“Come ho spesso detto durante la mia campagna presidenziale, nessuno dovrebbe essere in prigione per aver fatto uso o per aver posseduto marijuana”, con questa dichiarazione del 6 ottobre 2022, il Presidente statunitense Joe Biden annuncia l’agenda politica che darà inizio ad un processo di riforma, culminante nella decriminalizzazione del possesso di marijuana e nel perdono dei crimini per possesso di marijuana a livello federale.
In questo suo statement, inoltre, incoraggia i governatori degli stati ad accelerare le riforme interne in ambito della disciplina della cannabis, in modo che siano appianate le incongruenze fra la legislazione federale e quella statale. Infine, completa la sua dichiarazione richiedendo l’avvio di una procedura amministrativa, operata dal Secretary of Health and Human Services (istituzione paragonabile al ministero della salute italiano) e dall’Attorney General (Procuratore Generale, fornisce consulenza giuridica al governo, ed è a capo del ministero della giustizia), con l’obiettivo di riesaminare la categorizzazione della cannabis all’interno dell’ordinamento statunitense.

Biden con questa dichiarazione riconosce quanto il severo approccio della War on Drugs sia stato inefficace, se non dannoso. L’uso di sostanze illecite negli Stati Uniti infatti non ha avuto sostanziali diminuzioni negli ultimi decenni, ma ha contribuito a portare una sempre maggiore fetta di popolazione nei pressi della soglia di povertà: sono migliaia le famiglie che per via di un semplice arresto per possesso di marijuana si vedono macchiare indelebilmente la propria reputazione e curriculum, rendendo perciò estremamente complicato l’accesso ad opportunità di lavoro, di educazione superiore o di diventare proprietario di un immobile.
Questa azione rappresenta quindi una netta presa di posizione, un’inversione di rotta che guarda al futuro.

Biden e la Marijuana (dagli anni ’80 ad oggi)

Le posizioni di Biden in ambito di droghe leggere, però, non sono sempre state così, seppur limitatamente, liberali. Durante i suoi primi anni da senatore, Biden fu autore di alcune delle più severe risoluzioni in ambito di lotta al crimine degli ultimi anni. Ne sono esempio il Comprehensive Crime Control Act del 1986, con il quale si stabiliva una sentenza minima obbligatoria per crimini legati alla droga. O anche gli Anti Drug Abuse Acts del 1986 e del 1988, atti che imponevano, rispettivamente, pene molto più gravose per il possesso di crack, piuttosto che per il possesso di cocaina in polvere, e un ulteriore irrigidimento delle sentenze riservate a possessori e aggravamento delle punizioni che sarebbero spettate a coloro che invece commerciavano sostanze stupefacenti.
Il suo schieramento nell’ambito della War on Drugs negli USA, fra gli anni ‘80 e ‘90, non era quindi un segreto. Sono anzi ben conosciuti alcuni suoi interventi pubblici, nei quali rimproverava al Presidente repubblicano George HW Bush la sua poca durezza nell’affrontare la “guerra alla droga”, e altre sue esternazioni di particolare orgoglio nel lavoro personalmente svolto per il contrasto al crimine negli USA. Tutto ciò trova il suo culmine con l’entrata in vigore del Violent Crime Control and Law Enforcement Act del 1994, ovvero la più ampia iniziativa in ambito di lotta al crimine nella storia degli Stati Uniti, anche conosciuta appunto come Biden Crime Law (Legge di Biden sul crimine). Questa legge, insieme alle riforme fatte in precedenza, consolidò la tendenza della giustizia statunitense a rendere ancora più stringenti le sentenze per crimini legati alla droga e portò all’incarcerazione di massa che è ancora oggi caratteristica degli USA.
La posizione di Biden in questo ambito subisce però un’inversione di tendenza nei primi anni 2000. Quegli anni si caratterizzarono per l’ancora crescente numero di americani che facevano uso di sostanze stupefacenti e per il devasto provocato a famiglie e individui dalla incarcerazione di massa, e che aveva sproporzionatamente colpito la comunità afroamericana. Tali fenomeni portano quindi Biden a rivalutare l’efficacia delle misure fin troppo severe finora adottate (seguendo l’approccio “Tough on crime”), ed a considerare piuttosto un intervento sostanziale della sanità pubblica come strumento per mitigare il dilagante abuso di droghe (in quel periodo era particolarmente diffuso l’uso di oppiacei) negli USA, durante la sua vicepresidenza nell’Amministrazione Obama. Da allora ha più volte ammesso la sua colpevolezza e la volontà di riparare gli errori commessi in passato, ribadendo infatti durante la sua campagna presidenziale che “nessuno dovrebbe andare in prigione a causa di una dipendenza dalla droga”.
Il suo programma per le elezioni del 2020 proponeva infatti una riforma totale del sistema di giustizia criminale, eliminando l’incarcerazione come misura punitiva per il mero possesso di droga, e la grazia con effetto retroattivo per tutte le condanne legate all’uso di droga. Al contrario di altri candidati democratici però, fra i quali Bernie Sanders, non ha mai supportato la piena legalizzazione delle droghe leggere, ma si dichiara favorevole alla legalizzazione esclusivamente per scopi medici e alla correlata ricategorizzazione della cannabis come una droga di seconda categoria (Schedule II).

La categorizzazione della marijuana negli Stati Uniti

Negli USA la disciplina delle droghe in generale è regolata dal Controlled Substances Act, che suddivide le sostanze in Schedules, classificandole in cinque categorie sulla base della loro pericolosità, tendenza a provocare abuso, e utilizzo in ambito medico.
Al momento la marijuana è elencata fra le sostanze di Schedule I, la classe con le regolamentazioni più stringenti. Per essere classificate come tali, le droghe prese in esame devono essere sostanze di cui facilmente si può abusare, alle quali al momento non è riconosciuto negli USA alcun uso come trattamento medico, e il cui utilizzo non è sicuro, essendo molto alta la probabilità di provocare dipendenza. Le droghe elencate in questa categoria perciò non possono neanche essere prescritte dal medico e sono prodotte in quantità ristrette, prestabilite dalla DEA (Drug Enforcement Administration). Oltre alla cannabis, alcune sostanze Schedule I sono ad esempio l’eroina, l’LSD e l’MDMA. Nonostante la rischiosità e il potenziale per abuso della marijuana non siano paragonabili a quelli dell’eroina, l’ostacolo al momento insormontabile pare essere l’incapacità di trovare un suo utilizzo condiviso dal Ministero della Salute e dalla comunità medica (ad esempio, la morfina rientra infatti nella Schedule II, poichè largamente riconosciuta la sua utilità nella terapia del dolore). Senza tale elemento la cannabis non potrà essere rimossa da questa categoria che ne limita così fortemente l’uso e quindi il commercio.
Il Presidente statunitense, nella dichiarazione del 6 Ottobre, non ha espresso una personale opinione di dove ritenga debba posizionarsi la marijuana nella categorizzazione del Controlled Substances Act, e lascia che tale valutazione sia fatta dalla DEA, consultando la Drug and Food Administration. Le associazioni a favore della legalizzazione della cannabis invece vorrebbero che questa fosse completamente descheduled, cioè rimossa da tale lista, e trattata quindi alla pari dell’alcool e tabacco.

Manifestanti pro-legalizzazione della cannabis
Centinaia di manifestanti pro-cannabis marciano a New York

Gli impatti concreti

Nonostante l’iniziativa di Biden rappresenti una storica presa di posizione e possa sembrare un grande passo verso la liberalizzazione della marijuana, gli impatti reali della stessa appaiono, almeno per il momento, limitati. In primo luogo, la decriminalizzazione e il perdono delle condanne legate al possesso di cannabis, volute da Biden, agiscono solamente a livello della giurisdizione e della giustizia federale. Non viene quindi toccata la disciplina della sostanza all’interno dei singoli stati, i quali mantengono una quasi totale autonomia decisionale ed amministrativa in materia. La risoluzione di Biden non è quindi in alcun modo coercitiva e non avrà applicazione all’interno degli stati, i quali proseguiranno con la propria drug policy. Il forte potere decisionale statale in materia risulta ancora più evidente se si guarda ai numerosi stati che, già precedentemente alla presa di posizione del proprio Presidente, avevano adottato politiche nettamente in contrasto con l’approccio restrittivo del governo federale. Sono infatti 38 gli stati che permettono l’uso della cannabis per scopi medici e, di questi, 19 ne permettono anche l’uso ricreativo. La dichiarazione di Biden è già stata acclamata da alcuni governatori, di stati che ancora non hanno decriminalizzato la marijuana, ma che intendono affrettarsi a seguire l’esempio del presidente.
Biden sostiene che nessuno dovrebbe essere messo in prigione per aver fatto uso di marijuana, ma quante persone potrebbero essere effettivamente scarcerate come risultato di questa sua iniziativa?
In questo momento la popolazione delle prigioni statunitensi ammonta a circa 2.3 milioni di persone, e 1 persona su 5 è incarcerata per crimini legati alla droga. Di queste 450.000, meno di un quarto delle persone risiede in prigioni federali, mentre le altre sono tenute in prigioni statali o in custodia presso prigioni di entità territoriali minori (local jails, tipiche ad esempio delle contee, per coloro che devono scontare sentenze più brevi). Il numero di persone incarcerate per crimini legati alla cannabis viene ipotizzato dal Last Prisoner Project intorno a 40,000, due terzi delle quali sono detenuti presso prigioni statali. Rimangono comunque incerte le aggiuntive quantità di arresti in attesa del processo, di condannati che stanno scontando la loro sentenza ai domiciliari, o in centri di detenzione di immigrati, e di innumerevoli altre casistiche non comprese e disciplinate dalla giurisdizione federale. Ci si accorge quindi che l’azione di Biden copra in realtà solo una minima percentuale delle molteplici fattispecie che portano ad un’incarcerazione per crimini legati alla marijuana, concretizzandosi in circa 3000 persone liberate dalle prigioni federali per possesso di marijuana (cioè circa il 7,5% delle persone che sono in prigione per crimini legati alla cannabis).
Se da un lato non viene risolto il problema dell’estrema severità con cui viene nazionalmente affrontata la disciplina della cannabis, dall’altro questa riforma consente di voltare pagina alle migliaia di persone graziate che, per colpa di un arresto per semplice possesso (anche senza essere incarcerate), si sono viste macchiare per il resto della vita la fedina penale.

Resta tuttavia da scoprire se questa azione determini l’inizio di un più ambizioso percorso verso la legalizzazione della cannabis, o se sia il traguardo dell’opera di Biden (e anche un contentino per i suoi sostenitori più liberali in vista delle elezioni congressuali di Midterm, nel Novembre 2022).

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here