Nascere nella parte giusta di mondo è una fortuna. Non ce ne accorgiamo mai, o meglio, solo quando sovviene una minaccia per il nostro ordine. Nascere nella parte giusta di mondo  fa chiudere gli occhi davanti a tanta barbarie; atti vili ovunque, tutti attorno a noi, ci circondano, si addentrano nei meandri della nostra realtà occidentale piena di benessere e prosperità. Ma non si tratta di un virus o una malattia: siamo noi.

Noi, con i nostri pregiudizi, stereotipi, discriminazioni, noi con la nostra visuale prettamente eurocentrica e privilegiata. Siamo figli di una parte di mondo in cui le guerre le combattiamo a casa degli altri, in cui la massa ha la pancia troppo piena per scendere in piazza e, quando scende, la maggior parte delle volte se ne pente. Quella in cui va tutto male ma ci si accontenta, perché comunque non ci manca niente.

Ciò non toglie che anche qua abbiamo i nostri demoni. Ma siamo bravi a nasconderli, a non parlarne, a celare le polveri sotto al tappeto.

Di polvere ce ne è tanta, tantissima, sul suolo del campo nomadi di Castel Romano. Calpestarne la terra smossa significa mettere piede nell’Italia peggiore. L’Italia che marcisce amaramente nei propri peccati.

Il campo nomadi di Castel Romano è il più grande di Roma e tra i più grandi  di Italia, ci vivono più di 800 anime, seppur oggi ne sia stata sgomberata un area (area F).

Sulla carta si chiama ‘villaggio della solidarietà’ ma, appunto, solo sulla carta.

Venne riempito come si riempie un sacco dell’immondizia: ammassando tutto. Nasce dalle ceneri dello sgombero di Vicolo Savini del 2005,  insediamento da cui vennero prelevate tutte le famiglie (molte delle quali avevano un lavoro e mandavano i figli a scuola) e portate a Castel Romano, togliendo loro quel piccolo ritaglio di umana stabilità che si erano conquistati.

Alle porte di questo ‘villaggio solidale’ troviamo stanziate quasi ogni giorno camionette dell’esercito, con i rispettivi militari armati, e ogni tanto  volanti della polizia municipale, lì posti   con l’intenzione di mantenere l’ordine quando un ordine non c’è mai stato.

Tutti attendono con ansia ogni settimana l’arrivo dei volontari, ‘quelli che con gli zingari ci sanno fare’. Da anni, due giorni a settimana,  viene svolto il servizio medico per adulti e bambini grazie a camper itineranti di associazioni e ospedali. E ogni settimana si forma una calca di gente con la necessità di essere visitata soprattutto in tempi come questi.

In mezzo a tutto ciò, tra tutta questa polvere, è pieno di bambini. Bambini che hanno una sola arma contro il male del mondo: l’istruzione. I bambini, e soprattutto le loro famiglie, non conoscevano fino a qualche anno fa l’importanza della scuola. Spesso infatti i genitori non si preoccupavano di svegliarli e mandarli a prendere il bus che li avrebbe portati a scuola (servizio di bus, peraltro, garantito grazie all’impegno costante e determinato della Comunità di Sant’Egidio, che da anni si batte per le comunità rom di Roma e non solo). Così facendo, i bambini andavano a scuola 1 giorno su 7 e non potevano tornare in classe perché era necessario il certificato medico dopo 5 giorni di assenza; certificato che senza servizio medico garantito, è arduo ottenere.

Per sopperire a questa grave mancanza di istruzione e scolarizzazione la C. di S.Egidio svolge ormai da anni durante l’estate una scuola di recupero per tutti i bimbi del campo nomadi, scuola mandata avanti da volontari (spesso ragazzi) e insegnanti. A fine ‘scuola’ si tiene una recita a cui sono invitati docenti e presidi di diverse scuole della capitale, così da far vedere loro quanto potenziale abbiano questi ragazzini troppo spesso abbandonati all’ultimo banco della classe solo perché diversi e discriminati dagli insegnanti stessi.

Questa serie di piccole (ma grandi) iniziative ha portato ad un tasso di scolarizzazione decisamente molto elevato rispetto a quello di 5 anni fa, ad un maggior senso di responsabilità da parte delle famiglie e soprattutto una possibilità di riscatto per tutti quei bambini.

Dunque possiamo dire che la situazione sia sicuramente migliorata ma perché questi bambini, nonostante tutti gli sforzi e i miglioramenti, ancora oggi spesso non sono accettati nelle scuole?

Appare evidente che di fronte a tale situazione non si possa chiudere un occhio.

La scuola è l’unica arma che ha un popolo per emanciparsi, per garantire a se stesso la libertà. La scuola è (o meglio, dovrebbe esserlo) la sede della cultura. La cultura che nutre le menti e le fa arrivare ad una piena coscienza di se e dell’altro. Una cultura che spaventa, quella stessa cultura che ottant’anni fa i nazisti bruciavano nelle piazze.

Chiunque privi il popolo di questa cultura, diventa complice di chi la brucia.

È insostenibile che una scuola arrivi a rifiutare degli studenti, a discriminarli, a lasciarli all’ultimo banco senza dar loro le giuste attenzioni. Appare come se la scuola stessa selezionasse alunni di serie A e di serie B, rendendo l’istruzione elitaria. La cultura non è destinata ad un elite, a chi se la puó permettere, a chi, come me, è nato dalla parte giusta del mondo.

In questi ultimi anni la distinzione tra alunni di serie A e di serie B sembra essersi anche acuita. Sono stati segnalati casi di ragazzi e ragazze rifiutati dalle scuole da loro selezionate perché le stesse hanno adottato criteri particolarmente severi in merito al bacino di quartieri che possono avere accesso. Per questo molti ragazzi e ragazze di periferia si sono trovati impossibilitati ad accedere a scuole importanti e rinomate (per molti erano le uniche scuole disponibili, non essendocene altre nei loro quartieri di provenienza), per il solo fatto di risiedere in un quartiere periferico. Ufficialmente si tratta di criteri nati per evitare eccessivi spostamenti degli studenti in tempi di pandemia, ma l’emergenza non può diventare la norma e la scusante per limitare il diritto all’istruzione di centinaia di ragazzi.

Non importa da dove si proviene, la cittadinanza o il reddito, il compito della scuola è sempre lo stesso: istruire e renderci liberi; come disse il presidente Sudafricano Nelson Mandela: ‘L’istruzione è l’unico strumento che si possa usare per cambiare il mondo’.

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