Is America great again?

Donald Trump è ufficialmente Presidente degli Stati Uniti d’America da ormai oltre due anni, dopo aver vinto le elezioni presidenziali contro la candidata democratica Hillary Clinton, pur avendo perso il voto popolare. Tutta la campagna elettorale del tycoon newyorchese è stata impostata sul detto “make America great again”. Uno slogan, che almeno finora, Trump ha cercato di perseguire tramite una durissima dialettica contro il Congresso, reo, soprattutto dopo le elezioni di mid-term del 2018, di bloccare il suo programma di riforme. Tuttavia, secondo Trump, gli Stati Uniti, innanzi tutto dovevano ricominciare a fare la voce grossa in politica estera ed è proprio tramite gli enormi poteri che il Presidente Usa per Costituzione ha in questo ambito, che ha preso una serie di decisioni, spesso assolutamente unilaterali, che hanno inasprito molti dei rapporti, commerciali e politici, che gli Stati Uniti avevano, nel corso di decenni, instaurato con molti partners d’oltreoceano.

Donald Trump, sia in campagna elettorale, sia durante questi primi anni di presidenza, si è sempre presentato come colui che dice la verità, si è sempre vantato della sua schiettezza, ha sempre affermato di dire esattamente quello che pensa. Questo suo modo di comunicare, lo porta spesso a dichiarazioni sopra le righe, che complicano le relazioni con altri paesi. Ne sono un esempio evidente le ultime dichiarazioni sulla Brexit, quando non solo ha invitato la Gran Bretagna ad inviare Nigel Farage, leader del Brexit Party, a trattare con l’Ue, ma ha anche invitato la stessa ad uscire senza pagare quanto all’Ue dovuto, banalizzando una delle tematiche che fin dal referendum del 2016 ha caratterizzato le trattative tra il governo britannico e la Commissione Ue.

Queste dichiarazioni non solo hanno delegittimato l’operato di un governo che, pur essendo dimissionario, è ancora in carica, ma hanno anche dall’altro lato, incoraggiato l’elettorato a fidarsi di un personaggio come Nigel Farage. L’attuale leader del Brexit party nel 2016 fu uno dei protagonisti della campagna per il “leave” ed utilizzò delle argomentazioni che dopo il referendum, lui stesso definì delle vere e proprie bufale. Questo atteggiamento, almeno dal punto di vista politico ha inasprito in maniera notevole le relazioni con l’Europa, che ad oggi rimane uno dei maggiori partners non solo economici, ma anche militari degli Stati Uniti.

La politica aggressiva di Donald Trump, sia sul piano delle dichiarazioni, sia sul piano delle azioni, si evidenzia anche nella strategia economica di innalzamento dei dazi, attuata sia nei confronti della Germania, e dunque indirettamente dell’Unione Europea, sia nei confronti della Cina, con cui ultimamente le relazioni sono ai minimi storici, nonostante la parziale schiarita che ci fu l’anno scorso dopo il momentaneo accordo sullo stop alla guerra commerciale durante il G20 di Buenos Aires.

Come possiamo notare dai dati forniti dall’ufficio del censimento degli Stati Uniti d’America, il saldo import-export degli Stati Uniti nei confronti di Cina, Germania, Italia, è sempre stato non solo negativo, ma crescente dal 2009 al 2018. Se ne può dedurre che questa politica molto dinamica sul piano dei dazi, sia la ricetta trumpiana agli effetti della crisi economica: dunque costringere i propri partners commerciali a pagare tasse più alte per poter commerciare con uno dei paesi con la maggior domanda di beni al mondo. Un gioco rischioso, che sul piano economico, pare stia avendo i suoi frutti, vista la crescita straordinaria del 3,2% del Pil nel solo primo trimestre del 2019. Crescita che ovviamente non può essere dovuta solo a questo fattore, ma che sicuramente è causata da un aumento dei consumi, componente fondamentale del prodotto. La domanda che però molti si pongono è se questa politica possa essere fruttifera sul lungo periodo: infatti se è vero che il Pil cresce in maniera esponenziale, è anche vero che negli ultimi anni sono aumentate le disuguaglianze. Secondo i dati OCSE, infatti, nel 2018 il 20% più ricco della popolazione guadagna nove volte in più rispetto al 20% più povero, ed il trend non pare in discesa. Ci si chiede a questo punto, se questa crescita non possa essere una nuova bolla.

La politica economica trumpiana, soprattutto sul piano estero, pare essere in diretta controtendenza rispetto alla precedente amministrazione Obama, ma più in generale rispetto allo storico degli Stati Uniti, normalmente paladini del libero mercato e del libero commercio fin dai tempi di Wilson, che ricercava un ordine mondiale privo di rotture e tensioni che ultimamente si stanno facendo sempre più forti. Infatti, oltre alle difficoltà evidenti nelle relazioni con Cina e Unione Europea, dati gli ultimi sviluppi, si sono complicati enormemente i rapporti con l’Iran, laddove sembra di essere sull’orlo di una guerra, così come non sembrano facili nemmeno le relazioni con i partners del continente americano.

La situazione in sostanza appare complessa ed osservando il panorama dei rapporti politici mondiali, ci si chiede se la soluzione ai cicli economici negativi dell’ultimo decennio, possa essere un’economia più chiusa. Soprattutto ci si trova di fronte ad un interrogativo essenziale, e cioè se il destabilizzarsi dei rapporti geopolitici tra le maggiori potenze mondiali, possa essere un prezzo adeguato da pagare a fronte di un benessere economico, che come precedentemente argomentato, sembra solamente temporaneo. La campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti comincerà ufficialmente il prossimo gennaio, con l’inizio del contest per le primarie. Donald Trump ha già ufficializzato la sua candidatura, mentre sul lato democratico ci sono moltissimi candidati, diversi fra loro. Dall’ex vicepresidente Joe Biden, fino al social-democratico Bernie Sanders, ai due estremi. Se da un lato è probabile che Trump riproporrà politiche in continuità con quanto fatto finora (come testimoniato dal nuovo slogan “keep america great” pronunciato durante l’ufficializzazione della sua candidatura ad Orlando in Florida lo scorso 18 giugno), dall’altro lato i democratici dovranno trovare una ricetta adeguata a riportare buona parte dell’elettorato degli stati chiave dalla propria, nonostante i successi economici che l’attuale presidente sicuramente rivendicherà, e allo stesso tempo spingere i partners internazionali a fidarsi di nuovo degli Stati Uniti. Impresa, che visti gli ultimi sviluppi, pare non facile.

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