In un momento di difficoltà il punto in cui un Conclave colpisce è sempre particolarmente incisivo. Quello di oggi però raggiunge qualcosa di molto più profondo, potente e umano, anche più di quanto ci si aspettasse. Lo fa con il nome di Francesco e lo sguardo alzato di una umanità sofferente. Quello che l’attuale contingenza richiederebbe, anche se tutti i problemi della Chiesa rimangono lì.
Ho seguito l’ultima fase del conclave tornando dall’università, con cellulare e due vecchie cuffie. Ascoltare le parole del nuovo pontefice attraverso la distorsione tipica dell’ascolto in radio, ad un primo attacco delle sue parole mi ha istintivamente riportato ad una delle immagini più potenti della storia recente della Chiesa, l’avvento di papa Giovanni XXIII. Credo che -con gli effetti contrastanti che ne derivano- quella di oggi sia stata una potente scarica di massa (Canetti, Massa e potere). Ed è indicativo non solo del modo in cui ancora oggi eventi religiosi di grande portata sappiano influire sulla società, ma anche di come -inaspettatamente- l’istituzione più conservatrice, meno esposta al fluire del cambiamento abbia generato non uno, ma due impulsi capaci di far tremare le fondamenta della terra. Come se ad una umanità sofferente fossero state date due scariche di defibrillatore.
Credo infatti che un papa debba essere in controtendenza con la realtà che lo circonda. Un teologo dove la comunità necessiti di capire, un comunicatore dove sia necessario parlare alle altre professioni, un pastore dove ci sia bisogno di sentirsi dire -per citare Giovanni Paolo II– di “non avere paura”, con una dolcezza che ha sfondato ogni porta con una potenza immane. Jorge Bergoglio -da come si è affacciato al mondo- ha detto oggi proprio questo, di non avere paura, parlando di fratellanza, ma anche di povertà, in controtendenza con la curia che lo circonderà. Il rimando a Francesco d’Assisi -profetico l’appello di Mario Staderini– è in questo senso indicativo, non solo di un papa che viaggia in metropolitana, ma anche di uno scontro che presto avrà probabilmente luogo: la detta curia -cardinalizia e vescovile- non giova infatti di un rapporto eccellente con la società (specialmente con quella dei non credenti). Accettare un papa che in questo sappia scavalcarla non è probabilmente tra le sue prorità.
Dall’altra parte si pone però la questione che di fronte a quel “buonasera” così cordiale, di fronte a quella reazione inevitabilmente carica di significato si affaccino due dei più profondi demoni di ogni religione: idolatria ed isteria collettiva. Inevitabile sarà infatti che questo ascendente che Beroglio sembra avere venga potenziato dalla struttura del pontificato, tendenzialmente monarchica; ma anche da una parte di quella piazza, capace nel tempo da abituarci ad un fideismo particolarmente aggressivo e fanatico. Le figure particolarmente vicine al popolo vengono infatti spesso santificate, divenendo oggetto di isteria collettiva, e sia il fenomeno religioso che quello del potere carismatico nei paesi dell’america latina ne sono incubatori ideali. Il velo che divide religione ed idolatria è molto sottile ed ambiguo, e il cattolicesimo non è esente da sconfinamenti.
Altra questione centrale sarà quella che vede il nuovo papa al centro della secolare contrapposizione tra conservatori e progressisti. Una possibile chiave di lettura al riguardo può essere quella di Fabio Chiusi, che già lo scorso 12 febbraio scriveva su L’Espresso di come i cardinali nominati da Wojtyla e Ratzinger avessero in comune una certa ritrosia verso il cambiamento. Una posizione di cautela proprio oggi mantenuta sul Nichilista, con una coerenza -va detto- ben diversa da altri giornalisti, primo fra tutti quelli di Il Fatto Quotidiano. Pesa infatti su Bergoglio un alone di sconosciuto ai più che malcela in primis i rapporti ambigui con il regime argentino -come poi accaduto allo stesso Wojtyla. Una tendenza al silenzio che ha saputo logorare non solo la figura di Giovanni Paolo II, avvicinato da più voci a Pinochet, ma l’intera storia recente della chiesa cristiana. A parlarne è infatti anche Daniel Goldhagen, nel suo Una questione morale, avendo per oggetto già i suoi rapporti con il regime nazista. La storia è quindi ben più datata.
Le accuse che muove Goldhagen sono in fondo le stesse di Fabio Della Pergola, quella di un silenzio che è fondamentalmente colpevole. Così come è colpevole -stavolta in Chiusi- una deferenza di un mondo del giornalismo forse spiazzato e impreparato di fronte al risultato del Conclave. Posizioni legittime, anche se discutibili, chiaramente. Della Pergola e Chiusi perdono di vista, però, proprio quel momento simbolico che non è -come scrive Chiusi stesso- semplice espressione di un papa che è prima di tutto uomo di potere. Un’analisi comparata di quello che le istituzioni vacanti hanno saputo produrre ci riporta alla ragione per cui siamo qui: un messaggio che è urbi et orbi, e in quanto tale tanto rilevante da essere storico. C’è deferenza, probabilmente, ma soprattutto c’è la pigrizia del giornalista annoiato che non sapendo chi accidenti sia questo Bergoglio ne evoca le grazie pur di far contenti tutti e non fare polemica. C’è però un effetto di felice frastornamento quantificabile nei secondi di silenzio e di preghiera che -mi è venuto da pensare ad ascoltarlo- ha unito in una forte continuità milioni di individui e forse ha colpito anche chi credente non lo è.
Non posso quindi non rintracciare una nota di insensibilità nelle parole di Chiusi, ma anche in quella gara che si scatenerà a spulciare il passato di Bergoglio. Tacciare i corvi di sventura non fa parte del mio carattere, anche perché sarebbe un sostanziale suicidio, oltre che una gretta pratica da benpensanti. Ciò che è successo oggi però ha lasciato in molti, ben oltre la comunità cattolica, un piccolo stato di grazia, evocata proprio da quella dolcezza di voce che caratterizza i papi che sono capaci di farsi amare dai propri fedeli. Fatto sta, domani i problemi della Chiesa saranno ancora lì, feroci e brutali, e nulla ci dice che proprio Francesco I non se ne farà artefice, perché una fede profonda segna inevitabilmente il contrappasso di un conservatorismo che Bergoglio non ha mancato di esprimere. Sarà ancora lì l’opacità sul fenomeno degli abusi sessuali, sarà ancora lì una perversione fanatica endemica nelle piccole cellule di fedeli, sarà ancora lì quella curia che tiene più a se stessa che al bene degli uomini. Non c’è quindi motivo per cui su questo non si dovrebbe indagare. Il rischio è di farne un fuoco che non c’è, ma altrettanto rischioso è soffocare le poche scintille che ancora ci fanno vedere una luce. Non è questione di credere, è questione di sentire e di agire di conseguenza.