Il voto del Parlamento Europeo del 6 luglio 2022, a favore dell’inserimento (seppur sottoposto a specifiche e stringenti condizioni) dell’energia nucleare e del gas naturale fra gli investimenti sostenibili nei mercati finanziari, dà modo di aprire nuovamente il dibattito sull’energia nucleare e sul suo utilizzo. La scelta del Parlamento ha inevitabilmente scatenato innumerevoli critiche e proteste da parte dei cittadini, degli Stati apertamente contrari, delle organizzazioni ambientali. Fra queste, Greenpeace minaccia un’azione legale contro la Commissione Europea, la cui presidentessa Ursula Von Der Leyen ha promosso con entusiasmo l’iniziativa in questione. 

13 dei paesi membri dell’UE ospitano almeno una centrale nucleare attiva, ma sono quasi altrettanti gli stati europei che non hanno reattori nucleari o che, rifiutando il nucleare come fonte di energia, si impegnano ad interrompere le attività degli impianti precedentemente costruiti sul proprio territorio ed a portare a termine il loro smantellamento. Fra gli stati che portano avanti le operazioni di decommissioning figurano Belgio, Germania e, in particolare, l’Italia.

Storia del nucleare in Italia

In Italia, fra la fine degli anni ‘50 e la metà degli anni ‘70, vennero costruite ed entrarono in funzione quattro centrali nucleari, diventando uno dei maggiori produttori di energia dell’atomo insieme agli Stati Uniti e Regno Unito, ed era in programma l’inaugurazione di altre due. Piani che però incontrano un muro con il referendum abrogativo del 1987, contestualizzabile all’interno del panorama mondiale in quanto rappresenta la reazione politica italiana ai tragici avvenimenti di Three Mile Island, nel 1979, e della più nota Černobyl’, nel 1986. Il referendum poneva tre quesiti referendari che non imponevano esplicitamente la chiusura degli stabilimenti nucleari, ma che disincentivavano fortemente la costruzione di nuovi impianti e l’operatività di quelli già esistenti. Con l’esito largamente positivo del referendum e con l’attività del governo italiano fra il 1988 e il 1990, l’esperimento del nucleare in Italia giungeva al termine. 

Dal 1999, la proprietà di tutte le centrali, situate a Borgo Sabotino (LT), Sessa Aurunca (CE), Trino (VC) e Caorso (PC), viene ceduta a SOGIN (Società Italiana Gestione Impianti Nucleari), società statale fondata ad hoc per lo smantellamento degli impianti e lo smaltimento in sicurezza dei rifiuti radioattivi (cd. Decommissioning). 

Il dibattito sul nucleare come risorsa energetica non termina però in seguito al referendum del 1987, infatti nel 2008 il Governo Berlusconi approva il decreto legge 112/08, il quale riapriva l’Italia alla possibilità di produrre energia derivante dal nucleare sul proprio territorio. Tale decreto e le successive norme applicative non vengono però accolte positivamente dai cittadini italiani e viene dunque promosso un nuovo referendum popolare. L’abrogazione delle normative tanto discusse è solo una dei 4 quesiti referendari per i quali gli italiani sono chiamati ad esprimere il proprio voto nei giorni del 12 e 13 giugno del 2011. Una pesante influenza sull’opinione pubblica la ebbe il tragico incidente della centrale giapponese di  Fukushima, avvenuto solo qualche mese prima nel marzo 2011, motivo per cui il governo stesso tentò di applicare una moratoria di 12 mesi alla discussione del programma nucleare italiano, e di conseguenza alla consultazione popolare, tentativo che venne però bocciato dalla Cassazione.

L’esito del voto è ancora una volta, come lo fu quello di 24 anni prima, largamente contrario (94,1%) al ritorno della produzione nucleare in Italia, silenziando così nuovamente il dibattito politico e confermando la volontà di disattivare permanentemente le centrali precedentemente costruite. 

La centrale di Latina

Fra i quattro un tempo attivi, l’impianto più anziano è quello di Latina. La sua costruzione inizia nel 1958 ad opera di SIMEA s.p.a. (Società italiana meridionale per l’energia atomica) ed entra ufficialmente in attività nel dicembre del 1962.

Il suo unico reattore, di tipo Magnox (cioè moderato a grafite e con un gas come fluido termovettore), nel momento della sua accensione era il più potente in Europa, capace di erogare una potenza elettrica di 200 MW. 

Nel novembre del 1986, a seguito del disastro di Černobyl’, è costretto a cessare tutte le attività, per poi essere spento definitivamente nel 1987, all’indomani del referendum abrogativo. Dal 1999 la Centrale di Latina, come le altre che risiedono sul suolo italiano, è sotto la gestione di SOGIN che procede, con celerità ma comunque con la dovuta cautela, nei lavori di deattivazione e messa in sicurezza dei materiali degli impianti.

Processo di decommissioning 

Fino ad oggi sono state portate a termine le operazioni di smantellamento del vecchio impianto elettrico, delle condotte inferiori del reattore, degli impianti ausiliari e dell’edificio delle turbine. Inoltre è stato realizzato ed è entrato in funzione l’impianto LECO (Latina Estrazione e COndizionamento), che serve il proposito di estrazione e condizionamento in matrice cementizia dei fanghi radioattivi.

Per quanto riguarda invece lo stoccaggio dei rifiuti prodotti dalla centrale, tra il 2009 e il 2014 è stato edificato un deposito temporaneo nei pressi della centrale stessa ed è entrato poi in funzione nel 2018, in attesa della costruzione di un Deposito Nazionale Italiano che possa ospitare le scorie nucleari prodotte sul territorio, di diversa provenienza, in maniera definitiva. Si parla del 2023 come anno entro il quale verrà individuato il luogo di costruzione e del 2029, alla fine del quale si prevede la conclusione della realizzazione del Deposito. Al momento, per sopperire a questa sostanziale mancanza, tonnellate di scorie sono temporaneamente conservate in Inghilterra e Francia, grazie ad accordi stretti dall’Italia, che però avranno scadenza nel 2025.

È in programma, ma ancora non inizializzato, lo smantellamento dell’edificio del reattore. Il problema di questa operazione risiede nella tipologia di reattore che venne impiegato nella centrale di Borgo Sabotino, di tipo Magnox con a base la tecnologia grafite-gas, di cui ancora non si conosce una strategia internazionalmente condivisa attraverso la quale questo possa essere smantellato in sicurezza. Oltre al difficoltoso ostacolo del reattore, per l’ultimazione delle operazioni di smantellamento, sono anche affiorate ulteriori complicazioni dovute al rinvenimento di amianto e cloruro di vinile nelle zone limitrofe della centrale. Il composto, considerato dalle autorità sanitarie altamente nocivo, negli anni ha contaminato le falde acquifere sottostanti a del materiale tossico seppellito in precedenza, poi andatosi a degradare. I lavori di bonifica del territorio ad oggi non sono ancora ultimati, da sette anni infatti alla popolazione di Borgo Sabotino è vietato afferire ai pozzi della zona per acqua. 

SOGIN prevede la conclusione della fase 1 del decommissioning entro il 2027, portando a termine le operazioni di demolizione di tutte le strutture dell’impianto e di stoccaggio dei rifiuti radioattivi in depositi temporanei. L’area dove una volta sorgeva la centrale, in tale stadio intermedio del processo di smantellamento, è quindi definita brown field (campo marrone), e precede il green field (campo verde), punto di arrivo delle operazioni di decommissioning, che si ha solo nel momento in cui la zona torna ad una totale assenza di attività radiologica, successivamente al trasporto di tutti i materiali radioattivi nel Deposito Nazionale. È solo a questo punto che il territorio potrà essere restituito alla comunità e potrà essere ripristinato nel suo utilizzo civile.

Nonostante i noti e numerosi contro, il topic è ancora oggi di enorme interesse politico, costituendo anche punti programmatici dei partiti in vista della campagna elettorale, ed ulteriormente acuito dalla crisi energetica, provocata dal conflitto russo-ucraino, e dalla sempre più pressante emergenza climatica, che richiede  immediate soluzioni differenti dai carburanti fossili.

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