Il termine Gender Gap indica il divario di genere, ossia la diversità di trattamento tra donne e uomini in vari campi della vita. È un indicatore che quantifica la distanza fra i sessi tenendo conto di fattori quali il lavoro, l’educazione, la sicurezza e così via. Svariate organizzazioni internazionali e istituti di ricerca conducono analisi con l’obbiettivo di rafforzare e stimolare la parità di genere nelle Nazioni. A tal proposito l’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (European Institute for Gender Equality — EIGE) redige il Gender Equality Index. Nell’edizione 2021 l’Italia si è posizionata al 14° posto con un punteggio di 63,8 su 100, al di sotto della media europea stimata a 68 punti. Il quadro delineato è allarmante, specialmente se confrontato con altre analisi come per esempio il Bilancio di Genere 2020, redatto dal Dipartimento della Ragioneria Ufficiale dello Stato e presentato in Consiglio dei Ministri ad agosto 2021.
Allarme: Mercato del lavoro
Secondo il Bilancio, il tasso di occupazione femminile è sceso al 49% e il divario rispetto a quello maschile è salito a 18,2 punti percentuali. In sostanza una regressione rispetto al 2019, quando cioè per la prima volta il tasso di occupazione femminile era salito al 50% e il divario con quello maschile era di 17,9 punti percentuali. Tale involuzione è legata a problemi strutturali del mercato del lavoro femminile, che la pandemia da Covid-19 ha contribuito ad acuire. Non è un Paese per donne.
In primo luogo, la precarizzazione dovuta alla necessità di trovare orari di lavoro flessibili seppur meno retribuiti e che avvolte rilegano le lavoratrici in una posizione lavorativa inferiore rispetto al loro titolo di studio. Questa esigenza è legata all’ammontare delle ore di lavoro non retribuite (destinate alla cura della casa e della prole) che ricadono ancora oggi totalmente sulle spalle delle donne. Sono quindi prevalentemente le donne le destinatarie di contratti di lavoro a tempo determinato o part-time, oppure a essere agevolate dalle modalità flessibili dell’economia informale. La dimensione della casa e della famiglia non è soltanto ragione di penalizzazioni in termini di carriera e salario, è anche motivo di una vera e propria difficoltà di accesso e permanenza sul mercato del lavoro. Ne è conseguenza il fenomeno della mancata partecipazione al mercato del lavoro, contraddistinto dall’assenza di ricerca attiva dello stesso. Questo problema riguarda le più giovani, in particolar modo se hanno figlie o figli in età prescolare. Il rapporto tra il tasso di occupazione delle lavoratrici madri e il tasso di occupazione delle lavoratrici senza figli è pari al 73,4% nel 2020 e per le giovani tra i 25 e i 34 anni scende al 57,5%.
In secondo luogo, la segmentazione orizzontale del mercato del lavoro. Sono settori a prevalenza femminile quelli del commercio, del sociale, della ristorazione e del turismo, ovvero quelli più colpiti dalle misure di contenimento della diffusione del virus. Al contrario è molto bassa la presenza femminile nei settori STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics – Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica), da ciò derivano due problemi principali. Da una parte, questo tipo di figure professionali hanno remunerazioni più alte, dunque il divario di genere in questo ambito ha effetto diretto sul divario salariare tra donne e uomini. Dall’altra parte, la maggioranza dei mestieri del futuro apparterranno a questo campo. Perciò la mancata presenza femminile sarà ragione di un drastico calo dell’occupazione femminile sul lungo periodo.
Come anticipato le misure adottate durante lo stato di emergenza hanno gravato principalmente sulle donne. Innanzitutto il 70% dei posti di lavoro persi sono di donne. La precarizzazione ha avuto la conseguenza che il mancato rinnovo dei contratti ha riguardato con maggiore forza i settori a maggioranza femminile. Poi, la forte presenza femminile nell’economia informale ha esposto molte donne al rischio di non essere raggiunte dalle misure di sostegno e protezione del reddito varate dal Governo durante la crisi. In ultimo la chiusura delle scuole e l’isolamento dei nonni in quanto categoria a rischio ha aumentato le ore destinate alla cura della casa e della famiglia, ulteriormente aggravate dalle riaperture dopo il 4 maggio 2020, che hanno coinvolto attività a maggioranza maschile. Il Bilancio di Genere 2020 evidenzia come siano state le madri a usufruire dei congedi Covid-19, del bonus baby-sitting e del lavoro agile. Quest’ultimo è “da considerarsi incompatibile con il contemporaneo svolgimento di attività di cura affinché possa contribuire a migliorare la qualità della vita nonché la produttività del lavoro”.
Per far fronte a queste problematiche servono riforme strutturali sia in campo legislativo che culturale, al fine di promuovere un’uguaglianza di ruoli all’interno delle famiglie. Proprio di questo si occupa uno dei due schemi di Dlgs approvati in Consiglio dei Ministri lo scorso 31 marzo. Il Dlgs in questione ha l’obbiettivo di dare attuazione alla direttiva (UE) 2019/1158 del 20 giugno 2019 in materia di equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, tuttavia non tenendo conto di alcuni aspetti fondamentali. In primis il Decreto riconosce la priorità per l’accesso al lavoro agile ai genitori con figli fino a 12 anni o disabili e a caregiver. Come segnalato in precedenza, risalta dal Bilancio di Genere 2020 che il lavoro agile non può essere considerato compatibile con il contemporaneo svolgimento delle attività di cura in un’ottica di conciliazione fra vita lavorativa e vita privata, perché contribuisce ad alimentare il fenomeno della riduzione delle ore di lavoro rispetto a quelle dedicate alla cura. In aggiunta, diventano nove i mesi per i quali si può ottenere il congedo parentale parzialmente indennizzato al 30%, che si potrà richiedere per figlie e figli fino ai 12 anni.
Invece per quanto concerne le famiglie monoparentali cresce a 11 mesi il periodo di congedo di cui si può usufruire. Il Decreto non prevedendo nessuna formula ad hoc lascia inalterata la distribuzione dei compiti fra i coniugi e pertanto, gli strumenti da esso disciplinati saranno l’ennesimo mezzo utilizzato esclusivamente dalle madri lavoratrici. Oltre ciò il 90% delle famiglie monoparentali è costituito da donne. Di conseguenza risulta necessario prevedere degli strumenti concreti di aiuto all’accesso e permanenza femminile nel mercato del lavoro, come ad esempio l’istituzione di asili pubblici h24. Altresì disciplinare misure efficaci al raggiungimento della parità di genere cominciando dalla correzione del congedo di paternità nella sostanza non modificato dal Decreto. Il congedo prevede 10 giorni obbligatori più uno facoltativo in caso di rinuncia da parte della madre lavoratrice di fruire di un giorno di congedo di maternità, dagli ultimi due mesi di gravidanza entro il quinto mese di vita del bambino (o entro 5 mesi dall’ingresso in famiglia/Italia in caso di adozioni nazionali/internazionali oppure dall’affidamento o dal collocamento temporaneo). Il Bilancio di Genere 2020 evidenzia come la quasi totalità dei neopapà non faccia richiesta del giorno facoltativo. La percentuale cala ancor di più se si prendono in considerazione i papà lavoratori con figlie. Sempre dal Bilancio di Genere 2020 si evince che sono le neomamme ad avere più difficoltà nella gestione fra vita privata e lavorativa. Proprio qua allora si dovrebbe intervenire, aumentando il congedo di paternità obbligatorio. Non è un Paese per donne
In fine quanto descritto si ripercuote sulla previdenza sociale. Le donne italiane ricevono mediamente una pensione del 33,2 % inferiore rispetto a quella degli uomini. Non è un Paese per donne
Emergenza: Istruzione
L’Italia è uno dei Paesi con livello d’istruzione più basso in Europa insieme a Bulgaria, Romania e Ungheria. La questione interessa tanto i maschi quanto le femmine. Se infatti l’abbandono precoce è un fenomeno perlopiù maschile, la quota di ragazze NEET (Neither in Employment or in Education or Training – Né Occupate né in Istruzione o Formazione) è in aumento, raggiunge il 29,3% nel 2020, ed è in percentuale maggiore rispetto ai ragazzi, 21% nel 2020. Nelle università italiane c’è una maggior presenza femminile, nel 2019 si sono laureate 385 mila studentesse contro 292 mila studenti. In più, le donne tra i trenta e i trentaquattro anni che hanno conseguito un titolo universitario sul totale della stessa fascia di età sono il 34,4% nel 2020. In maggioranza a paragone con gli uomini che sono il 21,4% nello stesso anno. La segmentazione orizzontale del mercato del lavoro trova origine pure nelle divisioni all’interno delle università. Le studentesse italiane si iscrivono a facoltà umanistiche e sociali, solo il 22,5% è iscritto alle facoltà delle discipline STEM. La ragione di tale divario è socioculturale ed è misurata in termini quantitativi dal Gender Dream Gap, un indicatore volto a misurare la differenza di ambizioni fra bambine e bambini.
Invero le bambine vengono stimolate attraverso giochi che rimandano alla dimensione dell’estetica e della cura, come le bambole o gli utensili da cucina. A tal riguardo è interessante analizzare il rapporto PISA (Programme for International Student Assessment – Programma per la valutazione internazionale degli studenti) 2018 (ultima edizione in quanto l’edizione 2021 è slittata al 2022 causa Covid-19), un’indagine promossa dall’OSCE che si svolge ogni tre anni con l’obiettivo di valutare il grado di competenza degli studenti quindicenni su conoscenze e abilità essenziali per la piena partecipazione alla vita economica e sociale. La relazione sottolinea come già in tenera età ci siano forti differenze in ambito matematico e scientifico giacché sono gli stessi insegnanti ad alimentarle, scoraggiando le studentesse all’apprendimento considerandole non all’altezza.
Seppur in svantaggio, le donne conseguono in numero maggiore il dottorato di ricerca nelle materie STEM, nel 2020 sono il 43,1% del totale dei dottorandi/e.
Da ultimo le giovani laureate trovano con più difficoltà lavoro. Le occupate sono il 61,2 %, di meno rispetto agli uomini che sono il 68,2%. Non è un Paese per donne
Codice rosso: Violenza maschile contro le donne
Il lockdown e l’incertezza economica provocata dalla chiusura delle attività produttive hanno contribuito ad aumentare i casi di violenza sulle donne. Nel periodo compreso fra il 1° gennaio e il 22 agosto 2020 si sono registrate 74 vittime di femminicidio. I dati riferiti allo stesso periodo del 2021 registrano una leggera retrocessione del numero delle vittime a 65. Contemporaneamente l’ISTAT riporta come sia accresciuto il numero di richieste di aiuto al 1522, numero del centralino antiviolenza e stalking, a seguito delle campagne di sensibilizzazione promosse dal Dipartimento delle Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, sui canali televisivi e rilanciate sui social. Difatti sono 7.974 le chiamate valide sia via telefono che via chat nel primo trimestre del 2021. Sono in aumento rispetto al primo trimestre 2020 del +38,8%, ma lontane dal picco del secondo trimestre 2020 nel quale sono state 12.942. In particolare, sono incrementate le chiamate per la “richiesta di aiuto da parte delle vittime di violenza” e le segnalazioni per “casi di violenza” che sono il 48,3% (3.854) delle chiamate valide. Nel periodo considerato, rispetto allo stesso frangente dell’anno precedente sono cresciute del +109%. Per giunta le persone che hanno telefonato per la prima volta al 1522 nel primo trimestre 2021 sono l’84,8% del totale, tra le vittime questo dato raggiunge l’88,1%. Il 62,1% delle vittime ha comunicato di aver subito più tipologie di violenza. Viceversa il 37,9% delle vittime ha subito una sola tipologia di violenza, di cui la violenza fisica è il tipo più frequente. Purtroppo l’età delle vittime è variabile, non sono risparmiate né bambine né donne in età avanzata.
La violenza maschile contro le donne affonda le proprie radici nella cultura machista eterocispatriarcale che promuove una politica di forza. Con la finalità di contrastarla è urgente promuovere strumenti volti a valorizzare il talento e la leadership femminile in campo economico e sociale. E poi introdurre misure volte al sostegno dell’indipendenza economica delle donne, soprattutto al Sud dove dal 2019 i femminicidi sono in incremento.
Il Piano strategico antiviolenza 2021-2023 dovrebbe per l’appunto fondarsi su quattro assi: prevenzione, protezione, sostegno alle vittime, punizione dei colpevoli e assistenza e promozione. Se da una lato, il nuovo Piano dimostra almeno in via teorica una presa di coscienza sull’importanza dell’empowerment femminile nel contrasto alla violenza attraverso iniziative quali il “reddito di libertà”, contributi per il supporto al lavoro autonomo femminile oppure percorsi di autonomia abitativa. Dall’altro si delinea nuovamente il mancato riconoscimento da parte delle istituzioni del ruolo fondamentale dei cav, ai quali viene delegato un ruolo di mero servizio nell’accompagnamento delle donne nella fuoriuscita da situazioni di violenza. Non è n Paese per donne