Da castello, a dimora suburbana di nobili famiglie lombarde, a quartier generale di Napoleone Bonaparte, a ospedale psichiatrico, per essere infine abbandonata: è questa la storia di Villa Pusterla-Crivelli. Si tratta di una villa settecentesca situata a Mombello, in provincia di Monza e della Brianza, dalle varie peculiarità. La storia di questo sito non è ben definita, ma ciò che è noto è il declino che ha subito negli anni, e il fatto che la situazione di decadenza in cui versa sembra ormai irreversibile, a meno di un intervento e una consapevolezza collettiva circa la necessità di fare ciò.
La struttura, inizialmente un castello, risale all’alto Medioevo, ci fu poi una sequenza di proprietari non certa, ma si pensa che all’inizio del ‘500 l’edificio fu trasformato in un palazzo per volere dei Carcano. Successivamente passò alla famiglia Arconati, che la abbellì trasformandola in elegante dimora di campagna. All’inizio del ‘600 la villa divenne dei Crivelli, che la trasformarono in una villa lussuosa su progetto dell’architetto Francesco Croce, che creò il giardino all’italiana e l’oratorio di San Francesco. Nel 1786 l’edificio ospitò due volte il re delle Due Sicilie Ferdinando IV, e nel 1797 ospitò Napoleone, diventando il quartier generale nel quale quest’ultimo trattò la nascita della Repubblica Cisalpina. Nell’Oratorio di San Francesco furono inoltre celebrati i matrimoni delle due sorelle di Napoleone, Paolina ed Elisa.
Nel 1819 si concluse il periodo di magnificenza privata della villa, in quanto il conte Ferdinando Crivelli fu costretto a venderla a causa dei numerosi debiti; si susseguirono quindi numerosi proprietari fino a quando nel 1865 la villa fu acquistata dalla Provincia di Milano, che la destinò a sede di un ospedale psichiatrico. Per 130 anni Villa Crivelli fu così un ospedale psichiatrico, che intorno al 1960 arrivò ad avere più di 3000 pazienti, fino a quando la legge Basaglia del 1978 portò allo smantellamento del manicomio. Da allora parte della struttura è sede dell’Istituto Agrario Luigi Castiglioni, ma la maggior parte degli spazi è in decadenza. Le vicende del sito sono molto articolate, ma si vuole focalizzare l’attenzione sul periodo in cui fu di proprietà pubblica. Si vuole analizzare la storia di quello che è stato “il colosso dei manicomi italiani”, e dei modi in cui la struttura potrebbe essere riqualificata.
Inizialmente il manicomio di Mombello venne costruito come succursale di quello milanese, la Senavra, in quanto quest’ultimo era sovraffollato, vennero quindi trasferiti nella nuova struttura 150 donne e 150 uomini definiti “tranquilli”. Successivamente l’istituto si ingrandì notevolmente, vennero infatti costruiti nuovi padiglioni, ognuno dei quali con una differente funzione. Nel primo dopoguerra iniziò ad ospitare migliaia di pazienti, in quanto vi arrivarono i soldati reduci del conflitto bellico, ai quali fu dedicata una specifica terapia riabilitativa.
Come in ogni altro manicomio italiano, i ricoverati erano suddivisi sulla base del comportamento e non della categoria diagnostica, in reparti denominati “tranquilli”, “agitati”, “sudici”, “lavoratori” e cosi via; gli agitati erano gli unici tenuti in isolamento, mentre gli altri erano impiegati in attività lavorative considerate terapeutiche. Occorre qui sottolineare che il manicomio si fondava sulla convinzione che il lavoro, specialmente quello agricolo, consentisse ai malati di condurre un’esistenza dignitosa e avesse quindi un’importante funzione terapeutica. A tal proposito si specifica anche che l’ospedale prese il nome da Giuseppe Antonini, direttore dal 1911 al 1931, innovatore nella cura delle malattie mentali; egli sperimentò percorsi riabilitativi incentrati sull’utilizzo della musica, dell’arte e dell’attività fisica, volti teoricamente alla reintegrazione dei pazienti nella società.
Nonostante questi aspetti innovativi, al manicomio di Mombello spettò la stessa fine di tutti gli altri ospedali psichiatrici italiani, sancita dalla legge Basaglia nel 1978. Questo destino si deve al fatto che in questi luoghi venivano adottate pratiche definibili disumane, che non miravano a curare i disturbi psichiatrici del paziente per poterlo potenzialmente reinserire nella società, ma anzi i trattamenti aggravano la situazione mentale di chi li subiva. Parliamo di elettroshock, lobotomia, privazione della libertà dei ricoverati al pari di criminali, pessime condizioni igieniche, categorizzazione in base al comportamento e non alla malattia…inoltre i manicomi ospitavano anche coloro che si trovavano ai margini della società (barboni, prostitute, omosessuali), andando così a divenire dei luoghi in cui rilegare gli individui che non erano accettati dalla collettività.
La normativa manicomiale risaliva al 1904 e concepiva il malato di mente come tale per delle caratteristiche fisiche, incurabili; si veniva ricoverati in quanto pericolosi e perché si dava pubblico scandalo, inoltre con l’internamento si perdevano i propri diritti civili e si veniva iscritti al casellario giudiziale. Fortunatamente, nel 1978 viene sancita la fine di tutto ciò: chi soffre di disturbi mentali viene ricoverato per il periodo di tempo necessario alla cura, ha garanzie, e ottiene trattamenti adatti. I manicomi sono stati sostituiti dai centri di salute mentale, strutture residenziali psichiatriche con non più di 20 posti letto, servizi psichiatrici di diagnosi e cura, residenze per le misure di sicurezza, articolazioni per la salute mentale nelle carceri, appartamenti assistiti, progetti di sostegno alla persona e assistenza domiciliare, progetti di integrazione sociali e altri.
Rese illegali queste immense strutture che ospitavano migliaia di pazienti, per dare vita a centri che ricoverino poche persone alla volta per offrire loro cure appropriate, sorge il problema di evitare il depauperamento di questi luoghi. L’ex manicomio di Mombello, nello specifico, ha una rilevanza storica tale per cui risulta imprescindibile evitare che venga abbandonato. Come precedentemente detto, parte del complesso è ora un Istituto Agrario, tuttavia il resto è oggetto di scatti fotografici da parte di turisti curiosi, e luogo poco raccomandabile in cui si recano tossicodipendenti e senzatetto.
Quando si riqualifica un ambiente, sarebbe opportuno attribuirgli un uso che tenga conto della funzione che precedentemente assolveva, e sarebbe anche auspicabile potere dar voce ai soprusi che li sono stati compiuti e che sono rimasti nel silenzio. L’ospedale psichiatrico Giuseppe Antonini, come tutti gli altri, racchiude tra le sue mura le storie di tante persone che, solo per aver vissuto in un periodo in cui le malattie mentali erano concepite in modo distorto, non hanno potuto avere cure adatte e hanno avuto trattamenti che hanno aggravato le loro condizioni, rendendo cosi irrecuperabile una situazione che invece sarebbe potuta essere risolta. Le persone che sono state internate sono state private della loro possibilità di guarire e di essere quindi reintegrate nella società, quindi l’ex manicomio potrebbe attualmente essere organizzato in modo da rivendicare queste violazioni e consolidare la nuova concezione di disturbi mentali che dal 1978 cerca di affermarsi.
Così come nel 1865 la Provincia di Milano acquistò la villa dalla famiglia Crivelli, attualmente potrebbe investirvi dei fondi per valorizzare la storia di questa struttura e per far si che ciò che si ricorderà nel tempo non sia solo il periodo manicomiale. La struttura potrebbe divenire un centro polifunzionale in cui si offrono cure per chi soffre di squilibri mentali, possibilità di integrazione nella società e si organizzano attività per favorire un maggior dialogo tra chi è affetto da queste patologie e chi no. È sicuramente importante l’aspetto della cura delle malattie mentali, ma è altrettanto rilevante accrescere la consapevolezza che si ha circa queste condizioni: chi ne soffre non deve essere emarginato, non è destinato a versare in queste condizioni per sempre, può guarire e può tornare a condurre una vita libera da questa sofferenza. L’ex manicomio di Mombello può guidare la collettività in questa direzione, e può essere dimostrazione dell’evoluzione che la società ha fatto e farà riguardo a un tema così delicato come i disturbi mentali.