Ho incontrato Morteza nella parrocchia di quartiere. Era un luogo perfetto, un luogo che accomuna entrambi, in modi diversi. Qui, seduti su un muretto, Morteza inizia a raccontarmi la sua storia, senza fare pause, tra una sigaretta e l’altra. Storia di un lontano Afghanistan e di un viaggio verso Roma InpressMagazine Direttore CLaudio Palazzi
Tra Iran e Afghanistan
“Sono nato in Iran, da genitori Afghani. Loro erano emigrati dalla precedente guerra, dall’invasione sovietica e per salvarci la pelle avevano deciso di recarsi al confine più vicino del Paese. Sono rimasti lì un bel po’ di tempo. Quando i russi sono andati via mio padre ha deciso di tornare in Afghanistan. Io in realtà non sapevo cosa significasse guerra o essere immigrato, neanche mi immaginavo di essere straniero. Una sera, tornando a casa, mio padre a tavola mi dice: «Dobbiamo tornare nel nostro Paese». «Che vuol dire nel nostro Paese? Non ci siamo già?» chiesi io. Mi risponde di no: «Noi siamo immigrati, questo non è il nostro Paese. Il nostro Paese è l’Afghanistan, voi siete nati qua. Nel mondo dei piccoli, andando a scuola, non ci sono persone grandi che ti dicono che sei straniero o che ti chiedono da dove vieni. In realtà noi siamo afghani e dobbiamo tornare in Afghanistan». Papà ovviamente decideva tutto, non è come la libertà nei Paesi occidentali dove anche le madri possono decidere, quello che diceva lui il resto della famiglia doveva eseguirlo. Siamo tornati in Afghanistan, nella città di Herat. Era stato un grande trasferimento, avevamo dovuto traslocare totalmente e io, dalla mattina alla sera, non trovavo più la scuola. In Iran andavo in prima elementare, ma in Afghanistan non c’era sicurezza che ci fossero istituti aperti, così ci siamo ritrovati dalla mattina alla sera come persone disperse nel nulla. Mio padre e i miei fratelli maggiori si erano comprati un pezzo di terreno per costruire una casa ma la costruzione fu un po’ lunga. Non avevamo molti soldi, quindi hanno costruito poco alla volta e per un anno siamo stati accolti da nostri paesani. Ci avevano dato una casa mezza distrutta con giusto un tetto, siamo stati là finché la casa non fu finita. Credevo di essere sopravvissuto al peggior momento, per me quel trasferimento era stato un trauma. Stavamo in Iran in serenità e tranquillità e ritrovarsi in quella condizione era stato terribile. Non sapevo cosa fare, non ero grande e non ero in grado di decidere, avevo circa 7 anni. Sono stato due anni in Afghanistan e in quegli anni ci sono stati per lo più i talebani. Erano arrivati dopo circa tre mesi dal nostro ritorno in Paese. Un giorno, a casa nostra, si presentano alcune persone che facevano parte dei gruppi talebani dicendo a mio padre che i figli maggiori avrebbero dovuto recarsi da loro per combattere con loro.
Conobbi alcuni miei cugini. Quando abitavamo in Iran c’erano anche dei fratelli di mio padre che però erano andati con i russi come interpreti. Anche loro tornarono in Afghanistan per raggiungere la famiglia. Un giorno mio cugino mi dice: «Perché non ce ne andiamo in un altro Paese?». «Come in un altro Paese? Ci vogliono i soldi, ci vogliono le conoscenze» rispondo io. «Andiamocene, cerchiamo nuove opportunità. Qui non ci sono scuole». Mio cugino aveva 4 anni più di me, io ne avevo 9 e lui 13, ero un ragazzino e cascando alle sue storie gli dissi: «Va bene, andiamo, ma come facciamo senza soldi? Senza soldi non si va da nessuna parte». Lui mi confidò che suo padre aveva un po’ di soldi nascosti, decidiamo di prenderli, di rubarli in realtà. Una mattina abbiamo detto che uscivamo per andare a giocare, ma non era così, siamo scappati di casa, senza salutare nessuno.
Siamo entrati prima in città per chiedere come potessimo andare al confine. C’erano molte persone che ci guardavano e ci chiedevano dove fossero i nostri genitori, fino a che un signore non ci indicò di prendere un biglietto e salire su un autobus. Ovviamente non ci sono leggi sul fatto che un minorenne possa o non possa viaggiare, chi può permettersi di comprare un biglietto può viaggiare. Arriviamo al confine con l’Iran, l’unico Paese che conoscevo, ma non potevamo attraversarlo perché non avevamo alcun documento con noi. Quello fu un grande problema, ma anche un nostro errore, non avevamo pensato di prendere un qualunque documento da casa. Mio cugino chiede allora ad un signore come potessimo fare e lui ci dice: «Venite, venite! Vi aiuto io». Per noi aiuto significava aiuto, ma in realtà lui aveva già preso accordi con altre persone. Siamo stati veduti, entrambi, senza saperlo, eravamo all’oscuro di tutto questo. Il signore ci indica delle persone e ci dice di andare con loro come parte della famiglia. Così attraversiamo il confine. C’era un pullman ad aspettarci, era già tutto organizzato, ci portano in un paesino e ci nascondono dentro una casa. In realtà noi non sapevamo che non potevamo uscire o che eravamo suoi prigionieri fino al pagamento, come ci avrebbe detto dopo, credevamo davvero che le donne e i bambini che stavano con lui erano la sua famiglia. Eravamo ancora all’oscuro del fatto che fossimo stati venduti, eravamo convinti che ci fosse capitata una persona onesta, non ci aveva detto niente riguardo al volere dei soldi, anzi, gliene abbiamo anche dati credendo che ci comprasse il biglietto per passare, ma quei soldi sono finiti nelle sue tasche. Arrivati in questa casa mio cugino si rivolge all’uomo: «Noi ce ne andiamo, non disturbiamo». «No, non potete andare via così, dovete darmi i numeri dei vostri genitori». In quel periodo chiaramente non esistevano i cellulari, magari c’era solo un telefono di linea nei paesini con cui chiamare, inoltre, noi non avevamo nessun numero. Ci chiede allora se avessimo parenti in Iran. Io sapevo di avere una parente in Iran, ma scoprii tempo dopo che era mia sorella. Prima che io nascessi, o forse quando ero piccolo, si era sposata ed era andata a vivere a Teheran, non sapevo niente però, neanche di avere una sorella. In tutto ciò, i miei genitori iniziarono a preoccuparsi, erano tre giorni che eravamo usciti di casa per giocare, così chiamarono mia sorella, quella di cui ancora non sapevo l’esistenza, ma lei non aveva idea di dove fossimo. Mia mamma e mio papà si erano tranquillizzati solo per il fatto che con me ci fosse mio cugino. Lui aveva 13 o 14 anni, non è come in Italia che a quell’età sei ancora un ragazzino, lì sei già grande. L’uomo ci dice: «Se voi non pagate, dovrete lavorare nei campi per me». Ero piccolo e non ero in grado di lavorare, ma mio cugino ci andò. Siamo stati un anno completamente prigionieri, potevamo uscire ma non al di fuori di quello che diceva lui o di quelle persone che ci controllavano. Un giorno con mio cugino decidiamo di dire basta. Conoscevamo le strade e i mezzi di quel paesino, così, decidiamo di scappare. Pensavo che male che fosse andata ci avrebbe preso a calci e pugni, ma non sarebbe stato peggio di quello. Dovevamo andarcene da lì.
Per strada ci ferma la polizia iraniana. Ci hanno fatto delle domande e si sono resi subito conto che eravamo afghani. Gli abbiamo raccontato tutto e ci hanno trasferito in un centro profughi dove siamo stati tre giorni. Strano mondo, lì troviamo mio cognato, il marito di mia sorella a Teheran. Il problema del centro profughi in Iran è che non è come quelli occidentali, con minorenni da una parte e adulti dall’altra. In Iran c’era un sistema molto particolare: tutti i profughi che prendevano in giro per il Paese senza documenti, che fossero criminali o persone che dovevano essere rimpatriate, venivano portati nell’unico centro d’accoglienza che è praticamente una prigione dove non hai libertà di uscire né di fare altro. Ho conosciuto il marito di mia sorella, per caso. Stavamo parlando e ad un certo punto mi dice: «Ei tu hai una faccia molto conosciuta. Ho una foto a casa mia, ma è strano che stai qua». Il destino è veramente strano. Mi chiede come mi chiamassi, chi fossero i miei fratelli, i miei genitori e ridendo esclama: «Beh io sono tuo cognato!». Rimango stranito, penso ‘mio cognato? Quale cognato? Io ho solo una sorella piccola’. Quello che a quanto pare era mio cognato mi racconta tutta la storia. Lui aveva una piccola foto di mia sorella nel portafogli, in bianco e nero, una foto tessera. La tira fuori e me la fa vedere. Da lì mi sono fidato di lui. Ovviamente l’aveva anche avvisata di contattare i miei genitori per rassicurarli. Per fortuna era stato destino che dovessimo trovarci lì.
In Iran c’è molta corruzione, per cui se hai un po’ di soldi dietro puoi comprarti anche i poliziotti. Mio cognato la sera mi consiglia di non andare a dormire: «Se Dio vuole oggi usciamo». Quando ti ritrovi in quel posto o riesci a corrompere qualcuno o dopo un paio di giorni ti mandano obbligatoriamente fuori dal Paese, ti rimpatriano. Ci avrebbero fatti tornare in Afghanistan. Lui quindi pagò un poliziotto che ci mise dentro un pick-up coprendoci con dei teloni. Ci portano fuori da quel posto fino ad arrivare a Kerman. Da lì mio cognato riesce a organizzare tutto e arriviamo a Teheran. Siamo rimasti lì e dopo qualche mese mi hanno raggiunto anche i miei fratelli. Erano stufi di rimanere in Afghanistan senza lavoro, senza niente, obbligati dai talebani a combattere per loro. Scapparono clandestinamente. Io sono rimasto con loro a lavorare, ovviamente di istruirmi me lo potevo dimenticare. Anche se mio cognato ci aveva portato a Teheran non avevo alcun documento. In Iran trattavano malissimo gli stranieri, eppure io ero nato lì. Un bambino che nasce in Italia ha diritto ad avere un documento, anche se ha genitori stranieri, in Iran non era così. Al documento non hai diritto fino a che non decidono loro, non gli importa se sei nato lì, per loro non conti niente, sei uno straniero, sei un intruso, non hai alcun diritto. Gli unici documenti che avevo erano stati persi nel primo trasferimento che avevamo fatto per tornare in Afghanistan. Speravo che magari ci fosse qualche pezzo di carta che documentasse che avevo fatto la scuola in Iran, così chiesi a mia madre, ma mi disse che avevano perso tutto, avevano portato con loro solo il necessario. Ero rimasto senza niente, sulla carta ero senza identità. Dopo alcuni anni passati con i miei fratelli in Iran torniamo in Afghanistan. Un giorno vengono da me e mi dicono: «Dobbiamo tornare perché mamma sta male. Tu sei andato via che eri un ragazzino, giustamente vorrebbe vederti. Sei cresciuto ormai». Mio fratello maggiore voleva tornare per sposarsi, aveva una fidanzata ed erano alcuni anni che se ne era andato. «Abbiamo raccolto un po’ di soldi in questi anni in Iran, possiamo permetterci di tornare a casa dai nostri genitori e cercare qualche opportunità» continuò. Ci convinse a tornare. In quel caso ci siamo decisi tutti quanti, hanno chiesto anche la mia opinione, ma loro avevano già organizzato il rientro. Allora siamo tornati e mio fratello si è sposato. Io avevo circa 13 anni. In Afghanistan però non c’era alcuna opportunità, c’erano ancora i talebani. I talebani sono stati malvagi, molto malvagi. Mio fratello rimane con sua moglie e io e altri due fratelli ci confrontiamo: «Che facciamo qua? Non possiamo studiare, non possiamo lavorare. Dobbiamo trovare una soluzione». Decidiamo quindi di tornare in Iran, di nuovo, clandestinamente. Era sempre dura, ma potevi corrompere i poliziotti. Li pagavi ed entravi senza problemi. Una volta che entravi in Paese dovevi solo stare attento ad uno specifico corpo di polizia. Loro si occupavano solo di immigrati, se ti capitava quella pattuglia ti fermavano, altrimenti i poliziotti normali o di altri corpi non avevano interesse né permessi per fermarti. Bastava evitare quelle macchine. C’è un filo molto teso tra i due popoli e si vedeva anche quando giravi in città, c’erano persone che ti vedevano, si giravano e ti dicevano parole scomode, si sfogavano con chiunque, compreso con me. Non gli importava che fossi un bambino.
In Iran lavoravamo dentro i palazzi in costruzione. I miei fratelli erano abili nel lavorare come muratori e dove lavoravamo dormivamo anche. Funzionava così: dove iniziavano a costruire i palazzi c’erano delle stanzette fatte apposta per gli operai, per cui chi aveva famiglia andava lì con tutti, chi non aveva famiglia invece formava dei gruppi. Noi avevamo una stanzetta, con me e i miei fratelli. Un giorno, dopo un paio di anni che eravamo rientrati in Iran, venne a trovarci un amico di mio fratello dicendo che voleva andare in Europa. Io ho pensato ‘cos’è Europa?’ per me poteva essere un piatto di pasta, di riso. La parola Europa mi era completamente sconosciuta. Loro parlavano e io ascoltavo e mi chiedevo cosa fosse questa Europa. Mi rimase in mente per alcuni giorni così decisi di chiederlo a mio fratello. È scoppiato a ridere, mi sono quasi offeso, pensavo mi stesse prendendo per i fondelli. «Europa è un continente – mi dice – purtroppo tu non hai potuto studiare.» Era vero, io non avevo neanche finito la prima elementare. Allora gli chiesi cosa fosse un continente e lui mi spiegò tutto: «Guarda che il mondo è diviso in parti, i continenti, che si chiamano Europa, Asia, America, Australia e Africa…» In quel periodo dopo la parola Europa, mi ero incuriosito su tutto. Lì nel palazzo in costruzione con noi c’era un signore che scolpiva sui marmi delle forme che poi mettevano sulle colonne del palazzo. Mi piacque tantissimo questa forma di arte, per me era una novità assoluta. Chiesi allora al signore di insegnarmi, ma mi disse che mica era una cosa che si poteva insegnare in qualche ora o in un giorno. «Io ho tanto tempo a disposizione, ho tutta la giornata, ho tutto il mese. Sto qua!» gli dissi, anche perché non lavoravo come i miei fratelli, ero piccolo e loro non mi facevano fare tanto, mi proteggevano. Nonostante non fossero i miei genitori si sentivano responsabili per me, quindi davo solo una mano quando ce ne era bisogno. Questo signore iniziò a insegnarmi l’arte della scultura e nel mentre mi spiegava la sua storia. Mi disse che era una pratica molto antica che veniva da grandi imperi e iniziò a raccontarmi di questi grandi imperi, l’impero greco, l’impero romano. Per me più che un momento di lavoro era una lezione di vita, imparavo cose nuove. Nel frattempo, però, mi sentivo come prigioniero per il fatto che non sapessi scrivere, non sapessi leggere. Vedevo le persone che prendevano carta e penna e scrivevano e io non lo sapevo fare. Chiesi ai miei fratelli di aiutarmi e loro mi dissero: «Tu lo sai che noi siamo clandestini. Non possiamo fare niente purtroppo, però so che ci sono alcune associazioni che fanno corsi serali e insegnano l’alfabeto, così magari puoi imparare a scrivere qualcosa, anche solo nome e cognome. Vediamo se troviamo alcune persone che frequentano queste associazioni e vediamo se riusciamo a mandartici. Purtroppo alla scuola pubblica non puoi andare». Di giorno, allora, andavo da questo vecchietto che mi insegnava a scolpire e di sera andavo in questa associazione. Erano tutti adulti lì, io ero il più piccolo. Imparai a scrivere e a leggere la mia lingua e così iniziai a leggere un paio di libri sulla storia di Roma, come era stata costruita, chi era il popolo romano. Da là ho scoperto il vero mondo. Prima di allora non sapevo cosa significasse impero o altro, per me erano solo racconti del signore che mi insegnava a scolpire.
Un giorno andai dai miei fratelli e gli dissi: «Io voglio andare in Europa!». Loro si arrabbiarono molto «Che ti sei messo in testa? Tu pensi che l’Europa è vicina? Come Iran e Afghanistan che basta un autobus? L’Europa è lontana, prima devi attraverso l’Iran, poi la Turchia. Per arrivare in Europa è un lungo viaggio, tu pensi che sia una cosa facile?». Mi misi a piangere «Io sono curioso, voglio conoscere questo impero romano», gli dissi. Per me quello era il posto in cui potevo imparare l’arte della scultura. Io non volevo andare in Europa, i miei fratelli mi avevano detto che l’Europa era grande, io volevo andare a Roma, neanche in Italia, proprio a Roma. La mia istruzione era così bassa che non sapevo che Roma non fosse un Paese ma una città. Per me Roma era una cosa grande. I miei fratelli videro che io ero davvero convinto di andare, così, dopo qualche giorno vennero da me: «Se aspetti un mese, cercheremo di contattare alcuni amici e vediamo come si può andare, vediamo che possiamo fare». Per me, in realtà, in quel periodo la famiglia non esisteva più, avevo un enorme obiettivo dentro di me. Era quella l’unica strada della mia vita. Non sapevo sarebbe stato così difficile, non sentivo voci da nessuno. Volevo andare a Roma, volevo conoscere quest’arte. Roma era un mondo che mi ero creato dentro di me, un mondo a parte, un paradiso. I miei fratelli un giorno mi svegliarono dicendomi: «Fatti la doccia oggi». Gli chiesi perché. «Come perché? Non volevi andare in Europa? Fatti la doccia, tra due ore c’è una persona che ti viene a prendere e ti porta». Ero così felice che credevo di essere l’unico sulla faccia della terra, tutto il mondo era mio. Ma è da là che iniziarono i veri problemi. Fu dura, molto dura.
L’inizio di un lungo viaggio
La persona che venne a prendermi era un trafficante di essere umani. I miei fratelli avevano preso dei contatti, gli aveva fatto tante promesse e rassicurazioni sul viaggio. Arriva questa persona e mi chiede cosa avessi con me. Io avevo messo in una piccola sacca il dentifricio e il pettine, ai tempi avevo dei bellissimi capelli lunghi. Mi dice di svuotare tutto e prende la bottiglietta d’acqua dicendomi che mi sarebbe servita solo quella. «Devi partire leggero, non ti serve nient’altro». Parto con lui. Mi porta dentro una casa dove trovo altre sette o otto persone che dovevano andare in Europa. Sono rimasto lì circa 3 giorni. Una sera ci dice: «Domani mattina presto partiamo. Verrà un furgoncino. Quando viene partiamo». La mattina dopo mi alzo, non ho avuto neanche il tempo di lavarmi il viso, prendo la bottiglia d’acqua e andiamo. Mi consigliarono di non bere tanto e, soprattutto, di tenere quella bottiglietta solo per me. Saliamo sul furgoncino che ci porta al confine con la Turchia. In quel tragitto non ci siamo praticamente mai fermati, ci abbiamo messo circa 14 ore, tutte in un unico viaggio. C’erano due autisti che ogni tanto scendevano per dirci solo che se dovevamo andare in bagno potevamo andare nel deserto. Queste erano le uniche soste. Io ancora non capivo perché non ci fermassimo da qualche parte a mangiare, ero il più piccolo lì dentro. Mi spiegarono che essendo clandestini non potevamo farci vedere, era pericoloso, e mi suggerirono di respirare il necessario e di non parlare molto. «Se loro dicono bevi, tu bevi, se loro dicono siedi, tu ti siedi» così mi dicevano. Ero manovrato completamente da loro. Arrivati al confine ci fecero scendere di fretta e ci fecero sdraiare nascosti sotto un ponticello. Era quasi giorno, eravamo stati in viaggio tutto il giorno e tutta la notte. Ci dissero di non muoverci finché non sarebbe arrivata un’altra macchina e noi rimanemmo lì. Con noi avevamo solo due barilotti di acqua caldissima che si trovavano nel furgoncino, quella era l’unica acqua da bere e dovevamo fare attenzione perché non sapevamo quando sarebbero venuti a prenderci. Non abbiamo mangiato niente per tutta la giornata. Era notte, di nuovo, quando sentiamo una macchina passare sulla strada. La macchina si ferma e suona il clacson, scende una persona e ci dice di salire. Quando saliamo la macchina aveva le luci spente, me lo ricordo perfettamente perché mi chiedevo come facesse a vedere la strada. Facciamo circa un’ora di strada e arriviamo sotto una montagna. «Dovete rimanere qua, tra mezz’ora una persona vi dirà il mio nome. Dovete andare con lui». Però nessuno sapeva il suo nome, non avevamo il permesso di parlare e nessuno glielo aveva chiesto. Nel frattempo io mi ero sdraiato, mi facevano malissimo i piedi, non avevo mangiato tutto il giorno. Arriva questa persona e ci dice di andare con lui. Loro sapevano tutto, sapevano quanti eravamo. Ci chiese se stessimo tutti bene e se riuscissimo tutti a camminare, interviene un signore: «Noi si, ma forse il ragazzetto no, non ce la fa, è esausto, è tutto il giorno che stiamo senza mangiare». Questa persona ci fa camminare circa due o tre ore dietro la montagna. Da lì vedevamo la città al confine. Ci porta in un posto dove in Iran trasportano petrolio clandestinamente, i curdi trasferivano il petrolio sopra i cavalli con dei grandi barili. Ce ne erano milioni di loro, sembrava un mercato a cielo aperto. Al confine tra Iran e Turchia, infatti, controllavano solo i curdi, perché erano per lo più loro che trasportavano petrolio clandestinamente o erano trafficanti di uomini. Ci portano da un’altra persona che ci indica un pick-up blu e ci dice di salire lì, dietro però, perché davanti doveva mettere la merce. In quel momento mi sentivo molto male. Quella persona mi vide e sparì qualche minuto, poi tornò con un filone di pane molto secco, così secco che era quasi impossibile da mangiare. L’ho dovuto bagnare con quell’acqua caldissima.
Attraversiamo il confine con la Turchia e dopo qualche ora arriviamo in un paesino. Ci porta dentro una stalla e ci dice di rimanere in silenzio. Abbiamo dormito sul fieno, non potevamo uscire da quel posto, la polizia avrebbe potuto arrestarci. Il signore esce a cercare del cibo e noi rimaniamo lì tutta la notte. La mattina presto, appena sorto il sole, torna con del formaggio, dei barilotti d’acqua e del pane. Questa volta era pane caldo, appena fatto. Quella sera la stalla divenne un mercato. Ci siamo trovati davanti una quarantina di persone che ci indicavano e dicevano: «Questo è mio, questo è tuo…». Eravamo come merce animale. Il loro compito era prenderci e portarci alle varie destinazioni. Vicino a me arrivò un signore di mezza età. Parlavano tutti curdo e io capivo solo alcune parole. «È lui il piccolino? Lui deve venire con me». Questa persone mi prende, ero molto spaventato, in Iran e in Afghanistan avevo sentito molte storie brutte, mi chiedevo dove mi avrebbe portato. Lui però mi faceva dei segni per dirmi di non avere paura. Mi chiede se avessi un numero di telefono e qualcuno da chiamare. Io avevo il numero del cantiere dove stavano i miei fratelli in Iran. Prende il numero e chiama mio fratello. «Tuo fratello è con me, ora mi devi dare i soldi» erano i soldi accordati con la persona in Iran, «Se ci dai i soldi tuo fratello arriva a destinazione e lo portiamo a Istanbul, se ce li mandi oggi, noi ti mandiamo delle persone a cui darli. Questa persona ci contatterà e quando sarà tutto ok faremo partire tuo fratello. Sappi che lui è già in Turchia, deve ancora arrivare a Istanbul». A quanto pare l’accordo era fino là. Mio fratello gli chiese: «Come me lo garantite?». «In queste strade non ci sono garanzie, tu hai preso accordi» rispose il signore. Mi passa mio fratello che mi chiede come stessi, se mi avessero maltratto. Chiaramente non mi avevano maltrattato, ma non ero neanche stato trattato bene, ma purtroppo era normale. Il signore mi porta a casa sua. Ovviamente per il pagamento c’era bisogno di tempo, la persona che doveva riscuotere i soldi a Teheran sarebbe arrivata dopo qualche ora. In macchina con noi c’era il figlio. Mi disse di fare silenzio e che se ci avesse fermato la polizia non avrei dovuto dire niente, ma non ci fermò nessuno. Arriviamo a casa sua dove la moglie stava preparando la colazione e mi invita a mangiare con loro, c’era il latte. Il signore che mi aveva preso mi dice: «Se vuoi andare a giocare con mio figlio vai pure, quando tuo fratello ci da i soldi, passiamo la giornata e partiamo». I miei fratelli hanno pagato subito. Durante il pranzo l’uomo mi informa che è tutto ok, i soldi erano arrivati, potevamo partire, però, mi dice che prima sarei dovuto andare a tagliare quei capelli. Il figlio mi portò dal barbiere. Parlava curdo e qualche parola la capivo. Mi chiese subito se fossi afghano, chissà quanti ne vedevano loro. «Ti stanno facendo sistemare per mandarti via?» mi dice ridendo, «Spero di si» rispondo io. Il signore che mi aveva preso in Turchia era stato molto gentile, molto affettuoso, anche la moglie. Loro in realtà con i soldi degli immigrati si guadagnano da vivere, per loro è come se fosse un lavoro.
La sera mi porta al terminal, parla con l’autista dell’autobus e gli spiega che dovevo arrivare a Istanbul. L’autista mi dice che dovevo sedermi agli ultimi posti e mi dice di non scendere mai prima degli altri passeggeri. Se mi faceva cenno di scendere dovevo scendere, se mi faceva cenno di salire dovevo salire. Mi dice di non preoccuparmi per il mangiare, quando loro sarebbero scesi lo avrebbero portato anche a me. Siamo arrivati a Istanbul di mattina, perché si viaggiava sempre di notte. Scendo e l’autista mi chiede se avessi dei soldi, me lo chiede a gesti perché io non capivo il turco. Mi da dei soldi lui e mi dice: «Se vuoi mangiare, questi sono soldi tuoi». Io, in realtà, avevo già dei soldi con me. Mi porta fuori dal terminal e mi fa vedere che eravamo arrivati. Mi guardo intorno e penso ‘come faccio ora?’. Davanti a me c’era una città completamente diversa a quelle a cui ero abituato, con una libertà diversa. Nel mio Paese le donne giravano completamente coperte, io vedevo invece tutte queste donne senza velo e mi chiedevo se fossero tutti matti. Non capivo come fosse possibile, ero confuso. Quando non conosci non sai. Guardavo tutto a bocca aperta. Vedo un telefono a monete, ma non avevo monete turche con me, così entro in un alimentari. Mi chiedono cosa volessi ma io non capivo. Tiro fuori i soldi e cerco di spiegargli che dovevo telefonare, ma neanche loro mi capivano. Fortunatamente lì fuori c’era un vecchietto che entrando nel negozio riesce a prendermi i gettoni per il telefono. Allora torno al telefono, ma non funzionava. Per le chiamate fuori la Turchia servivano dei gettoni più grandi. Riesco a trovare anche quei gettoni, grazie ai gesti e al signore dell’alimentari. Torno di nuovo al telefono e, stavolta, riesco a chiamare. Non sapevo cosa dovevo fare, dove dovevo andare, a chi dovevo rivolgermi. Gli accordi di mio fratello con i trafficanti finivano lì, a Istanbul. Riesco a contattare mio fratello che mi da un numero di una persona in Turchia. Era un altro trafficante, ma era un mio compaesano afghano. Chiamo questa persona, lui era già stato avvisato di tutto, sapeva che lo avrei chiamato e che doveva venirmi a prendere. È stata un’esperienza per me troppo veloce. A tal punto veloce che in quelle settimane io ero cresciuto almeno 20 anni. Ero un ragazzino che non sapeva cosa volesse dire mondo e sono dovuto crescere completamente, mi si sono aperti gli occhi su una realtà che non potevo neanche immaginare esistesse. Parlo con questa persona, riesco a fargli capire dove mi trovavo, sempre grazie al negoziante che ha parlato con lui. Gli chiede di mettermi dentro un taxi e gli da un indirizzo. Arrivo in quella via e lo trovo in pantaloncini, una cosa per me impossibile da concepire in Iran o in Afghanistan. Entro a casa sua e mi tranquillizza, mi dice di aver già parlato con mio fratello. Mi offre cibo e da bere e mi dice di rilassarmi: «Quando sarà il momento di partire, partiremo». Sono rimasto in Turchia circa un mese. Un giorno mi porta un passaporto: «Questo è un passaporto rubato ad un turista coreano. Con questo ti mandiamo in Europa». «Ma perché, non siamo già in Europa?» chiedo io ingenuamente. «No, questa è Europa, ma non è Europa. Ora ti mandiamo in Grecia. Ci sono delle navi con cui andare. Non ti preoccupare ti lasceranno andare e poi lì ci saranno persone che ti aspetteranno». Stranamente nessuno mi ha fermato. Era tutto una catena, c’erano contatti ovunque. Mio fratello conosceva gente che conosceva gente con cui si prendevano accordi. Era un enorme meccanismo, ma loro non ti dicono mai i nomi, le persone che aspettano sanno sempre chi stanno aspettando. Nessuno li ferma, sono ben integrati. Noi non sappiamo chi ci aspetta, ma loro sanno chi aspettare. Mi fa un biglietto per il traghetto, salgo e il giorno dopo arrivo in un’isola greca. Scendo dalla nave e al porto trovo due miei compaesani che mi aspettano. In Grecia finiva il viaggio, ero arrivato in Europa, ma io dovevo andare a Roma. Queste persone mi prendono e mi dicono di sbrigarmi che il treno per il centro città sarebbe partito in 15 minuti. Arriviamo in città, mi guardano e mi dicono: «Stasera dobbiamo partire e andare ad Atene e da Atene a Patros». Patros era la città da cui partivano le navi per l’Italia. La sera prendiamo un altro traghetto e arriviamo ad Atene, dove siamo rimasti due giorni. Dopodiché hanno preso un biglietto del treno e mi hanno accompagnato a Patros. I miei fratelli già avevano dato tutti i soldi. Ogni ora che passava in questo viaggio io crescevo di anno. Iniziai ad aprirmi molto mentalmente nei confronti di questo nuovo mondo. Iniziava a diventare normale.
Arriviamo a Patros e mi dicono che dopo tre giorni sarebbe arrivato un camion. Era un camion della TNT. C’erano molti autisti italiani corrotti che lavoravano con i trafficanti. Questi camion portavano due persone alla volta, nascosti nelle cuccette dove dormivano gli autisti. In quei tre giorni lì a Patros ho visto centinaia di persone come me che prendevano quei camion. Alla fine del terzo giorno vengono a prendere anche me. La destinazione finale era Roma. Eravamo due lì sopra, ci sistemiamo e ci danno una bottiglia d’acqua per bere e una bottiglietta di thè vuota per eventuali bisogni. Non saremmo potuti più scendere fino a destinazione. L’autista prese i soldi, erano circa 1000 euro. Una cifra enorme, ma io ero clandestino e loro rischiavano. Ci nascondono nelle cuccette e ci mettono un cuscino sopra il viso per fare in modo di non essere visibili, viene controllata la merce del camion, ma non le cuccette, eppure quei due giorni a Patros, avevo visto controllare anche le cuccette. Non so quanto fosse un accordo o quanto fosse un caso, fatto sta che il nostro camion non lo controllarono. La mattina arriviamo ad Ancona. Una volta usciti dalla nave e dal porto gli autisti ci dicono di scendere, eravamo dentro un’area di servizio. Ci porta la colazione e poi al bagno per lavarci. Dopo qualche ora scendiamo in un paesino, l’autista prende dei biglietti per Roma Termini e ci fa vedere cosa avremmo dovuto fare, lui doveva andare via.
Roma
Arriviamo a Roma, scendo a Termini. Ero arrivato a Roma, finalmente, ma ero rimasto molto deluso. Per me era diventata una fantasia, Roma erano castelli, quando scesi, invece, vidi quel McDonald, dietro la stazione. Era terribile, la mia mente si era creata un’immagine di Roma, ma la realtà non era quella. Il camionista che mi aveva portato ad Ancona mi aveva detto che una volta arrivato a Termini sarei dovuto andare alla stazione Ostiense, lì avrei trovato altri afghani. Presi un taxi, non sapevo ci fossero gli autobus, e il tassista mi fece pagare 70 euro. Era un tassista abusivo. Fortunatamente, quando stavo ad Atene, avevo chiesto ai miei fratelli di inviarmi altri soldi, così mi ritrovai con 300 euro. Arrivo a Stazione Ostiense, era la fine del 2005, mancavano circa 10 giorni alla fine dell’anno e dopo alcuni giorni sarebbe stato Natale, ma io non sapevo cosa fosse il Natale. Quando scesi alla stazione fu un’altra delusione, non riuscivo a credere che Roma fosse questa, ero completamente demoralizzato. Dove era la Roma della mia fantasia? Piano piano però ho iniziato a conoscerla. In quel periodo c’erano diverse associazioni che venivano a Ostiense, come i vigili del fuoco o associazioni minori che ci portavano nei centri d’accoglienza. Dopo un paio di sere che mi trovavo lì arrivò un’associazione da parte del Comune di Roma, con un interprete afghano. Ci portarono la cena. Per me era strano che ci portavano da mangiare gratis, senza chiedere niente, come era possibile mi chiedevo. Loro vengono, servono centinaia di persone, non chiedono un centesimo da nessuno, non pretendono niente da nessuno, ti danno da mangiare, con cortesia e gentilezza. Quell’anno faceva molto freddo e ci portavano anche il thè caldo. Era assurdo. Vedi la guerra, vedi la fame, vedi i problemi, poi vedi il maltrattamento dell’Iran, vedi tutta questa fatica della traversata del viaggio, poi arrivi e cercano di darti tutto, senza chiedere niente. Per me era una cosa assurda.
Il terzo giorno che stavo là avevo un appuntamento per il centro accoglienza e sarei dovuto andare in un ufficio del comune di Roma, su via Merulana, un ufficio che gestiva minori. Ai tempi avevo ancora 17 anni. Il ragazzo interprete sarebbe venuto a prendermi alle 14 per portarmi lì. Quel giorno, verso le 10.30 della mattina, viene un prete che ci dice che voleva anticipare un pranzo di Natale, mancavano un paio di giorni al 25 Dicembre. Ci porta in una chiesa a Testaccio e ci serve un bel pranzo. Faceva freddo così ci distribuì anche delle tute per aiutarci. Tornai alla stazione Ostiense e l’interprete portò me ed altri ragazzi all’ufficio del comune, lì iniziarono le procedure per andare al centro accoglienza. Il comune mi da un tutore. La polizia viene a prendere me e un altro ragazzo e ci portano in questa specie di centro a Ottaviano. Era più una casa famiglia in realtà, c’erano solo sei ragazzi, tra cui italiani. Sono rimasto lì circa tre mesi, dopodiché mi hanno trasferito a Casal Lumbroso, sulla Pisana, dove c’era un altro centro accoglienza. Lì eravamo solo stranieri, ma in ogni caso non eravamo tanti, eravamo solo undici. Quando ero stato al centro ad Ottaviano, dopo un paio di settimane mi iscrissero a scuola. Mi ricordo che mi diedero uno zainetto e un libro per la terza media di italiano. Ovviamente non potevano portarmi alle elementari, la terza media era la strada rapida per gli stranieri. Andavo a scuola a Monte Mario e quando mi trasferirono a Casal Lumbroso continuai. Prendevo l’autobus tutti i giorni. La scuola però, anche stavolta, non ho potuto finirla. Da Casal Lumbroso mi trasferirono in un vero centro di accoglienza sulla Casilina, Virtus, e così mi cambiarono anche scuola. Ai tempi iniziavo a parlare un po’ di italiano, a me piaceva molto studiare, purtroppo mi era stata tolta la possibilità molto prima. Un giorno a Virtus mi dicono che avevo tempo altri quattro mesi per trovarmi lavoro, dopo un mese sarei diventato maggiorenne ed era necessario che trovassi lavoro, altrimenti sarebbero stati costretti a mandarmi via dal centro perché non potevano tenere persone maggiorenni, al massimo fino all’età di 19 anni. Dopo quella data dovevamo essere trasferiti in un centro accoglienza per adulti in cui le cose funzionavano in modo molto diverso. Non ho finito la terza media, mi mancava solo un mese, ma dovevo iniziare a cercare lavoro. Il martedì e il venerdì, prima di iniziare il turno, delle persone che lavoravano a Virtus andavano a comprare un giornalino a Porta Portese dove c’erano degli annunci di lavoro. Così noi cercavamo lavoro e se qualcuno non parlava italiano ci davano una mano, chiamavano loro per gli annunci e ci aiutavano a prendere accordi. Il primissimo giorno in cui provai a cercare lavoro era un martedì. Una ragazza che lavorava al centro, Daniela, mi fece notare un lavoro per me. Cercavano un lavapiatti. Tutti noi raccoglievamo i numeri degli annunci che trovavamo e a turno iniziavamo a chiamare. Anche io chiamo questo numero, ma neanche sapevo cosa fosse un lavapiatti. Daniela me lo spiega e io, in realtà, ero un po’ deluso. Ero venuto a Roma con un altro grande obiettivo, l’arte. Il mio sogno rimaneva quello. Mi dicevano che ero testardo, dovevo prima imparare le basi, l’italiano, trovarmi un lavoro e poi avrei potuto fare quello per cui ero venuto. Il numero che avevo chiamato era del ristorante Rosso Pomodoro. Iniziai a lavorare con loro nel 2006, mi ricordo i mondiali di calcio. Era un sacco di lavoro, sono invecchiato di almeno 50 anni in un mese. Tante volte mi dicono che ho il viso di una persona troppo più grande della mia età, io rispondo sempre che, beh, se aveste passato la vita che ho passato io, anche voi lo avreste. Ero dovuto crescere con tanta velocità ogni volta che, durante il mio viaggio, dovevo prendere un altro treno che mi portava in un altro mondo.
Chiamo Rosso Pomodoro e con loro parla Daniela. Lei poi mi spiega tutto, dove andare, come e a che ora. Mi dice di portare il curriculum, ma quale curriculum, mi chiedevo io, non avevo niente da scriverci sopra. Comunque vado. Sapevo poche parole di italiano, così mi avvicino ad una cameriera e gli chiedo dove fosse il responsabile. Mi ricordo bene quella persona, il suo sguardo non posso dimenticarlo. Mi guardò e mi disse: «Ecco un’altra faccia del c**** che è arrivata a cercare lavoro, perché non torna a casa sua». Per me fu una coltellata al cuore. Con tutto ciò che ognuno di noi passa nella vita, ti ritrovi davanti una persona ignorante che ti dice una cosa simile. Era una persona ignorante, perché solo l’ignoranza porta l’essere umano ad essere crudele. Il responsabile stava dentro, ma lei non mi disse dove fosse. Allora esco fuori e mi metto lì davanti ad aspettare. I camerieri andavo e venivano, ma non sapevo chi stavo aspettando, così pensai che quello che avrebbe chiuso il locale era la persona con cui parlare. Ovviamente all’appuntamento non mi presentai, rimasi lì fuori. Alla fine quando chiusero, uscì un signore: «Sei il ragazzo che doveva venire per il lavoro da lavapiatti? Perché non sei entrato?». Io provai a spiegarglielo, ma non parlavo bene, quindi non mi capiva. Alla fine mi disse: «Stasera si lavora!». Mi disse a che ora dovevo presentarmi e mi spiegò qualcosa, ma neanche io capivo bene e continuavo a ripetergli solo che volevo lavorare, continuavo a dire: «Per favore voglio lavorare». Vado al lavoro tutto confuso, senza sapere cosa dovessi fare. Trovo montagne di piatti da lavare, di pentole sporche, erano due giorni che mancava la persona che dovevo sostituire, io però non avevo idea di come fare. C’era la lavastoviglie, macchine per asciugare, per pulire. Non le avevo mai viste prima. Appena provai a usarle feci bloccare tutto. C’era acqua e schiuma da tutte le parti, ma avevo paura a chiedere aiuto. Una volta aperto il ristorante era il caos, il pizzaiolo che mi dava altre cose sporche, camerieri che andavano e venivano, il cuoco che mi urlava di dargli le pentole. Fu un primo giorno di lavoro terribile. Non sapevo cosa dovessi fare, nessuno mi spiegava, nessuno mi aiutava. Per 15 giorni ho fatto il lavapiatti e, anche lì, ogni giorno che passava per me era un anno. Imparare a parlare con le persone e sforzarmi per capirle, conoscere cose nuove, era tutto diverso. Un giorno torna un capo cuoco che era stato in ferie, Massimiliano, mi vede e mi chiede se avessi un amico che voleva venire a fare il lavapiatti, gli chiedo perché e mi risponde «A te voglio in cucina!». «Come in cucina? Io non so fare neanche il lavapiatti e tu mi vuoi in cucina?». Mi disse di non preoccuparmi, mi avrebbe insegnato lui. Dopo un anno sono diventato capo cucina. Mi fecero anche una foto, sta ancora in quel ristorante. Tra un turno e l’altro lui non mi faceva tornare a casa, mi insegnava, mi aveva preso in simpatia, mi aiutava su tutto, mi spiegava come fare i piatti, dalla pasta alla carne al pesce. Mi ha insegnato anche a leggere l’italiano e mi ha fatto prendere la patente, mi pagò lui l’autoscuola. È stato come un padre per me, mi ha insegnato tutto. In quel periodo lavoravo 7 giorni su 7, avevo un giorno di riposo, ma non lo usavo, pensavo solo a tirarmi fuori da quella vita. Un giorno al centro Virtus mi dissero che avendo quasi 19 anni non potevo più rimanere, dovevo trovarmi una casa. Già sapevo che sarebbe successo e infatti avevo lavorato così tanto proprio in vista di dovermi pagare un affitto. Mi ero già informato su tutto, su come funzionava, sui prezzi. Come sempre, ogni giorno che passava era un anno per me. Dovevo andare avanti con tutte queste novità, mi sentivo indietro rispetto alla società. Quando mi arrivò questa notizia andai a parlare con Massimiliano. Rosso Pomodoro ha anche degli appartamenti per il personale, essendo cucina napoletana, molti dei dipendenti erano di Napoli, così, durante la settimana stavano lì e il weekend tornavano a casa. Massimiliano parla con il principale, poi viene da me e mi dice: «Domani prendi tutte le tue cose che ti portiamo a casa». Anche lui dormiva in questi appartamenti durante la settimana. «Tu hai dato tanto a questo ristorante e ti vogliamo premiare. Ti diamo un posto letto». Per me quella fu una vittoria. Il sogno per cui ero arrivato a Roma lo stavo ormai dimenticando.
Da capo cuoco con Rosso Pomodoro sono stato in molti posti. Aprivamo ristorante in Argentina, a Londra, a Milano. Sono stato anche a Pescara e Palermo. Con loro ho viaggiato tantissimo. Nel mio ultimo viaggio, però, a Palermo, il responsabile del nuovo ristorante mi disse che loro stranieri non ne volevano, era la loro politica. Così mi cacciarono. Massimiliano era andato in pensione nel frattempo e allora decisi di non tornare più a Rosso Pomodoro. Sono rimasto disoccupato per qualche mese, poi trovai di nuovo lavoro da Necci, sulla Prenestina. Anche lì ho lavorato come capo cuoco, ma lì c’era anche la pasticceria, allora la mattina facevo il cuoco e la sera facevo panetteria e pasticceria, gratis. Volevo imparare. Ho lavorato con loro circa due anni, poi entrai nel mondo della pizza. Mio padre era un fornaio, come lo era stato mio nonno, sentivo di avere qualcosa nel sangue, ma dopo un paio di anni ho lasciato anche la pizzeria. Ora sono circa 4 anni che lavoro per la ditta Pagi. In quegli anni ho anche conosciuto una ragazza, lei però viene dall’altra parte del mondo. Abbiamo iniziato a frequentarci in amicizia, uscivamo, prendevamo caffè. Stavamo bene insieme. Da allora sto ancora con lei. Un giorno mi disse che aveva un figlio e io le disse che non era un problema per me. «Per te non è un problema? – mi rispose lei – Tu sei musulmano». La guardai e le dissi: «Non giudicarmi in nome del mio Paese o della mia religione, perché in tutta queste sofferenze e in questa vita ho imparato tantissime cose». Ora sono ben sette anni che stiamo insieme.”
Oggi
Ho chiesto a Morteza se ci pensasse mai alla scultura, al vero motivo per cui è venuta a Roma. Lui mi dice che molte persone glielo hanno chiesto, ma purtroppo è come se qualcuno gli avesse tolto quella fantasia. «Però, c’è un detto – mi dice – quando prendi il pesce dall’acqua è sempre fresco, quindi, forse non è mai tardi. Io credo che se qualcuno ha un sogno, lo deve seguire, qualsiasi esso sia, che sia l’astronauta o il dottore, qualunque cosa, secondo me non è mai tardi. Purtroppo però dalla vita devi vedere anche se hai delle opportunità per seguirlo. Ci sono molti problemi nella quotidianità di tutti, dai più banali, come dover lavorare e pagare un affitto, le bollette. Anche quelli sono ostacoli. Ma mai dire mai. Non ho dimenticato perché sono venuto qua». Morteza pensa sempre di tornare in Afghanistan, ma non ne ha la possibilità e soprattutto, molte volte ha paura. Ha paura che anche se ne avesse l’opportunità non riuscirebbe ad andare. «È tanto tempo che sono andato via dal mio Paese ormai, sono cresciuto fuori casa, letteralmente. Forse è anche per questo che ho paura. Se tornassi probabilmente non mi troverei più. Io mi sento completamente cambiato, soprattutto nel modo di pensare. Ho conosciuto il mondo. Ci sono tanti afghani qua a Roma e quando parlano dentro di me mi sento straniero con loro, ormai mi sento più italiano, in tutti i sensi. Lavoro qua, mangio qua, pago le tasse, ho sempre cercato di essere regolare, di capire le leggi e di comportarmi in modo tale da rispettarle. Mi sono adattato e ora mi sento italiano. Sono stato abbandonato dai miei fratelli quando sono arrivato qua, ho preferito però costruire qui la mia vita, con la persona a cui voglio bene. Credo che se tutti quanti avessero dentro di sé un po’ di tenerezza e coscienza, non esisterebbe alcun confine, che sia di Paese o di religione. Purtroppo però c’è tanta ignoranza in questo mondo. Forse, se tornassi a casa mia un giorno, non sarebbe per restare, ma solo per rivedere la mia famiglia. Spero di essere in tempo per farlo».
Morteza durante tutta la sua storia mi ha detto date precise eppure non mi ha detto quanti anni avesse, così gliel’ho chiesto io. Si è messo a ridere. Morteza non sa precisamente quanti anni ha. Mi ha raccontato che una volta, per ottenere dei documenti, un giudice gli ha chiesto un certificato di nascita. Ha detto al giudice che avrebbe anche potuto mentirgli e dirgli che lo avrebbe portato in una settimana, come facevano altri, ma non voleva farlo. Lui non aveva nessun certificato, né sapeva quando era nato. «In Afghanistan gli ospedali mica ti rilasciano dei documenti perché sei nato lì, non è come qua. Devi essere fortunato ed avere genitori che sanno scrivere e hanno appuntato la tua data di nascita da qualche parte, ma è veramente raro» mi dice. La madre, una volta, gli aveva detto che era nato l’anno in cui ci fu una terribile tempesta, ma lui non sapeva assolutamente quale anno fosse. «Mi hanno portato a fare degli esami per capire più o meno quanti anni avessi e mi hanno detto che sono nato tra il 1986 e il 1988. Per semplicità ho stabilito di essere nato nell’ottobre dell’87. Ho quindi 35 anni, ma dentro ne sento infiniti».