Il conflitto russo-ucraino ha fatto emergere tensioni geopolitiche che, giunte allo stremo, portano la guerra. In Europa è stato così per secoli e secoli, quando immaginare il Vecchio Continente in pace era poco meno che un’utopia. Alla fine, l’orrore ha raggiunto il suo culmine: le due guerre mondiali hanno lasciato un’Europa sulla via dell’unione politica ed economica, come mai era successo prima d’ora. Nel processo che ha portato alla nascita dell’UE come la conosciamo oggi, però, non c’è stata soltanto la necessità di superare le rivalità e gli strazi di una guerra, ma anche quella di costituire un blocco all’interno del nuovo sistema mondiale.

Infatti, il mondo si è affacciato a metà del XX secolo in una situazione del tutto nuova. L’Europa raccoglieva le macerie e incassava il colpo più duro: non era più il fulcro di potenza, prestigio, influenza. Il globo si andava polarizzando e l’Europa si trovava al centro, per la prima volta terreno di conquista. Gli Stati Uniti divenivano protettori e alleati dell’Europa occidentale, portando avanti la causa democratica e soprattutto capitalista; dall’altro lato c’era una seconda potenza ed era l’Unione Sovietica di Stalin, regime comunista ed autocratico.

Il quadro geopolitico dei successivi 40 anni è stato dominato da quella che è passata alla storia come “Guerra Fredda”, ovvero lo scontro totale, ma (quasi) mai diretto ed armato tra queste due potenze. Guardando alla situazione odierna, non sembra esser cambiato molto, anzi. La guerra fredda è diventata il prototipo del conflitto moderno, che avviene in ogni campo possibile: dal web all’economia, dalla diplomazia alla cultura, dal rifornimento d’armi al progresso tecnologico. Ecco, ciò che oggi si avvicina di più a questo tipo di scontro, è senza dubbio rappresentato dal rapporto tra Stati Uniti e Cina. In questo articolo ci proponiamo di analizzare il dualismo che sta segnando il XXI secolo, a partire da 10 punti di analisi.

La Repubblica Popolare Cinese: il comunismo e l’alleanza con l’URSS

Nel 1949 nasceva la nuova Cina sotto la guida di Mao Zedong, leader del Partito Comunista Cinese, dopo una guerra civile contro il Kuomintang, il partito della Repubblica di Cina, che l’aveva governata fino al 1949 sotto la guida di Chiang Kai-shek. Una volta sconfitto, il partito nazionalista di Chiang Kai-shek si ritirò sull’isola di Taiwan dove tenne in vita il regime e da dove respinse i successivi attacchi del partito comunista.

Se il Kuomintang riuscì in questo fu anche grazie al sostegno statunitense, che non era mai mancato. Gli USA infatti avevano sostenuto i nazionalisti durante la guerra civile, nella logica di quella lotta al comunismo globale, e avrebbero continuato a farlo in futuro. La nuova Cina comunista che si affacciava sul mondo lo trovava diviso in due blocchi e la politica estera assumeva un’importanza estrema. Sia URSS che USA puntavano a tenere la Cina sotto la propria influenza, trattandosi di un paese con una popolazione sconfinata ed un potenziale enorme. Tuttavia, i sovietici rappresentavano gli alleati naturali della Cina di Mao, se non altro per il sostegno alla causa comunista che entrambe portavano avanti.

A rendere più chiare le cose poi ci aveva pensato la guerra di Corea del 1950, dove la Corea del Nord comunista si era scontrata con la Corea del Sud. A combattere con i comunisti del nord c’erano le truppe di Mao, determinate a fermare l’ingerenza statunitense in estremo oriente, mentre a sostegno dei coreani del sud c’erano proprio gli Stati Uniti, sotto la veste dell’ONU. In quella occasione la Cina dimostrò capacità belliche superiori alle aspettative americane e anche una certa indipendenza dall’ingombrante alleato sovietico, che si limitò a fornire un aiuto aereo segreto. Il conflitto si concluse con un armistizio nel 1953, con il quale veniva ripristinata la situazione territoriale precedente e nascevano i due stati che conosciamo oggi: la Corea del Nord e la Corea del Sud.

La Cina iniziò dunque a percepire gli Stati Uniti come la minaccia principale per la propria nazione, anche considerando che sostenendo Taiwan, gli Usa non riconoscevano il regime di Mao e infatti si stavano opponendo all’ingresso della Repubblica Popolare Cinese in tutte le organizzazioni internazionali (ONU compresa), proteggendo il governo di Chiang Kai-Shek che occupava i seggi per conto della Cina. Dunque, anche per legami ideologici, l’URSS diveniva l’alleato naturale nello scacchiere geopolitico, con gli Stati Uniti come avversario principale.

La questione di Taiwan

Come spiegato in precedenza Taiwan è la sede del governo della Repubblica di Cina, che ha governato la Cina intera fino al 1949, prima di esser costretto alla fuga sull’isola di Taiwan dal Partito Comunista Cinese. Ebbene, tutt’oggi la Repubblica di Cina considera il proprio come l’unico e legittimo governo della Cina intera, mentre la Repubblica Popolare Cinese, regime dominato dal partito comunista che governa fattualmente sul territorio cinese, porta avanti la politica di “un’unica Cina” sul piano internazionale, condannando Taiwan ad un severo isolamento. Ciò che rende questo dossier cruciale all’interno delle relazioni sino-statunitensi è proprio il sostegno che questi ultimi hanno storicamente dimostrato alla Repubblica di Cina, sul piano delle dichiarazioni ma anche su quello militare, fornendo armamenti e risorse.

Nel 1971 la Repubblica di Cina ha perso il suo posto nell’ONU (di conseguenza anche nel Consiglio di Sicurezza) a favore della Repubblica Popolare Cinese, nonostante l’opposizione statunitense. Da quel momento in poi è iniziato l’estremo isolamento diplomatico di Taiwan, oggi riconosciuta solamente da 13 paesi, tra i quali nessuno degli altri membri del Consiglio di Sicurezza, né dell’UE.

Infatti, riconoscere lo stato di Taiwan vorrebbe dire automaticamente non riconoscere la Cina popolare come stato legittimo, motivo per il quale neanche gli Usa hanno compiuto questo passo. Hanno però utilizzato altri mezzi per mostrare il loro sostegno, come il Taiwan Relations Act del 1979, atto approvato al Congresso con il quale gli Stati Uniti dichiaravano l’intenzione di promuovere le proprie relazioni commerciali e non solo con il popolo di Taiwan, oltre che un sostegno militare per “mantenere la capacità degli Stati Uniti di resistere a qualsiasi ricorso alla forza o ad altre forme di coercizione che metterebbero a repentaglio la sicurezza, o il sistema sociale o economico, della popolazione di Taiwan”.

 La Cina dal canto suo ha sempre dichiarato di considerare Taiwan come parte integrante del proprio territorio e che dunque persegue un reintegro dell’isola all’interno della Repubblica Popolare. Oggi il dossier di Taiwan continua a rappresentare il punto più teso nelle relazioni tra Usa e Cina.

L’ultimo capitolo è stato scritto dalla visita a Taiwan della speaker della camera Usa, Nancy Pelosi, il 2 agosto scorso. La Pelosi l’ha definita come un’affermazione inequivocabile che gli Usa sono con Taiwan mentre quest’ultima difende la sua democrazia e libertà, ovviamente dalle minacce della Cina di Xi Jin-Ping. Anche Biden ha definito quello statunitense “un impegno preso nel proteggere Taiwan”, anche se continua a portare avanti una politica di “deliberata ambiguità”, come tradizionalmente è stato. La Cina si mostra ipersensibile alle mosse statunitensi a riguardo: nelle ultime settimane hanno fatto notizia le esercitazioni della marina cinese poco lontano dall’isola. Anche se nessuna delle due potenze ambisce ad uno scontro diretto, la questione di Taiwan resta tesa e sotto controllo, poiché al primo passo falso da una parte o dall’altra, le conseguenze potrebbero essere catastrofiche.

La crescita economica cinese

La Cina ha iniziato il proprio processo di riforme economiche sotto la guida di Deng Xiaoping, a partire dal 1978, quando le sue proposte sono state approvate all’Undicesimo Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese. Principalmente si trattava di riforme volte ad un’apertura e liberalizzazione dei mercati che hanno poi permesso all’economia cinese di crescere a ritmi mai registrati prima.

Tra il 1981 e il 2010 circa 679 milioni di cinesi sono stati portati al di sopra della soglia di estrema povertà. Nel 2016 l’economia cinese era la prima nel mondo, diventando la principale partner commerciale di numerosi paesi, tra cui gli Stati Uniti. Ovviamente questo rappresenta la più grande minaccia al sistema economico internazionale dominato dagli Usa, considerando anche che la Cina si presenta come un modello che si oppone fermamente all’ingerenza occidentale con l’obiettivo di esercitare la propria influenza e tutelare i propri interessi grazie ad un sistema economico sconfinato e dominante sul mercato internazionale.

 La Cina punta anche e soprattutto ad assumere un ruolo di leadership tra coloro che si oppongono all’egemonia occidentale, in particolare si propone come leader dei BRICS, l’organizzazione composta da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Nel frattempo, gli Stati Uniti vedono complicarsi i propri affari nel sud-est asiatico e in Asia centrale, dove la Cina spinge maggiormente per imporsi come unica potenza economica e non solo, in modo da liberare il continente asiatico dalla presenza statunitense.

Il legame finanziario

Come sappiamo, il mondo odierno va analizzato sotto innumerevoli aspetti per avere un quadro sufficientemente esaustivo. Il mondo finanziario è spesso poco conosciuto poiché difficilmente accessibile al grande pubblico, eppure costituisce una dinamica fondamentale per comprendere i rapporti di forza e le relazioni globali. Da anni ormai il mercato finanziario statunitense e quello cinese si stanno intrecciando sempre più, il primo forte della propria solidità e profondità, il secondo della propria dinamicità e disponibilità all’investimento.

Da sempre Wall Street rappresenta La Mecca del mercato finanziario, per ciò che rappresenta, ma soprattutto per ciò che offre: le possibilità di investimento sono svariate e il mercato azionario statunitense permette come nessun altro di investire il proprio risparmio, tenendo più bassi i rischi grazie alla possibilità di diversificare i propri investimenti. In più Wall Street gode della stabilità del dollaro che riesce ad attutire le fluttuazioni del mercato, costituendo una garanzia per gli investitori.

 Per tutte queste ragioni, una parte importante del risparmio cinese viene piazzato all’estero e in particolare negli Usa, dove il mercato finanziario è abbastanza profondo e sofisticato da tutelare ed assorbire gli enormi tassi di risparmio cinese. Una delle ragioni principali per cui la Cina detiene dei tassi di risparmio così alti (fino al doppio rispetto ad Europa e Usa) è da ricercare nel fatto che il sistema socioeconomico cinese non garantisce le stesse tutele e possibilità sul piano sociale, come ad esempio nel campo dell’istruzione o della sanità, costringendo gli agenti cinesi a risparmiare per poter finanziare questi aspetti fondamentali. La Cina sta però cercando di ampliare e strutturare meglio il proprio mercato finanziario per poter canalizzare da sé il proprio risparmio e dipendere sempre meno da Wall Street. A questo proposito, negli ultimi giorni alcune multinazionali cinesi, giganti dell’economica mondiale, hanno annunciato il loro ritiro dalla borsa di New York in seguito alle tensioni di Taiwan.

 Negli ultimi due anni la Cina ha anche invertito una tendenza che ha segnato gli ultimi due decenni, ovvero l’acquisizione cinese di titoli di stato statunitense. I titoli di stato sono delle obbligazioni emesse dal dipartimento del tesoro che rappresentano delle passività finanziarie e dunque degli impegni di pagamento. La Cina per anni è stata la maggiore detentrice di titoli di stato statunitensi, arrivando alla soglia del trilione e mezzo di dollari, costituendo dunque delle enormi riserve in valuta statunitense. Oggi la Cina è stata superata dal Giappone, dopo essersi liberata di una buona parte dei titoli, scendendo sotto il trilione. Se questa operazione può essere vista anche come un tentativo cinese di diversificare il proprio portafoglio, sicuramente si tratta di una conseguenza delle crescenti tensioni tra questi due colossi.

Cina e Usa in Africa

Un’importante partita della rivalità geopolitica tra Usa e Cina si sta giocando in Africa. La Cina, ormai dal 2000, ha iniziato un programma di finanziamenti ed aiuti con numerosi paesi africani, diventando già nel 2005 il terzo partner commerciale del continente, alle spalle di Stati Uniti e Francia. La Cina si è impegnata negli anni con il finanziamento di prestiti senza interessi a numerosi paesi africani, ad esempio estinguendo il 58% del debito contratto dall’Angola tra il 2000 e il 2006. Dove la Cina non è intervenuta in questa maniera, lo ha fatto in altre, come la costruzione di infrastrutture e più in generale tramite agevolazioni commerciali per i paesi in questione. Nel 2022 il gigante asiatico ha permesso l’ingresso senza dazi al 98% delle esportazioni provenienti da 12 paesi africani e nel frattempo ha fornito assistenza alimentare ai paesi del corno, quali Gibuti, Eritrea, Somalia, Etiopia.

Nel dicembre 2021 si è tenuto in Senegal un forum sulla cooperazione Cina – Africa che ha ribadito il sodalizio, visto che da allora la Cina ha investito circa 3 miliardi di dollari in credito alle istituzioni africane. Dopo anni di investimenti e relazioni, la Cina vanta rapporti solidi con il continente africano, dove infatti gli Stati Uniti pianificano un ritorno: l’amministrazione Biden sta elaborando una strategia per fornire sostegno al continente africano in termini diplomatici e di sviluppo.

Negli ultimi anni le risorse americane in Africa si erano concentrate su questioni di sicurezza, in particolare nella lotta al terrorismo nel Sahel, tralasciando altri aspetti fondamentali per lo sviluppo del continente. Tuttavia, l’Africa costituisce ormai un tassello fondamentale dello scacchiere geopolitico globale, essendo un continente ricco di risorse e di paesi potenzialmente in via di sviluppo, ragioni per le quali la Cina vi ha speso così tanto nell’ultimo ventennio. Gli Stati Uniti, in questo momento, si trovano un po’ a rincorrere nel continente nero, ma continuano a godere di uno status globale che nessun altro può vantare.

La Nuova via della seta

A dimostrazione delle ambizioni sconfinate della nuova Cina c’è un progetto che racchiude in sé l’essenza della politica estera cinese. Si chiama “Belt and Road Initiative” ed è il progetto di infrastrutture e legami commerciali più ambizioso che la storia abbia visto. Ad annunciarlo fu il presidente cinese Xi Jin-Ping nel 2013: consiste nella costruzione di infrastrutture e partnership commerciali con più di 150 paesi, partendo dalla Cina fino ad arrivare in Europa, andando a creare due “vie”: una su terra ferma, passante per l’Asia centrale, il Medioriente, fino a giungere in Nord Europa; un’altra via mare, passante per i porti dell’India e dell’Africa dell’est, per poi entrare nel Mediterraneo attraverso il Mar Rosso e giungere a Venezia. Ovviamente si tratta di un progetto a lungo termine, con un completamento previsto per il 2049, anno del centenario della Repubblica Popolare: ad oggi 149 paesi sono nella lista dei firmatari per la BRI.

La “Nuova via della seta”, così è stata definita, è il progetto cinese per offrire alla propria enorme capacità produttiva un’adeguata capacità infrastrutturale per esportare, ma anche per importare e creare relazioni commerciali con l’Eurasia intera. Proprio in quest’ottica troviamo l’obiettivo principale della politica di XI Jin-Ping, ovvero quello di rendere la Cina un leader globale, una guida capace di esercitare influenza e tornare ad occupare quel posto di potenza mondiale che a loro modo di vedere, spetta alla Cina.

Per fare questo il gigante cinese sta sfidando la supremazia geopolitica degli Stati Uniti, che proprio sotto le vesti della globalizzazione hanno creato una rete di liberi scambi nella quale la fanno da padroni. Se le rotte marittime non costituiscono una grande minaccia al gigante statunitense, che controlla i mari in lungo e in largo, la rotta terrestre in Asia centrale rappresenta una sfida per gli Usa, o almeno un tentativo di cambiare le regole: la Cina avrebbe a disposizione un canale privilegiato, costituito di autostrade, viadotti, ferrovie, per dare vita ad uno scambio continuo e massiccio con l’occidente, proprio come avveniva con l’antica Via della Seta.

Il Soft power

Uno dei termini ricorrenti nell’ultimo decennio è quello di soft power, anche se si tratta di un concetto che non nasce certo ieri. Per soft power si intende l’insieme di relazioni, caratteristiche culturali, economiche e diplomatiche che fanno sì che un paese abbia la capacità di far valere i propri interessi senza imporli. Il soft power è esercitato da quei paesi che generano attrazione dal punto di vista culturale, che offrono suggestioni ed opportunità e che, in definitiva, vedono la propria voce valere molto più delle altre. La superpotenza sotto questo aspetto è ormai da decenni rappresentata dagli Usa, capace di esercitarla su tutto il mondo occidentale, e non solo. La due guerre mondiali hanno mostrato al mondo la supremazia militare statunitense e la loro leadership si è poi tradotta nell’Alleanza Nordatlantica.

Dal punto di vista economico poi, lo strapotere americano si è evidenziato con il Piano Marshall, un piano di finanziamenti post Seconda guerra mondiale tramite il quale gli Usa hanno risollevato l’Europa distrutta dalla guerra, ma che ha anche sancito l’inizio di una stretta collaborazione economica con gli Usa sempre in posizione di “primus inter pares”. Tuttavia, un aspetto fondamentale della costruzione del soft power statunitense risiede nell’aspetto culturale: specialmente tramite la musica e il cinema gli Usa hanno esportato in tutto il mondo la cultura americana rendendo, per certi versi, tutto il mondo occidentale partecipe. Viene da sé che la voce statunitense ha avuto un peso specifico superiore agli altri negli ultimi decenni, rendendoli capaci di tutelare i propri interessi con una maggiore facilità e molto spesso senza nemmeno doverlo fare.

Per tutte queste ragioni anche la Cina sta cercando di ottenere la capacità di esercitare il soft power, prerogativa delle grandi potenze. È chiaro che l’aspetto principale della strategia siano le sconfinate capacità economiche e commerciali cinesi, capaci di creare rapporti in ogni angolo del globo e di garantire finanziamenti ed investimenti in numerosi paesi. Proprio la “Belt & Road Initiative” costituisce la punta di diamante della strategia cinese per incentivare il proprio soft power: un’opera infrastrutturale di dimensioni colossali, presentata come un “regalo al mondo”, rientra sicuramente in questa logica.

La strategia cinese prevede anche la diffusione della propria cultura e lo sta facendo, ad esempio, tramite la fondazione di Istituti Cinesi di Cultura, pronti a promuovere e diffondere la lingua, le tradizioni e i costumi cinesi in giro per il mondo. In alcuni paesi dell’Africa, come il Kenya, dove i legami con la Cina si fanno sempre più stretti, la presenza di lavoratori ed investitori cinesi sta portando alla diffusione delle celebrazioni del calendario cinese. Si va dunque verso la direzione di un’apertura da parte della Cina, pronta a sfidare lo status quo occidentale in ogni aspetto.

 

La guerra tecnologica

Una rivalità di questa portata, nel 2022 non può certo prescindere dal campo tecnologico. Usa e Cina si stanno sfidando anche a colpi di innovazione informatica e digitale. La Cina ha pubblicato un piano chiamato “Cina 2025”, tramite il quale punta a diventare leader mondiale nella produzione e realizzazione di intelligenze artificiali, supercomputer, semiconduttori, automazione industriale. Il piano prevede un aumento degli investimenti nella ricerca per assicurarsi l’autosufficienza in questi settori chiave e sostituire dunque la tecnologia straniera.

All’interno di questo piano gioca un ruolo importante Taiwan, che oggi è leader mondiale nella produzione di semiconduttori e in generale rappresenta un modello all’avanguardia nel digitale. Dall’altra parte troviamo gli Usa, che sono scivolati al nono posto al mondo per quanto riguarda gli investimenti nella ricerca e che adesso cercano di recuperare terreno. Ad ogni modo, la leadership statunitense è ancora difficile da scalfire, soprattutto grazie alle multinazionali del digitale, enormi banche dati capaci di dominare i mercati.

I rivali asiatici, però, si fanno sempre più competitivi: è facile leggere in quest’ottica lo scontro tra la statunitense Google e la cinese Huawei, privata del sistema Android e dunque tagliata fuori da gran parte del mondo digitale a noi conosciuto sugli smartphones. Proprio la Huawei, leader mondiale nella vendita di smartphones, rappresenta perfettamente la scalata cinese ma anche la guerra aperta con gli americani. Fondata nel 1987, era una compagnia low-cost per l’installazione di centraline che, allargatasi a livello nazionale, con il tempo è divenuta un colosso capace di sviluppare la tecnologia 5G.

Con l’amministrazione Trump però ha subito un’enorme battuta d’arresto: l’azienda è stata infatti accusata di spionaggio per conto di Pechino ed è finita su una lista nera che ha portato all’introduzione di dazi di ogni tipo. Quello che più risalta ai nostri occhi è stato soprattutto la decisione di Google di rendere indisponibile il sistema Android per i nuovi prodotti Huawei, ma non è l’unica. Il taglio dei rifornimenti tecnologici, anche da parte dei partners statunitensi, ha creato molti problemi all’azienda di Shenzen, contribuendo ad inasprire una rivalità in continua crescita ed evoluzione.

La Cina, la guerra e l’Occidente

Dall’inizio del conflitto russo-ucraino nel febbraio 2022, la Cina si è sicuramente trovata in una posizione alquanto scomoda. Negli ultimi anni Xi Jin-Ping si era notevolmente avvicinato alla Russia di Putin, mostrando la volontà di entrambe di combattere l’ingerenza statunitense e occidentale. Se la Russia si sta scontrando principalmente con l’espansione della NATO e quella dell’UE, la sfida cinese, come abbiamo visto, è a tutto tondo.

Finora la Cina ha mantenuto una posizione neutrale: sostenere apertamente la Russia vorrebbe dire scontrarsi apertamente con il blocco occidentale, andando a stravolgere un equilibrio già piuttosto precario di cui la Cina ha disperatamente bisogno per continuare ad esercitare il suo strapotere economico. Dall’altra parte, schierarsi con l’Occidente e dunque condannare la Russia vorrebbe dire perdere un alleato fondamentale sullo scacchiere geopolitico. Proprio ad inizio anno Cina e Russia avevano consolidato la loro alleanza definendola “senza limiti”. La Cina poi, da sempre è la principale sostenitrice a livello internazionale di una “non ingerenza” esterna negli affari degli altri paesi, proprio come la Cina stessa pretende sia fatto con le questioni proprie, Taiwan in primis.

La “trappola di Tucidide”

In definitiva, stiamo assistendo ad uno scontro epocale fatto di strategia geopolitica, economia, tecnologia, cultura e tanto altro. Entrambi i paesi si trovano in cima alla lista delle priorità dell’altro e non è un segreto che la competizione tra Cina e Usa sia il dualismo principale sullo scacchiere globale. Questo porta con sé delle preoccupazioni dovute ad una tensione latente che periodicamente cresce, per un motivo o per un altro, minacciando uno scontro diretto che assumerebbe le dimensioni di una catastrofe mondiale.

La storia europea ha già mostrato come la crescita di una grande potenza con desiderio di rivalsa possa portare allo scontro, più e più volte. E allora ci troviamo a temere quella che è stata definita la “trappola di Tucidide”, ovvero che quando una potenza affermata vede il proprio status quo minacciato da una potenza crescente, prima o poi, si arriverà allo scontro.

 Lo dice Tucidide raccontando la Guerra del Peloponneso tra Sparta e Atene, dove quest’ultima stava crescendo esponenzialmente minacciando il primato di Sparta, che ha reagito con la forza. La domanda, oggi, è se lo scontro aperto sia evitabile oppure se alla lunga, ci si arriverà. Le parti sembrano essere consapevoli del ruolo che rivestono e del rischio che questo comporta. Nel 2013 Xi Jin-Ping aveva infatti manifestato la volontà di “lavorare tutti insieme per evitare gli scenari invocati da Tucidide”.

Eppure, i momenti di tensione non mancano e i rapporti sembrano deteriorarsi. Proprio in questi giorni stiamo assistendo alle conseguenze dovute alla visita di Nancy Pelosi a Taiwan, con le esercitazioni militari cinesi a largo dell’isola e poi la flotta statunitense schierata nelle stesse acque. In tutto questo, momenti di tensione internazionale come quello dovuto al conflitto russo-ucraino non fanno che aumentare le possibilità di un conflitto diretto. A quel punto sarebbe davvero difficile scongiurare una guerra che potrebbe portare ad una catastrofe senza precedenti.

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