In questo articolo, “Storie di lotte e diritti”, troviamo raccontati due episodi della storia di ieri e di oggi, quello di Rosa Parks e di Mahsa Amini. Episodi importantissimi per le conseguenze che hanno avuto e che forse avranno.

Rosa Parks

«Dicono sempre che non ho ceduto il posto perché ero stanca, ma non è vero. Non ero stanca fisicamente, non più di quanto lo fossi di solito alla fine di una lunga giornata di lavoro […]. No, l’unica cosa di cui ero stanca era subire.»

Queste le parole di Rosa Parks, nata il 4 febbraio 1913 nella cittadina di Tuskegee (Alabama) che, assieme al consorte (Raymond Parks), ha fatto parte del movimento per i diritti civili. E di cui ricordiamo la morte il 24 ottobre 2005, di questa donna, nera, che con un piccolo gesto che, seppur da solo non sarebbe bastato, ha cambiato la storia in nome della dignità umana e della libertà.

Ricordiamo tutti l’episodio in cui, tornando dal lavoro, Rosa prende l’autobus 2857, era il 1° dicembre 1955, e si siede nei posti centrali, quelli misti. La regola era che i neri si siedono dietro, i bianchi davanti e i posti centrali si possono usare solo se gli altri sono occupati ma i bianchi hanno sempre la precedenza. Dopo qualche fermata, sale un cittadino bianco e il conducente chiede a Rosa di alzarsi per lasciargli il posto. Ma stavolta Rosa decide di non farlo. Dopo il rifiuto di alzarsi, l’autista chiamerà le forze dell’ordine. Rosa fu incarcerata per condotta impropria ma rilasciata poco dopo su cauzione.

Da questo piccolo gesto scattò la reazione all’ingiustizia subita, una reazione pacifica. Jo Ann Robinson, presidente di Women’s Political Council, invitò la popolazione nera a boicottare i mezzi pubblici di Montgomery. Le proteste durarono ben 381 giorni, tra i leader anche Martin Luther King.

Il boicottaggio funzionò. Il caso Parks arrivò alla Corte Suprema degli Stati Uniti che, il 13 dicembre 1956, dichiarò incostituzionale la segregazione sui mezzi pubblici. Iniziarono così lentamente a sgretolarsi quelle politiche eredità dello schiavismo in vigore fino al 1865, e che al Sud portarono a norme, le “leggi Jim Crow”, che diedero vita ad un sistema in cui gli afroamericani erano confinati in appositi settori, non solo sui mezzi di trasporto, ma in tutti i luoghi pubblici, vittime di umiliazioni, esclusi dalle scuole migliori e da molte professioni, con salari più bassi.

Bisognerà attendere anni prima che una bambina nera possa andare a scuola con i bianchi (era il 1960) alla scuola elementare William Frantz, altri ancora (nel 1962) perché venga ammesso il primo ragazzo nero all’università del Mississippi. Ed altri prima di arrivare al Civil Rights Act (del 1964) che dichiarò illegali le disparità di registrazione nelle elezioni e la segregazione razziale nelle scuole, sul posto di lavoro e nelle strutture pubbliche in generale. Altri ancora fino al Voting Rights Act (del 1965) che proibisce la discriminazione razziale nel voto.

«[…] Il suo atto solitario di disobbedienza civile è stata anche la scintilla che ha acceso milioni di persone in tutto il paese e, in ultima analisi, in tutto il mondo a essere coinvolti nella lotta per l’eguaglianza razziale. […]». Queste le parole di Barak Obama, il 24 ottobre 2005, giorno della scomparsa di Rosa Parks.

Masha Amini

Ed è da questo pezzo di storia che voglio partire per parlare di un’altra lotta per i diritti che stiamo vivendo da giorni in Iran e che non accenna a spegnersi. Mahsa Amini, 22 anni, muore il 16 settembre scorso. Sono passati quaranta giorni dalla sua morte. La storia di Mahsa è ben diversa da quella di Rosa. La giovane ragazza è morta dopo essere stata arrestata, tre giorni prima, dalla polizia morale iraniana perché indossava male il velo. Le cause della morte, a parte le versioni ufficiali delle autorità iraniane, non si conoscono. I manifestanti, scesi in piazza subito dopo la morte della giovane, ritengono sia morta a causa dei colpi ricevuti alla testa e agli organi vitali dalla polizia religiosa.

Le proteste nel paese non accennano a diminuire nonostante la dura repressione del governo e le oltre duecento vittime. I cori gridano “Morte all’Ayatollah”, “Ucciderò chiunque ammazzerà mia sorella” e, soprattutto “Donna, vita, libertà”. In queste proteste le ragazze si tolgono il velo, lo sventolano o lo bruciano e si tagliano ciocche di capelli. Ma le donne non sono le uniche scese nelle strade, nelle piazze, nelle città del paese. La rabbia ha contagiato uomini e donne, giovani e meno giovani, i ricchi a fianco dei più poveri.

Le proteste non riguardano più solo la morte di Mahsa, che pure ha provocato lo sdegno nella popolazione iraniana, ma ad essere messi in discussione sono i principi della Repubblica Islamica. L’obbligo di indossare il velo è una normativa stabilita all’indomani della rivoluzione khomeinista (1979), ed ha natura essenzialmente politica e molto poco religiosa.

Una norma, quella dell’obbligo di indossare l’hijab, che gli iraniani non hanno mai gradito, soprattutto i più giovani. Oggi l’Iran ha subito una profonda trasformazione demografica, dove il 75% degli iraniani è al di sotto dei 35 anni di età. Le proteste sono guidate dalla cosiddetta Gen Z, i quali chiedono riforme, tra cui l’abolizione della polizia religiosa, la libertà di espressione e di informazione. Insomma, le proteste nate attorno all’obbligo dell’hijab, potrebbero trasformarsi in un’ampia e trasversale azione politica.

Ricordiamo che, come racconta ISPI nel suo podcast, nel paese convivono tre generazioni. Quelle di governo che sono la generazione rivoluzionaria e quella della guerra contro l’Iraq e poi i giovani, che non hanno rappresentanza politica. I giovani si distinguono, guardano in parte all’Occidente ma lo fanno con una forte componente locale ispirata alla storia del paese, alla sua identità nazionale.

È chiaro che la protesta è molto diffusa, molto partecipata ma allo stesso tempo poco organizzata: Manca ancora una leadership!

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