Il primo marzo scorso usciva su Cumhuriyet un articolo di Öztin Akgüç, scettico sulle possibilità che alla fine la Turchia riesca ad entrare nell’Unione Europea. I rapporti tra Ankara e Bruxelles si sono infatti nel tempo sempre più usurati, fino a giungere all’attuale fase di stallo, solo parzialmente tamponata dall’avvento in Francia del più conciliante François Hollande.
L’analisi dei rapporti tra Turchia e UE deve necessariamente partire dalle voci che nel paese si sono alzate al riguardo. La prima è certamente quella di Öztin Akgüç, il cui intervento -“Il posto della Turchia nella politica mondiale”- è stato recentemente riportato dal portale PressEurop con l’indicativo titolo “l’adesione impossibile”. L’immagine che ne deriva è infatti quella di un paese relativamente ferito dal non velato disprezzo dei paesi UE, ma anche pronto ad orientare le proprie necessità altrove. Già, perché la Turchia -seppur apparentemente immobile- si muove, e principale indice di questo dinamismo è l’avvicinamento, da più parti segnalato come strategico, all’Organizzazione di Cooperazione di Shangai. Un avvicinamento sul quale -giova segnalarlo- un certo quantitativo di dubbi rimane, in specie se si osserva come tale organizzazione origini dagli auspici di Russia e Cina, mentre Erdogan continua a giochicchiare allegramente con la NATO di Obama.
Ciò che permane, comunque è l’impressione di essere Europa B -o magari C, dopo i balcani. Un’impressione tutt’altro che inconsistente, perché dalla cortina di autolatria ci viene a svegliare il diligente elenco stilato da Hayati Iazici su Harriyet Daily News, riguardante l’imbarazzante serie di promesse non mantenute dagli europei: “l’Unione Europea non ha rispettato e ha violato alcuni obblighi che sono compresi nell’unione doganale [Nda: firmata nel 1995]. la disillusione turca è derivata dal fatto che l’Unione Europea ha: 1) impedito la libera circolazione dei lavoratori turchi 2) erogato un supporto finanziario minore di quello originalmente promesso 3) mancato di includere la Turchia nel suo Free Trade Agreement (FTA) con parti terze 4) mancato di includere i prodotti agricoli nell’unione doganale 5) mancato di rimuovere i contingenti di trasporto 6) mancato di rimuovere (e mettere nuove) restrizioni contro la libertà di stabilimento e contro la libertà di fornire servizi e 7) mancato di porre un freno alla conduzione di investigazioni anti-dumping sui prodotti turchi.”
Di fronte a tanto è difficile rispondere, e ciò che è sorprendente è proprio che l’Europa non lo faccia affatto. Recentemente il cambio della guardia alla presidenza francese ha permesso una parziale apertura all’adesione turca. Nonostante ciò il sito dell’Unione -per citare solo una fonte- dà Ankara ancora lontana da questo risultato. Non è difficilmente immaginabile quale freddezza si nasconda dietro tale comportamento, e non si tratterebbe neanche di un caso senza precedenti. La stessa Russia si Eltsin è passata rapidamente da uno spasmodico filoeuropeismo ad un allontanamento, una volta annusata l’aria, per poi chiudersi definitivamente con l’avvento di Putin. Alla Turchia non servirebbe neanche procaccarsi un uomo forte da contrapporre a Bruxelles, perché ce l’avrebbe in casa, con Erdogan, fin troppo dinamico nella regione (e conseguentemente tacciato di neo-ottomanismo). Nonostante ciò, nonostante una posizione di ferro in seno alla NATO il primo ministro turco ha lanciato recentemente un ultimatum, cercando di nuovo una mano amica in Europa. E lo fa ponendo come scadenza il 2023, mostrando una elasticità che farebbe pensare ad una vera volontà di adesione, più che una mossa destinata ad un preventivato fallimento.
Sia chiaro, le ragioni per avere dei dubbi esistono, e sono sostanziose. La Turchia, pur godendo di ottima salute dal punto di vista dell’economia, non può dire altrettanto per quanto riguarda la libertà di stampa (lo sostengono gli stessi media turchi). È però soprattutto la questione delle minoranze a destare preoccupazione: il mito del nazionalismo turco è tutt’oggi molto forte, e a farne le spese sono i rapporto con la comunità curda. Questo comporta oltretutto ricadute anche sul suolo europeo, basti pensare alla forte presenza turca in Germania o al recente caso delle tre attiviste del PKK trovate morte a Parigi. È probabile infine che lo stesso ruolo della Turchia all’interno della NATO, in special modo per quanto riguarda l’intervento in Siria possa infastidire i partners europei, o comunque insospettirli.
Il punto è però che ciò che dovrebbe averci insegnato la parabola della Russia post-comunista è che la sprezzante superiorità dell’UE non aiuta propriamente una pacifica evoluzione di un qualsiasi paese, ma anzi alimenta sentimenti di astio e rancore, portando a fenomeni di irrigidimento nei confronti della vicina Europa. Non può dunque non tornare alla mente le parole di José Ignacio Torreblanca su El Pais (qui la traduzione di PressEurop): “l’Europa sta perdendo i cittadini“. Non è difficile, guardando ad Atene, a Madrid e ad Ankara il capire perché. L’adesione è però -vorremmo credere- ancora possibile. Lo è come lo è qualsiasi atto politico supportato da una sufficiente volontà. Anche se i giornali turchi non ci credono più. Soprattutto perché non ci credono più.