Il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) viene istituito con la legge 833/1978, con la quale ad esso viene affidato il compito di fornire assistenza sanitaria a tutti coloro che ne necessitino, senza distinzioni di genere, etnia, residenza, età, reddito e lavoro. In vista di questo obiettivo, indirizza il suo operato sulla base dei seguenti principi fondamentali: responsabilità pubblica della tutela della salute, universalità ed equità di accesso ai servizi sanitari, globalità di copertura in base alle necessità assistenziali di ciascuno, secondo quanto previsto dai Livelli essenziali di assistenza, finanziamento pubblico attraverso la fiscalità generale, “portabilità” dei diritti in tutto il territorio nazionale e reciprocità di assistenza con le altre regioni.
Nell’ambito di gestione della sanità, le regioni godono di una certa autonomia, potendo anche adottare normative interne proprie, competenza regolando l’organizzazione territoriale sia privata che pubblica, la rete ospedaliera e gli acquisti e delle forniture. Sono quindi le regioni a dover portare sulle proprie spalle anche la grande responsabilità di gestire i mezzi a disposizione, in modo da evitare il collasso del sistema, salvaguardando l’interesse collettivo. Il SSN segnò una grande conquista, un fiore all’occhiello del Welfare State, modello per numerose altre nazioni e considerato tra i migliori al mondo per efficacia ed efficienza.

Cosa rimane di tutto ciò?

“Esiste un’emergenza ospedali, con Pronto soccorso allo stremo, liste d’attesa infinite e un continuo ricorso alle soluzioni estemporanee più fantasiose per tappare le falle di una nave che sta affondando. Inoltre esiste un’emergenza territorio, che la riforma finanziata con i fondi del Pnrr rischia di non riuscire a risolvere, in assenza di ulteriori investimenti a regime. Emergenze che tuttavia stentano a comparire tra gli interventi prioritari promessi dai partiti politici nella campagna elettorale in corso”. Lo denunciano i sindacati dei medici riuniti nell’Intersindacale, in rappresentanza di 120mila medici, veterinari e sanitari dipendenti del SSN, che hanno presentato un manifesto “per la nuova sanità”.

Le conseguenze della pandemia

La pandemia di Covid-19 ha portato sull’orlo del collasso il nostro sistema sanitario nazionale, evidenziando le maggiori problematiche e fragilità, influendo sulle condizioni di lavoro infermieristico in termini di riduzione di salari, aumento del carico di lavoro e carenza del personale. Tali condizioni scadenti sono associati a livelli più elevati di burnout. Il “burnout” (termine di origine inglese che letteralmente significa “bruciato, esaurito”), secondo l’OMS, è una sindrome derivante da stress cronico, associato al contesto lavorativo che non riesce ad essere ben gestito e, costituendo lo stato d’animo che quotidianamente viene sperimentato dal personale sanitario che si trova a lavorare nelle suddette condizioni, è considerato uno delle principali cause del collasso del SSN.

Durante il picco pandemico la carenza dei professionisti sanitari è stata esorbitante, anche per via dei contagi da coronavirus che hanno colpito tanti di loro. Nel 2021 l’OPI (Ordine delle Professioni Infermieristiche) ha lanciato un grido di allarme: il sistema sta per collassare, gli infermieri, così come il resto del personale sanitario, sono stremati e l’allontanamento di coloro che non si erano vaccinati, sta mettendo a dura prova gli ospedali e i servizi, che soffrono per la carenza di infermieri e OSS (Operatori Socio-Sanitari).
Dopo la pandemia niente è cambiato. Continua la fuga dei medici dagli ospedali, continua la condizione di quasi sfruttamento del personale medico e sanitario, continua la sofferenza dei pazienti e le richieste di cure che trovano solo infinite liste d’ attesa, in un sistema che si avvicina sempre più al cedimento.

La crisi economica è anche crisi sanitaria

La crisi economica italiana ha avuto impatti importanti sul settore sanitario ed in particolare su quello infermieristico. Si possono individuare tre livelli di impatto: il livello “macro” che fa riferimento alle politiche, “meso” che corrisponde ai servizi infermieristici e alla loro formazione e il livello “micro” che si occupa della pratica clinica. Tutto questo porta di conseguenza larghi impatti negativi anche sui pazienti. L’economia italiana mostra dei segnali di ripresa che, tuttavia, sono insufficienti per dichiarare che il paese stia uscendo da questa situazione di emergenza e irrequietezza, che sembra quasi essere diventata congenita.
Non rimane più nulla del SSN efficace ed efficiente, nel quale trovava compimento l’interesse collettivo generale: L’Istat, infatti, constata che il 6,5% della popolazione posticipa le cure o abbandona la volontà di curarsi, e spesso i cittadini stessi si trovano costretti a pagare le proprie cure di tasca propria, o tramite una mutua privata. 20 milioni di italiani che, già precedentemente alla pandemia, spendono oltre 35 miliardi di euro per curarsi presso strutture private. Buona parte di questa cifra proviene da famiglie meno abbienti, alcune delle quali devono indebitarsi per accedere a servizi essenziali, che dovrebbero essere garantiti a tutti in un paese che promette una sanità universale.
Questo rappresenta il fallimento più totale dello Stato italiano e della politica impegnata in una campagna elettorale che parla di tutto fuorché di sanità.
Ma ciò che spinge ad una riflessione più approfondita è il significativo distacco tra Nord e Sud, che si ripresenta in modo chiaro e sostanzioso anche nell’organizzazione sanitaria: al Sud troviamo una diminuzione dell’aspettativa di vita, un aumento della mortalità, ma anche una crescita del tasso di ospedalizzazione, cioè il numero dei ricoveri sul numero della popolazione afferente all’ospedale di riferimento, poiché spesso i pazienti si recano presso la struttura ospedaliera solo quando ormai la malattia è cronica.
Si tratta quindi di un paese diviso in due, al quale non interessa e che non tenta in alcun modo di impedire l’esodo dei giovani medici verso le regioni del Nord Italia e verso stati esteri, lasciando il Sud povero di risorse e poco organizzato.

Come sopperire a queste mancanze?

Non diversamente da altri, il settore sanitario necessita di uno snellimento, di una deburocratizzazione, e ha bisogno di rimettere al centro i bisogni e l’interesse del malato, parole che purtroppo rimangono troppo spesso solo uno slogan.
Si potrebbe cominciare dagli acquisti e nell’organizzare un sistema per migliorarli, affiancandoli dove possibile alle gare. Sono proprio quegli assenti tariffari gli strumenti necessari per misurare i costi in cambio di parametri di qualità, magari anche prediligendo aziende italiane, già riconosciute leader in moltissimi ambiti sanitari. Ciò permetterebbe un’ulteriore affermazione del valore dei prodotti made in italy, oltre a garantire i posti di lavoro ed interi distretti.
Un sistema di cure, che vuole ambire a soddisfare pienamente i bisogni della propria popolazione, deve necessariamente tornare a puntare sulla formazione dei propri medici e delle figure sanitarie, e rivolgendo il focus primario sulle Università, motore dello sviluppo e della cultura della società, ma che sempre più vengono dimenticate e messe da parte dalla politica e dai vari partiti politici, di destra e di sinistra, che si sono susseguiti al governo.

E per fare in modo che questa situazione disperata del SSN non continui a ripresentarsi è necessario assicurare condizioni di lavoro ottimali, nelle quali le persone che dedicano la propria vita alla cura dell’altro possano esprimere al meglio le proprie abilità. Come ribadiscono i sindacati “la sostenibilità del servizio sanitario passa per la valorizzazione, l’autonomia e la responsabilità dei suoi professionisti. Perché parlare di sanità significa parlare di lavoro in sanità e parlare di lavoro significa parlare di capitale umano. È questo il passaggio necessario per chiunque abbia a cuore il presente e il futuro della più grande infrastruttura civile e sociale che questo Paese abbia costruito”.

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