Nel corso del 1945, incontra la sua fine il regime fascista che per 20 anni aveva tenuto sotto giogo la nazione italiana: decade il governo Mussolini, il partito nazionale fascista è ormai sciolto, gli organi del regime cessano le loro funzioni, il duce viene assassinato mentre tentava la fuga e i suoi funzionari vengono arrestati e processati. Si potrebbe quindi pensare che l’esperienza fascista in Italia abbia trovato la sua fine. Ma è veramente così?

La risposta non è così semplice ed immediata, infatti innumerevoli intellettuali, fra storici, giuristi, politologi, sociologi, fin dal 1945 si sono adoperati per mettere un punto a tale questione, giungendo però a conclusioni tutte differenti. 

Si possono citare, ad esempio, Benedetto Croce, il quale sostiene che il fascismo sia stato una patologia passeggera che appestò un’Italia sana e che costituì una mera “parentesi” della storia italiana. D’altro canto, Umberto Eco individua degli archetipi politici ed ideologici, attraverso i quali il fascismo si mantiene vivo ancora oggi, riproponendosi sempre con nuovi volti e modalità.

In ogni caso, sarebbe una grande semplificazione affermare che il fascismo abbia fatto fronte ad una morte definitiva nel 1945, oltre ad essere una premessa che non consentirebbe di verificare più a fondo se e come, ancora oggi, sopravvivono le sue componenti all’interno della nazione e della società italiana. 

Il Fascismo storico

Per quanto riguarda il livello d’esame giuridico-istituzionale, il fascismo come ordinamento statale finisce nel 1943, prima con la destituzione di Mussolini e poi con la soppressione delle principali istituzioni del regime, come il Gran Consiglio del Fascismo e la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, e del PNF (Partito Nazionale Fascista). Il referendum del 1946, determinante la fine della monarchia italiana, e la nuova Costituzione repubblicana, votata a suffragio universale ed entrata in vigore nel 1948, segnano un inequivocabile cambio di rotta politico rispetto alla fase autoritaria appena conclusa. Inoltre, per portare a compimento la defascistizzazione dello stato italiano, viene dato inizio al processo di epurazione, cioè la rimozione dalle cariche e il processo dei funzionari fascisti. Tale compito è inizialmente portato avanti da AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territory, cioè il governo alleato di occupazione), che rivolge l’attenzione del proprio operato in Sicilia, ad un limitato numero di esponenti fascisti ritenuti pericolosi. In questa fase di epurazione “leggera”, gli impiegati di basso grado dell’amministrazione pubblica fascista furono largamente mantenuti e vennero autorizzati a continuare lo svolgimento delle proprie funzioni. Successivamente le redini dell’operazione passarono in mano al governo italiano, il quale prese in esame per primi coloro che furono più coinvolti all’interno della vita politica fascista. Su 143.781 funzionari statali presi in esame, solo 13.737 affrontarono un processo e, di questi, meno di 2000 furono rimossi dal loro posto di lavoro. Fu quindi un processo che colpì unicamente una piccola frazione del personale fascista e che per la maggior parte interessò dipendenti di minor grado, poiché i più importanti riuscirono a lasciare l’Italia in tempo. La faccenda si concluse nel 1946, con l’eliminazione dell’Alto Commissariato per le sanzioni contro il Fascismo, organo istituito ad hoc nel 1944 e sostituito nel suo ruolo dal Presidente del Consiglio, e con l’amnistia concessa da Palmiro Togliatti, l’allora ministro della giustizia e leader del PC, che permise a molti funzionari, tra i quali anche alcuni autori di gravi crimini, di non subire le dovute ripercussioni. Le persone graziate da tale decreto ministeriale, non solo non attraversarono alcun processo o videro la propria pena ridursi drasticamente, ma furono lasciate ai propri posti all’interno dell’apparato amministrativo e giudiziario,  e venne permesso loro di partecipare alla vita politica della nuova repubblica, come nel caso del MSI (due terzi del suo gruppo parlamentare, negli anni successivi, erano costituiti da ex funzionari graziati). Il “colpo di spugna” di Togliatti non permise quindi un rinnovamento degli organi statali e impedì un rottura netta con l’amministrazione fascista. 

Una discontinuità però si ha a livello giuridico e costituzionale: nel 1948 entra in vigore la Costituzione repubblicana, soppiantando lo Statuto Albertino che, per via dei suoi meccanismi di revisione estremamente flessibili, permise a Mussolini di salire al potere e di attuare politiche lesive delle libertà personali e politiche. Dalla scrittura della nuova Carta Costituzionale venne escluso il neonato Movimento Sociale Italiano, fondato da reduci della Repubblica di Salò ed ex esponenti del regime, per sottolineare il distanziamento dal periodo storico appena concluso e il carattere antifascista del nuovo progetto ”Italia”. 

La repubblica italiana delineata dalla Costituzione segue il modello dello stato di diritto e di welfare state che va sempre più diffondendosi nel secondo dopoguerra, abbandonando per sempre la forma di stato autoritaria. A tal proposito, i diritti e le libertà personali sono garantiti in quanto principi fondamentali della costituzione e, per impedire che mai possa ritornare un nuovo regime fascista, viene inserito l’antifascismo come valore repubblicano nelle disposizioni transitorie e finali (XII disposizione) del documento costituzionale, come criterio in base al quale è vietata la “riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Tale disposizione porta all’approvazione della sua legge attuativa, cioè la famosa legge Scelba, che introduce anche il reato di apologia del fascismo, il quale si verifica quando una persona “pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo oppure le finalita’ antidemocratiche proprie del partito fascista”. Ciò che viene spesso messo in dubbio è il controllo effettivo nei confronti del rispetto della XII disposizione e delle leggi che la attuano. Alla Corte Costituzionale sono stati posti più volte quesiti di costituzionalità riguardanti la Legge Scelba che, secondo partiti storici di estrema destra, violerebbe il principio della libertà di espressione e di manifestazione sanciti dalla Costituzione. Si è infatti più volte cercata l’applicazione di questa norma nei confronti di esponenti del Movimento Sociale Italiano, il quale soprattutto nei suoi primi anni di vita aveva fatto ben poco per prendere le distanze dal fascismo, del movimento Fascismo e Libertà o, in generale, di manifestazioni che inneggiassero al Fascismo e facessero uso di simboli fascisti. La Corte Costituzionale chiarisce quindi i dubbi di costituzionalità con più sentenze nel corso degli anni ‘50, ribadendo la conformità della legge Scelba alla Costituzione, ma limitando il suo raggio di applicazione agli atti e manifestazioni che costituissero concretamente una istigazione alla riorganizzazione del disciolto partito fascista. Secondo queste sentenze della Corte Costituzionale quindi, finchè non si tratta di un tentativo di ricostituzione del PNF, è lecito inneggiare Mussolini, vendere gadget con simboli fascisti o anche fare cortei che intonano canti del ventennio e che esibiscono il saluto romano. Posizione che si distanzia nettamente dalle misure prese, ad esempio, in Germania, secondo le quali qualunque esibizione di simboli, gesti o slogan incostituzionali (nazisti, fascisti, di estrema destra in generale, ma anche legati all’URSS) sono categoricamente vietati. Tali normative sono adottate ed applicate a tutela del processo di denazificazione, iniziato nel secondo dopoguerra. Il processo di defascistizzazione in questi termini, invece, non è mai stato concluso.

Da un punto di vista politologico, la politica italiana odierna eredita dal fascismo le sue strategie di mobilitazione e di controllo della società civile, ad opera dell’agente politico per eccellenza, cioè il partito di massa. Questa ampia partecipazione popolare si rende evidente osservando le bassissime percentuali di astensionismo delle elezioni politiche dal 1946 in poi, coinvolgimento politico popolare che però si riduce esclusivamente all’azione di recarsi al seggio ogni 5 anni per esprimere il proprio voto. Fra un’elezione e l’altra la società civile italiana conserva infatti un comportamento politico tipico dei regimi autoritari, cioè disinteressato e lassista, dovuto ad una politica gestita da élite e poi imposta top down alle masse, che non hanno opportunità di fornire alcun riscontro. Inoltre, i nuovi partiti (in particolare la DC e il PCI) sfruttano la penetrazione territoriale che il partito fascista era riuscito a raggiungere tramite organizzazioni ancillari, cioè associazioni locali che offrono servizi di interesse della società civile, ad esempio centri sportivi, oratori ma come anche i sindacati. Se da un lato il PCI si trova a dover creare da zero questa sua rete di associazioni , il DC ha la possibilità di appoggiarsi ad una già consolidata, cioè quella gettata dalle diocesi cattoliche e che era in parte sopravvissuta al ventennio fascista. Questo radicamento territoriale dei partiti  è andato via via perdendosi, con il passaggio da partiti di massa ai partiti pigliatutto, ma soprattutto dopo lo scandalo di Mani Pulite, in occasione del quale i partiti della cosiddetta Prima Repubblica lasciano il posto a nuove formazioni politiche, che assumono caratteristiche organizzative ben diverse.

Il Post-Fascismo

Escluse quindi dall’analisi le componenti giuridico-istituzionali, si è lasciati con in mano la società, i costumi, le abitudini dell’Italia visibili quotidianamente ad occhio nudo. Il fascismo, dopo la caduta del regime, ha lasciato dietro di sé dei solchi profondi dal punto di vista socioculturale: un intero popolo che doveva, in qualche modo fare i conti con le proprie colpe, ma che allo stesso tempo viene lasciato senza certezze e punti di riferimento nel nuovo ordine democratico. Generazioni di italiani nati sotto al regime, educati in scuole che utilizzavano testi fascisti, introdotti alla vita sociale tramite l’Opera Nazionale Balilla, autorizzati a partecipare alla politica solo se in possesso del tesserino del PNF, che per venti anni sono stati l’oggetto dei tentativi del regime di formare una coscienza nazionale fascista. Come si inseriscono quindi nella nuova Italia democratica, fondata su valori completamente differenti rispetto a quelli insegnati loro negli anni precedenti? Anzi, sarebbe più giusto chiedersi, dove sono finiti i milioni (6 milioni nel 1939) di italiani che dal 1922 al 1943 aderirono in massa al PNF, o gli altrettanti che riempirono le piazze italiane durante i discorsi al balcone di Mussolini? Il fascismo non ha lasciato alcuna traccia nell’immaginario collettivo degli italiani?

Per dare risposta a queste domande, storicamente, si è ricorso a diverse interpretazioni del comportamento del popolo italiano durante il ventennio, a cui sono stati attribuiti differenti significati e conseguenze. 

Secondo una prospettiva antifascista, il popolo italiano aveva mantenuto il desiderio di essere liberato dal giogo del Fascismo durante tutta la durata del regime e si riteneva, infatti, che la Resistenza fosse stata il risultato di un sforzo collettivo nazionale contro l’oppressione nazifascista. Tale approccio mediatico e propagandistico viene adottato immediatamente dopo la fondazione della Repubblica, con il fine di una ricostruzione dell’identità italiana nel nome dei valori antifascisti.

Un’altra lettura, invece, si fonda sul mito culturale che incombe sul popolo italiano dell’opportunismo e del trasformismo. Si vede, infatti, come estremamente disinvolto il passaggio che gli italiani effettuarono dal fascismo alla democrazia nel 1943, accettando senza particolari remore il nuovo ordine sociale e politico, nello stesso modo in cui avevano accettato il dominio fascista, nel nome del quieto vivere.

Entrambe le interpretazioni partono quindi da una premessa simile, secondo la quale il totalitarismo fascista fallì nel proprio intento di costruire una nuova coscienza collettiva, e che a ciò corrispondesse una totale mancanza di ripercussioni a lungo termine dell’azione pedagogica e culturale fascista sulla società italiana. 

Solo negli anni ‘90 si inizia a venire a patti con il fatto che il fascismo avesse goduto di un grande consenso delle masse e di una convinta partecipazione da parte del mondo intellettuale italiano, e che quindi il passaggio da regime fascista a repubblica democratica non fosse stato effettivamente così pulito ed indolore. Si pone quindi la questione della responsabilità degli italiani, e del fatto che la narrazione storiografica predominante ritenga il popolo, invece che complice del fascismo, una sua vittima. 

Rimane quindi irrisolto il rapporto tra la società italiana odierna ed il suo passato, non essendoci stata effettivamente alcun percorso culturale per rieducare la società ai nuovi valori democratici, soprattutto in funzione della propria storia recente, e non tramite un suo insabbiamento, tramite la raffigurazione di tale periodo come un capitolo chiuso definitivamente. Non sono infatti insolite le figure che, pur avendo un passato a dir poco controverso per quanto riguarda i legami con il fascismo o addirittura diretti rapporti di parentela con Benito Mussolini, sono perfettamente inserite nel panorama politico italiano e raccolgono notevoli consensi. Non è insolito che il termine antifascista venga definito divisivo e contrario alla libertà di opinione, in un paese che ha il ripudio del fascismo scritto nella propria costituzione. Non è inoltre insolito che manifestazioni, come il corteo annuale che si svolge a Predappio, in occasione dell’anniversario della marcia su Roma, o il saluto romano in occasione del funerale della vedova Almirante, siano autorizzate dalle autorità. Non è neanche insolito che, facendo una passeggiata sul lungomare di Latina, ci si possa imbattere in una bancarella che offre un’ampia varietà di gadget decorati dal viso del Duce e dal fascio littorio. 

Tali esempi costituiscono una minoranza che, dal punto di vista della rappresentazione, non trova un effettivo campo di azione, ma che sono esemplificativi di quanto a fondo il cittadino si possa spingere negli estremismi politici e di quanto cieco sia lo stato di fronte ad una potenziale minaccia che, storicamente, non è estranea alla democrazia italiana.

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