È morto il 24 giugno Camara Fantamadi, un giovane bracciante di 27 anni, originario del Mali, a causa delle condizioni di lavoro sotto il sole caldo della Puglia. Il Presidente della Regione, Michele Emiliano, ha immediatamente emanato un’ordinanza con la quale vieta, su tutto il territorio regionale, il lavoro nei campi nelle ore più calde del giorno, dalle 12.30 alle 16.00, fino al 31 agosto. Un provvedimento che ha trovato immediata applicazione. L’ordinanza si limita ai giorni ad alto rischio, come segnalati da Worklimate. Nuova morte di un bracciante in Puglia. Un altro caso o un problema più grande? Intervista a Alessandro Brunetti Claudio Palazzi
L’ennesimo caso, l’ennesimo anno, tanto che questa misura non è la prima del suo genere. Un anno fa anche il sindaco di Nardò, sempre in Puglia, si trovò costretto a prendere provvedimenti simili vietando l’impiego di manodopera nei campi nelle ore calde della giornata. Ma quanto sono realmente efficaci misure di questo tipo? Possono davvero contrastare il fenomeno di sfruttamento sul lavoro? Cosa si dovrebbe fare di più? A queste domande ci ha risposto l’avvocato del lavoro Alessandro Brunetti.
L’intervista
Cosa ne pensa del provvedimento? Dovrebbe essere esteso anche in altre regioni o su tutto il territorio nazionale?
Io penso che sia il classico caso di misura palliativa chiamata dalla risonanza mediatica dell’ennesima morte sul lavoro e che non riesce in nessun modo a incrociare la pervasività, la drammaticità e soprattutto l’estensione generalizzante del fenomeno. È proprio la classica misura opportunistica che cerca in qualche modo di dire qualcosa sul tema, ma totalmente inoffensiva. Il punto è che, in realtà, nei campi, e non solo al sud, si muore, si muore di fatica fisica. Ma la cosa che rende drammatica la situazione è che questa recrudescenza del mondo del lavoro è una recrudescenza che espande i suoi effetti con delle relazioni che vanno ben al di là delle forme classiche di caporalato, relegato alla dimensione del lavoro nei campi. Ovviamente c’è una peculiarità, il lavoro nei campi produce morti di fatica fisica, quello che noi viviamo, invece, sono, in generale nel mondo del lavoro, delle morti psicologiche, di fatica psicologica, proprio perché assistiamo ad una violenza inusitata nel mondo del lavoro rispetto a uno sfruttamento e rispetto al gradiente con il quale si tenta di estrarre il massimo grado di profitto dalla prestazione di lavoro. In ambiti terziari, di servizi, questa fatica psicologica, che produce una morta psicologica, è denunciata dall’altissimo tasso di burnout, di depressione, di angoscia esistenziale e da un utilizzo massivo, in molti ambiti di lavoro, di sostanze dopanti, come l’utilizzo della cocaina per cercare di lavorare a maggior ritmo con le richieste incessanti del mercato del lavoro. Allora quello che colpisce è che, in realtà, la trovata a livello locale di sospendere l’attività lavorativa nelle ore più calde è una goccia d’acqua nel mare, quando noi avremmo strumenti molto più efficaci e molto più puntuali che dovrebbero trovare piena applicazione. Penso all’articolo 603 bis del codice penale. Un articolo che è nato inizialmente per riformare la violenza del lavoro del caporalato nelle campagne. In realtà, poi, nella strutturazione dei lavori di questa norma ne è uscita fuori una seconda fattispecie di reato, coeva alla prima. Da una parte viene repressa l’intermediazione illecita, ma dall’altra viene sanzionato in maniera pesante il reato di sfruttamento del lavoro, che è la causa della morte dell’operaio di cui stiamo parlando. Non è stato il caldo che l’ha ucciso, l’ha ucciso la fatica, l’ha ucciso il padrone, l’ha ucciso lo sfruttamento, che è una cosa ben diversa dalla condizione climatica. Per cui se si può dire “mi raccomando rimanete a casa nelle ore calde”, qua si dovrebbe dire “mi raccomando, censuriamo ogni forma di sfruttamento sul lavoro”. Questa potrebbe essere una raccomandazione meno ipocrita. Parlo del 603 bis, proprio perché la norma, quando vieta l’intermediazione illecita, va a colpire l’ipotesi classica e triangolare del reato di sfruttamento e di caporalato, per cui è fatto divieto al caporale di fornire manodopera sfruttando lo stato di bisogno del lavoratore e imponendo condizioni lavorative di sfruttamento per metterle a disposizione di un terzo utilizzatore. Ma, invece, lo stesso reato sanziona pesantemente lo sfruttamento diretto tra datore di lavoro e lavoratore quando appunto vengono imposte al lavoratore, senza intermediazione di chicchessia, condizioni di sfruttamento e viene sempre, anche qui, sfruttato lo stato di bisogno del lavoratore. La norma è molto puntuale anche perché non si limita a sancire un divieto generale, in attesa di una eventuale specificazione di decreti attuativi, ma spiega, essa stessa, che cosa si intende per sfruttamento e fa riferimento ai casi in cui non vengono applicate le retribuzioni adeguate a un’esistenza libera e dignitosa, in base all’articolo 36 della Costituzione, e quindi non vengono applicate le retribuzioni previste dal contratto collettivo, oppure si ha lo sfruttamento quando vi è la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodo di riposo, al riposo settimanale, alle aspettative obbligatorie alle ferie, oppure, ancora, quando c’è una violazione delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luogo di lavoro o la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza e a situazioni alloggiative degradanti. Per inverare questa fattispecie di reato basta solo uno di questi elementi per fare in modo che sia accertato lo sfruttamento del lavoro in condizioni di bisogno. Allora se lo Stato investisse energie e risorse per perseguire questo tipo di reati, ecco forse le trovate giornalistiche per cui appunto “basta un po’ di fresco e la pillola va giù”, avrebbero veramente meno senso e poi, soprattutto, si potrebbero arginare e invertire questi processi drammatici di sfruttamento e dolore nei campi.
Sappiamo bene che questo non è il primo caso. Ci ricordiamo ad esempio, della donna di 49 anni, lavoratrice agricola in Puglia, morta qualche anno fa a causa delle stesse condizioni di lavoro.
Il problema è che nel nostro Paese si investono risorse e denari per sostenere l’impresa, proprio perché c’è una sorta di sacralizzazione del primo comma dell’articolo 41 della Costituzione per cui l’impresa è libera e dall’impresa sembra che debba provenire ogni forma di sussistenza, prosperità e attuazione dei dettami costituzionali dei diritti soggettivi della persona, quando in realtà lo stesso articolo 41 della Costituzione, secondo comma, dice che l’impresa è libera però deve essere conforme all’utilità sociale, non deve andare contro la dignità umana. Ecco questo secondo comma, nel nostro Paese, non viene mai ricordato, non viene mai applicato, non vengono mai destinate risorse o quelle che ci stanno sono risibili. Se noi andiamo a vedere i numeri degli ispettori del lavoro in Italia rispetto al numero delle imprese e rispetto alla drammatica violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro e i morti sul lavoro, stiamo parlando di sproporzioni inaccettabili per una democrazia moderna. Quindi in realtà quello che manca è una volontà seria di dare piena attuazione sia del testo costituzionale sia di rimettere al centro la dignità della persona e non solo la sacralità dell’impresa e del profitto.
Oltre a questo tipo di misure locali e regionali, cosa dovrebbe fare in più lo Stato per tutelare questo tipo di lavoratori, sia per garantirne la sicurezza che per evitarne lo sfruttamento? Immagino che questa norma se applicata nella sua pienezza possa essere un punto di partenza.
Esattamente. Abbiamo una norma che reprime e prevede il carcere e sanzioni pecuniarie. Se venisse applicata avremmo un impianto anti fraudolento degno di questo nome. Quindi probabilmente potremmo cominciare a contrastare veramente il fenomeno, però finché non vengono applicate queste norme e non vengono disposte, soprattutto, potentissime reti di indagine da parte delle direzioni provinciali del lavoro e aumentando esponenzialmente il numero degli ispettori, noi da una parte facciamo finta di non vedere e dall’altra demandiamo alla forza contrattuale, alla forza anche istituzionale e di cittadinanza che può avere il singolo lavoratore per fare la singola vertenza di lavoro. In realtà non tutti i lavoratori, non tutti i cittadini hanno la forza di poter agire in giudizio, quindi ci servirebbe un’operazione preventiva e profilattica da parte dello Stato per andare a erodere il fenomeno.
Ad oggi, qual è la situazione normativa italiana? Soprattutto nel caso di lavoratori non in regola, quali sono le tutele che lo Stato può garantire?
Lo Stato può tutto con le norme che ci stanno e che ho citato, però mi pare che la domanda che sta facendo ora è: “premesso che lo Stato fa molto poco, cosa può fare il singolo lavoratore”. Il singolo lavoratore irregolare può fare tutto in realtà. Questo purtroppo non si sa. Si pensa che la condizione di irregolarità non consente al lavoratore di potersi rivolgere alla magistratura per una causa di lavoro e veder accertato il proprio lavoro a nero, le proprie condizioni di sfruttamento, il proprio danno all’integrità psicofisica legato a queste condizioni di sfruttamento. In realtà tutto ciò è assolutamente possibile, ma non solo possibile, probabilmente è auspicabile per la condizione di irregolarità in cui si trova il lavoratore, perché se la magistratura riesce a riconoscere la sussistenza di un rapporto di lavoro che nasce subordinato ab origineperché sono state violate le norme del nostro ordinamento in materia di lavoro, è ovvio che c’è la possibilità di poter accedere con maggiore facilità a tutte le norme amministrative finalizzate a ottenere il permesso di soggiorno. Quindi in realtà è un movimento assolutamente virtuoso. Alla domanda cosa può fare il singolo lavoratore non in regola, la risposta è: tutto, tutto quello che può fare un lavoratore in regola, anzi è auspicabile che lo faccia perché così può passare da una condizione amministrativa di irregolarità a una di regolarità.
Però c’è una mancata informazione rispetto a questo. Il lavoratore irregolare, ma anche il singolo cittadino, non sempre è a conoscenza dei mezzi che potrebbe attuare.
Io faccio l’avvocato del lavoro e vengono da me lavoratori italianissimi che cadono dalle nuvole ogni volta che scoprono che ci sono norme che consentono loro di impugnare un licenziamento, di poter ottenere la propria retribuzione in maniera piena o ottenere i permessi. Io credo che in realtà quello che manca è drammaticamente massiccio, il fenomeno dell’inconsapevolezza, soprattutto nei settori più fragili, come può essere il lavoratore straniero. Quello che osservo dal mio punta di vista è una sorta di analfabetismo sindacale generale diffuso, e a questo è complice un sistema il quale sacralizza l’impresa, da soldi all’impresa, aiuta l’impresa, sostiene l’impresa, ma soprattutto sostiene l’idea etica che l’impresa sia all’origine di ogni bene per lo sviluppo del Paese e delle persone, ed è chiaramente una balla neoliberale. Ma questo impianto produce anche una neo-cultura, un gas tossico che impedisce la creazione di una controcultura. Ovviamente a questo fa seguito anche la scomparsa dei corpi intermedi, la debolezza delle associazioni sindacali confederali. Un tempo vi erano delle grandi centrali di organizzazione del conflitto, le quali formavano e costruivano un tessuto culturale in grado di riportare la verità e di diffondere un senso di possibilità e di padronanza del proprio destino, sfruttando gli strumenti che uno ha a disposizione. Adesso c’è un climax soporifero, per cui vengono meno i corpi intermedi e smettono di fare conflitto, l’informazione è assolutamente assuefatta e non si occupa minimante più di poter fornire strumenti antagonistici alle classi disagiate e sfruttate, e ovviamente la gente non sa che c’è la possibilità di giudizio. Questa è la risultante di un fenomeno molto più complesso e molto più grave della semplice ignoranza del singolo imputabile a una scarsa informazione del cittadino.
È quindi un problema sistemico, un circolo vizioso per cui mancano dei passaggi per fare in modo che ci sia più comunicazione?
Che ci sia proprio la controinformazione sulla possibilità che oggi, qui ed ora, si ha per poter riprendersi un pezzo di dignità! Manca proprio questo sapere, e questo è funzionale alla percezione di ogni persona di essere in balia degli eventi, di essere afona, di non avere nessuna possibilità di contrastare il dolore che si prova a lavoro. In realtà ancora molti strumenti e molte risorse ci stanno, ma sono artatamente nascoste ai più.
Recentemente è stato pubblicato un rapporto realizzato dall’Associazione Terra, “E(U)XPLOITATION”, che analizza il fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori agricoli in Spagna, Grecia e Italia, definendola una “questione meridionale”. Quale è la situazione italiana rispetto, invece, agli altri paesi dell’Unione Europea? C’è qualcosa che possiamo implementare, o invece il problema è estremamente diffuso proprio all’interno dell’Unione Europea stessa?
Io penso che sia un problema diffuso all’interno dell’Unione Europea stessa e che non si può separare lo sfruttamento devastante e mortale della manovalanza migrante nei campi allo sfruttamento altrettanto mortale nella manovalanza delle grandi città, nei servizi di pulizia, di cura. Il rischio di concentrarsi al lavoratore agricolo è quello di minimizzare il fenomeno e settorializzarlo. Il problema è che morti e feriti ci stanno nelle grandi fabbriche quando vengono messi lavoratori migranti a fare le mansioni più pericolose e senza dispositivi di sicurezza, quando vengono buttati dentro le cisterne esalando gas tossici. Quindi non mi concentrerei troppo sull’idea che si muore di fatica e di lavoro nei campi. Si muore di lavoro e i soggetti più deboli che muoiono di lavoro in Italia e in Europa sono i migranti che vengono considerate carne da macello. Dopodiché, come la giovane donna uccisa dal telaio che era stato modificato precedentemente da un padroncino per velocizzare la produzione, gli omicidi sul lavoro sono diventati un fenomeno transnazionale che esonda la composizione migrante della forza lavoro. Quindi il tema è cosa si può fare per soffrire meno e vivere una vita dignitosa. Il tema non è di facile soluzione perché non bastano misure settorializzate, come ci vogliono far credere con il problema meridionale dei lavoratori dei campi, ma servono delle misure strutturali e di sistema, come dicevamo prima, che in qualche modo compiano una rivoluzione copernicana su ciò che è al centro di una democrazia moderna, e al centro di una democrazia moderna non ci può stare l’impresa, ci deve stare la dignità della vita.
Quindi tutto risale al fatto che si mette sempre al centro la massimizzazione del profitto e invece in disparte quella che è la dignità dell’uomo?
Esattamente. Modifico il telaio e muore l’operaia, così come blocco i freni di emergenza su una cabinovia e muoiono dei turisti. È un macello continuativo, che però viene continuamente settorializzato perché non si vuol vedere il fenomeno nella sua dimensione intera e il nostro compito è quello di ricomporre questo tentativo di settorializzare e marginalizzare il fenomeno.