Si torna pian piano alla normalità COVID: riaperture e psicosi razziali Direttore responsabile: Claudio Palazzi

Dopo più di un anno, finalmente l’Italia si prepara alla riapertura, ma, ciò nonostante, alla  speranza di tornare alla normalità si affiancano molte preoccupazioni.  Tra nuovi dpcm,  regioni che cambiano colore, tamponi obbligatori, vaccini, controlli al minimo segno di tosse, coprifuoco e orari di apertura degli esercizi commerciali diversi ogni giorno, gli italiani ancora oggi sono confusi.

Finalmente il numero dei contagi scende, i vaccinati aumentano, si comincia a respirare un po’ più libertà. Si comincia a uscire di casa più spesso, seppur sempre con la mascherina in viso e l’igienizzante a portata di mano. Ricomincia lo shopping, i centri commerciali si ripopolano e si trovano nuovamente i bambini giocare al parco con maggiore tranquillità. Aumentano i pranzi in famiglia, le uscite serali, gli aperitivi al bar e le cene al ristorante.

Purtroppo non tutti gli esercizi commerciali stanno avendo la stessa opportunità. Molti negozi e ristoranti hanno dovuto chiudere le serrande nel pieno della pandemia e non sono stati più in grado di riaprire. Le perdite economiche avute da molti li hanno portati a dichiarare fallimento.

In particolare, la vita di negozi e ristoranti con titolari stranieri, soprattutto cinesi, non è sicuramente tra le più facili. La psicosi provocata dalla pandemia continua a far crescere ancora ansie e problemi razziali nei confronti delle etnie asiatiche.

Discriminazioni durante la pandemia

Poiché la pandemia ha avuto origine a Wuhan, nella regione dell’Hubei in Cina, molti italiani hanno subito iniziato ad allontanare ed evitare di frequentare i cinesi e i relativi esercizi commerciali.

Durante lo scorso anno, molti sono stati i negozi con titolari asiatici che, anticipando i dpcm, hanno deciso di abbassare le saracinesche fin quando la situazione non fosse stata più controllata.

Parlando con questi commercianti, si comprende che la motivazione alla base della decisione è stata sicuramente la volontà di essere solidali e aiutare l’Italia a contenere i contagi, rispettando le regole che già riecheggiavano dalla loro madrepatria. Preferivano rimaner in casa e uscire il meno possibile per evitare sovraffollamenti. Sicuramente, però, ci sono stati anche ben altri motivi.

La maggior parte degli italiani aveva così tanta paura di questo virus sconosciuto da evitare di entrare in qualsiasi esercizio di proprietà cinese. Il fatto, poi, che i primi due casi di contagio a Roma siano stati proprio una coppia di turisti cinesi, ha potuto solo peggiorare la situazione. I negozi e i ristoranti battevano pochissimi scontrini al giorno a fronte di grandi spese e la decisione più sensata era appunto chiudere per un po’ aspettando tempi migliori.

Non era tanto importante se fossero stati esposti o meno al contagio, si era generata una paura che ha colpevolizzato persone innocenti solo per la provenienza o per i tratti somatici.

Ancora problemi razziali post-pandemia?  

La psicosi da contagio da Coronavirus ha colpito qualsiasi esercizio commerciale: negozi, parrucchieri, estetisti, ristoranti… I vari dpcm non hanno aiutato sicuramente l’economia, nonostante cercassero di ridimensionare i danni in un paese che stava andando a fondo già da prima. Tutti sono stati penalizzati. Italiani e stranieri senza distinzioni sono stati messi alle strette e molti, quando concesso, non hanno potuto riaprire perché già falliti. Tra i tanti, non ci sono dubbi che i cinesi abbiano avuto la peggio.  Anche se ad oggi la situazione sta migliorando e si possono nuovamente vedere negozi e ristoranti pieni, molti affrontano ancora un periodo difficile.

Interviste

A più di un anno dall’inizio della pandemia, sono state raccolte un po’ di testimonianze tra vari clienti italiani. È stato chiesto se pre-pandemia si rifornissero in negozi con titolari cinesi, se ad oggi acquistino lì e perché.

 Le risposte sono state molto discordanti, ma legate da un unico filo conduttore: la paura.  Di seguito sono riportati alcuni esempi con le risposte medie ricevute.

“Raramente ho acquistato qualcosa in negozi cinesi, prezzi troppo bassi a cui corrisponde solitamente una scarsa qualità. Anche se non è detto che a prezzi più alti, in altri negozi, corrisponda una qualità maggiore, ho sempre preferito aiutare negozianti italiani e favorire il Made in Italy. Con il covid, ho preferito tenere ancora di più le distanze. Chi mi assicura che non siano stati in Cina ultimamente? Sarebbe poco carino chiederlo e comunque avrebbero potuto rispondermi quello che gli era più comodo. Ho quindi preferito starne alla larga e cerco ancora oggi di non andarci, se non strettamente necessario”.

 “Prima della pandemia, acquistavo sempre nei negozi cinesi di qualsiasi tipo. Dal cibo all’abbigliamento, dai souvenir alle cose per la casa… Quando ci fu il caso di quei due cinesi risultati positivi a Roma, ho cominciato a non andarci più. La paura era troppa e ho una famiglia a cui badare, con persone anziane a carico. Non potevo permettermi di correre rischi. Ho iniziato ad acquistare lo stretto necessario al supermercato, uscendo il meno possibile. Non ho ancora messo piede in un negozio cinese. Anche se so che non c’entrano niente e che i primi incoscienti siamo noi, la paura e la rabbia sono ancora troppe. Quando torneremo alla completa normalità, magari anche i miei soliti acquisti tornerò a farli da loro”.

 “Sono una studentessa fuorisede, il mio principale scopo, oltre allo studio, è quello di risparmiare. I negozi cinesi mi salvano sempre, hanno tutto e a prezzi non esagerati. Ho continuato ad acquistare da loro anche in pandemia, quantomeno da quello di fiducia che sapevo per certo non avesse avuto contatti con la Cina. Quando hanno deciso di chiudere temporaneamente in pieno lockdown è stato un piccolo trauma diciamo, ma li comprendevo. Forse ero l’unica o quasi ad andare a fare compere lì. Non ci trovavo mai nessuno. Da quando hanno riaperto continuo ad andarci tranquillamente. Guardandomi intorno, ho capito che bisogna stare più attenti agli italiani che, dopo un anno, non hanno ancora imparato a mettere la mascherina”.

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