentenza.

Dal 1 Gennaio 2020 è in vigore la riforma Bonafede sui processi, inserita nel disegno di legge “spazzacorrotti” voluto con forza dal M5S e approvato con il voto della Lega, allora facente parte della maggioranza.

Che una riforma della giustizia sia necessaria, sembra essere l’unica cosa sulla quale maggioranza ed opposizione sono d’accordo, tuttavia le posizioni politiche riguardo l’efficacia di quella approvata nel dicembre 2018 sono quanto mai variegate e discordanti; questo testo sembra davvero scontentare tutti e, non sembra affatto aver centrato il problema!

Sostenitori convinti, di circostanza e oppositori

Il Movimento 5 Stelle ed il Ministro della Giustizia Bonafede, in qualità di propositori del testo, lo difendono a spada tratta avendo fatto della lotta alla corruzione il loro cavallo di battaglia. Dall’approvazione del disegno di legge ad oggi, però, la maggioranza parlamentare ha cambiato colore, ruotando da destra a sinistra sul perno M5S che si è trovato ad essere alleato della Lega prima, del PD poi.

E così sono mutati anche gli interessi a sostenere o meno questa legge.

Il PD infatti aveva esternato non pochi malumori e perplessità per l’inserimento nel disegno di legge della norma sulla prescrizione sostenendo che il problema fosse relativo alla durata dei processi e non al sopraggiungere o meno della prescrizione.

Ieri (12 Febbraio), però, il PD ha votato insieme a M5S e Leu (Liberi e Uguali) contro l’emendamento “Annibali” proposto da Italia Viva che conteneva la proposta di rinviare l’entrata in vigore della norma sulla prescrizione, in attesa, probabilmente, di una rivisitazione organica del processo penale.

Dall’interno della maggioranza infatti è proprio Italia Viva a portare battaglia alla riforma Bonafede, rischiando con la propria contrarietà e il proprio ostruzionismo di creare un serio problema numerico ad un esecutivo già traballante.

Su posizioni nettamente contrarie si schiera invece la minoranza con Forza Italia e Fratelli d’Italia che già all’epoca avversavano questo procedimento e, continuano ad opporvisi.

Riflette quanto compiuto dal PD la posizione della Lega che ha, invece, compiuto il percorso inverso: mentre era al governo ha votato a sostegno della riforma ed ora dall’opposizione la avversa. La proposta alternativa prende corpo intorno al tema della necessità di accorciare i tempi processuali ed è su questo che le opposizioni vorrebbero si concentrasse il dibattito.

Se in aula i sostenitori del testo proposto dal ministro Bonafede sono pochi, non va meglio spostando lo sguardo sugli “addetti ai lavori”.

Il primo presidente della Cassazione, Giovanni Mammone, aveva sostenuto che venendo meno la prescrizione, si verificherebbe “un significativo incremento del carico penale, vicino al 50%, che difficilmente potrebbe essere tempestivamente trattato”.

Ancora più eclatanti sono state le rimostranze degli avvocati che hanno protestato contro questa riforma durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario.

Le ragioni del conflitto

Con il termine prescrizione si indica l’istituto giuridico secondo il quale al decorrere di un certo tempo, il reato commesso si estingue e non è più perseguibile dalla giustizia. Nel codice penale italiano è regolamentata dall’art 157.

Un tema ricorrente tra le fila di chi sostiene questa riforma riguarda la necessità di una “certezza della pena” cioè che l’ordinamento giuridico italiano si dimostri in grado di condannare i trasgressori, dando pieno adempimento alle previsioni legislative.

Viene da loro avvertita come una sconfitta dei sentimenti di verità e giustizia la sostanziale impunità di coloro che pur non essendo formalmente assolti vedono cadere il procedimento a proprio carico estinguendosi per prescrizione.

Il caso più emblematico e più noto in tal senso riguarda, senza alcun dubbio, la prescrizione relativa al cosiddetto “Processo Andreotti”, un processo che vedeva come imputato il senatore a vita Giulio Andreotti con le accuse di “concorso ‘esterno’ in associazione per delinquere ‘semplice’ (art 110 c.p.) concorso ‘esterno’ in associazione di tipo mafioso (416 bis c.p.). Il primo grado di giudizio ha visto l’assoluzione dell’imputato, condannato invece in sede d’appello. La corte di cassazione, pur pronunciandosi in maniera omogenea con quanto sancito in appello, ha dovuto constatare che i tempi relativi alla prescrizione fossero trascorsi e dunque stabilire il “non luogo a procedere”.

È motivo di scontro anche se sia giusto o meno che il soggetto ritenuto colpevole in primo grado sconti la sua pena in carcere oppure no.

Per la Costituzione (art.27) l’imputato si ritiene come presunto innocente fino alla chiusura del processo e questo, in alcuni casi, avviene solo al termine del terzo grado di giudizio.

La legge prevede però dei casi (pericolo di fuga, di reiterazione del reato o possibilità di inquinamento delle prove) secondo i quali la sentenza di primo grado diventa immediatamente esecutiva ed il condannato in primo grado deve già scontare la sua pena.

Questo meccanismo non si è dimostrato sempre perfetto e persone condannate in primo grado, sono state poi assolte negli altri gradi di giudizio. Nel frattempo però avevano cominciato a scontare la loro pena e, in alcuni casi subito anche la gogna mediatica, come nel famosissimo “caso Tortora”.

Se alla nuova normativa, in casi di cattiva amministrazione della giustizia, si abbinasse anche l’intransigenza nel voler a tutti i costi far scontare la pena ai colpevoli già dopo il primo grado di giudizio, si potrebbe addirittura verificare l’ipotesi secondo la quale il condannato in primo grado si trovi a scontare tutta la sua pena prima di ottenere un riesame ed una, eventuale, tardiva, assoluzione.

La mancata prescrizione aiuta davvero a combattere l’impunità?

Si fa fatica ad immaginare come possano andare di pari passo una velocizzazione dei processi e l’estensione (o abolizione) dei tempi di prescrizione, considerando anche il carico di lavoro che hanno magistrati e giudici.

In molti processi i rinvii sono necessari alla difesa per poter esercitare concretamente il proprio diritto avendo il tempo di lavorare sugli elementi acquisiti, in altri casi è l’accusa a necessitare di tempo per acquisire prove giudiziarie o cercare testimoni.

Pretendere un’accelerazione significa, inevitabilmente, far svolgere più in fretta questo lavoro con il rischio di comprometterne l’efficacia e rischiando di arrivare a delle sentenze sommarie.

Al contrario, non porre un limite temporale ai processi che, presumibilmente termineranno con una condanna (ad esempio perché già sentenziata in primo grado) pone una spada di Damocle incredibile sulla testa del processato. Nell’eventualità in cui il giudice non potesse, o non riuscisse, a contenere i termini del procedimento e dovendo per forza di cose proseguire, non sopraggiungendo alcuna prescrizione, ci si troverebbe alle prese con casi di condanne, anche per reati “minori” a distanza di un numero spropositato di anni dalla commissione del reato stesso.

Nel frattempo il condannato, qualora si trovasse ancora in libertà e non fosse stato condannato per nessun altro reato, avrebbe vissuto per un lungo periodo di tempo nel rispetto della legalità. In questi casi, una pena tardiva per un reato commesso anni prima, che funzione “rieducativa” (art.27 della Costituzione) potrebbe mai avere? Quale sarebbe l’utilità per il condannato e per la società tutta di tale sentenza?

La riforma Bonafede dunque, non sembra poter risolvere il cronico problema relativo all’ingolfamento dei tribunali e del numero spropositato di procedimenti giudiziari anzi, potrebbe causarne un peggioramento ed un ulteriore rallentamento.

Ragionando a contrario, verrebbe da dire che una mano alla giustizia potrebbe derivare da una riforma che si basi sulla depenalizzazione dei cosiddetti “reati minori” in modo da ridurre le fattispecie di reato ed il numero di processi, piuttosto che agire nella direzione attualmente seguita dall’esecutivo.

Direttore responsabile: Claudio Palazzi

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