Cos’è la fast fashion Fast fashion: sul vero costo delle apparenze Direttore responsabile: Claudio Palazzi
Essere continuamente al passo con una moda che cambia sempre più in fretta è facile quando grandi catene di abbigliamento offrono una vastissima gamma di vestiti a prezzi più che accessibili, addirittura stracciati, e con un incessante ricambio di collezioni.
E’ la fast fashion: vestiti di qualità medio-bassa prodotti nell’ottica di essere poi indossati un numero di volte che spesso non raggiungono la doppia cifra.
Le parole d’ordine sono “produrre” e “guadagnare”.
Per massimizzare la produzione e il guadagno non ci si può soffermare sulla ricerca di nuovi stili, su tutta quella parte prettamente artistica dell’industria della moda: copiare, anzi, per meglio dire, rubare dai grandi marchi diventa la strada più semplice, la scelta più logica.
Il target delle grandi aziende di fast fashion è composto perlopiù da una popolazione molto giovane; individui che non possono, dal punto di vista finanziario, accedere al mercato dei grandi marchi, ma che, al tempo stesso, sentono, ancora più delle altre categorie, la pressione del giudizio esterno e quindi la necessità di conformarsi a quegli standard che ormai si riflettono nel mondo offerto dai social media e dai suoi influencer.
Quella della fast fashion per il consumatore diventa quasi una scelta obbligata, pena il rigetto della società delle apparenze, ma soprattutto è una scelta inconsapevole.
In un mondo che pubblicizza una moda insostenibile diventa difficile documentarsi, non sembra ovvio che una cosa, percepita come scontata, possa invece nascondere un “lato oscuro”: non ci si documenta perché sembra una cosa giusta, quasi equa, quella che tutti, o quasi, possano permettersi di vestirsi come le celebrità e stare al passo con le loro mode, nonostante non abbiano le stesse disponibilità.
Com’è nata la fast fashion
E’ il ben noto marchio spagnolo Zara la “culla” della fast fashion.
Verso la fine degli anni ‘70 Amancio Ortega Gaona, il suo creatore, dette vita a quella che soprannominò “instant fashion”: una moda che, non badando a stagioni e collezioni, continua a basarsi sulle imitazioni dei capi di alta moda, resa economicamente possibile dalla produzione del vestiario nei paesi poveri – in questo caso in Marocco – dove il costo della manodopera era così basso da compensare ampiamente finanche le spese di importazione dei capi finiti.
Il marchio divenne presto l’esempio per altre aziende e la moda istantanea a basso costo si trasformò da eccezione a norma.
I problemi della fast fashion: diritti civili ed ecosostenibilità
La fast fashion pone un grave problema soprattutto a livello etico, e ciò si evince dalle ragioni e modalità che hanno portato alla sua esistenza.
La fast fashion è possibile perché una produzione continua è possibile, ma una produzione continua e così frequente è possibile solo perché avviene fuori dai Paesi più sviluppati e ricchi, cioè in luoghi dove lo sfruttamento degli individui, anche minorenni, è all’ordine del giorno.
Sfruttamento significa niente limiti agli orari di lavoro, una paga troppo bassa per garantire una qualità della vita decente, un ambiente lavorativo che non si addice a degli esseri umani, ma, soprattutto, la totale mancanza di sicurezza all’interno degli stabilimenti di produzione dei capi di abbigliamento.
Un esempio su tutti, il più tragico, si verificò il 24 aprile del 2013 in Bangladesh: nel sub-distretto del Savar crollò un edificio commerciale, il Rana Plaza, che ospitava diverse fabbriche di abbigliamento.
Noncuranti degli avvisi di non occupare l’edificio emanati a seguito della scoperta di varie crepe, i proprietari delle fabbriche tessili all’interno del Rana Plaza obbligarono i propri lavoratori ad andare avanti con il proprio lavoro: il risultato fu di
1.135 morti, con nessuna azienda disposta a risarcire le famiglie e gli oltre 2.500 feriti.
Quello del Rana Plaza non è stato l’unico né l’ultimo “incidente” di questa tipologia, e tanti ancora ne accadranno finché il valore di una collezione di bassa moda sarà considerato maggiore di quello di migliaia di vite umane.
La fast fashion, quindi, non rispetta né i diritti civili e sociali né le vite umane, ma non solo; infatti la sovrapproduzione di materiali sintetici, per giunta destinati ad uso effimero, rappresenta un pericolo anche per l’ambiente, in quanto assolutamente non ecosostenibile.
Le fibre di cellulosa utilizzate sono fibre artificiali ottenute dal trattamento chimico degli avanzi di cotone e della polpa di legno, mentre altri tipi di fibre derivano invece da plastica ricavata dal petrolio; ma di più, i tessuti, che hanno al loro interno fibre artificiali miste, non sono poi minimamente riciclabili, poiché dette fibre non possono essere successivamente separate.
Si parla perciò di danni ambientali irreversibili e la questione è resa ancora più grave se si considera che la produzione di questi indumenti è su larga scala mondiale.
C’è infine il problema della proprietà intellettuale, calpestata da un’industria fatta di imitazioni di basso livello di quei capi nati invece da una lunga ricerca e da una complicata elaborazione sia tecnica che artistica.
Conclusioni
E’ molto facile essere attratti da vetrine colorate e targhette con prezzi irrisori, soprattutto nella società del consumo dove tutto ha perso valore, anzi dove il principale valore è l’apparire.
Ciò che invece richiede più lavoro è informarsi ed informare, comprendere appieno il peso e l’importanza delle proprie scelte, anche quelle che sembrano più banali e scontate.
L’impatto della fast fashion sulla società e sul mondo è maggiore di quello che siamo disposti ad ammettere, ma le alternative esistono solo se si è disposti a cambiare prospettiva: i negozi di seconda mano, la vendita o lo scambio dei propri vestiti usati, e, soprattutto, la consapevolezza che il vero costo degli indumenti che acquistiamo non si limita al prezzo pagato alla cassa.