Codice Rosso: la lunga crisi della sinistra italiana

Il 3 Febbraio 1991 l’allora segretario del PCI Achille Occhetto annuncia il termine di un processo iniziato con la caduta del muro di Berlino e il definitivo declino dell’Unione Sovietica. Il Partito Comunista Italiano diventa Partito Democratico della Sinistra. Di lì a poco, con la crisi del sistema partito generata dall’inchiesta “mani pulite” quelli che un tempo erano partiti di massa scompaiono, cambiano nome, moderano le loro posizioni, andando progressivamente a modificare non solo la dialettica politica, ma anche radicalmente il proprio assetto ideologico. La discesa in campo nel 1994 di Silvio Berlusconi, con Forza Italia, fa il resto: si passa definitivamente dal partito burocratico di massa ai partiti post-ideologici, personali ed elettorali.

Evoluzione storica

Il processo che dal 1991 porta al 2019 è lungo e complesso per la sinistra, che seppur con un nome diverso, si presenta comunque con le stimmate del partito figlio del PCI. La sconfitta alle elezioni del ’94, crea malumori verso chi, più radicale, aveva visto questo cambiamento, questa svolta verso la moderazione, come un grande errore. Sarà proprio la scissione avvenuta nel 1991 con Rifondazione Comunista e la successiva alleanza con quest’ultima alle elezioni del 1996 a condannare il primo governo di Romano Prodi, caduto sotto i colpi dei franchi tiratori, provenienti proprio dal partito di Fausto Bertinotti. Questo sarà il primo di tanti governi formato da coalizioni molto eterogenee, figlie di compromessi che più volte hanno condannato la sinistra, non solo in sede di governo, ma anche in successiva sede elettorale, laddove molti elettori si sono sentiti traditi da alleanze improbabili, come quella con l’Udeur di Mastella nel 2006.

Nel 1998 cade il primo governo Prodi, dunque, passando la mano al primo governo D’Alema, che nel frattempo, abbraccia il credo socialdemocratico e riformista, cambiando nuovamente nome al partito, da PDS a DS. I due governi di Massimo D’Alema e il successivo di Giuliano Amato servono a portare a termine la discussa riforma del titolo V della costituzione, e a far scendere enormemente la popolarità dei partiti della sinistra italiana a favore di Forza Italia, che grazie al sostegno della Lega Nord di Umberto Bossi e di Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini, riesce a vincere le elezioni nel 2001 e a portare a termine la legislatura con Silvio Berlusconi premier. All’interno del panorama politico italiano si è creata una circostanza insolita: seppur spezzettato in tanti partiti, lo scenario si è strutturato in un sostanziale bipolarismo tra centro destra e centro sinistra.

Ciò diventa evidente alle elezioni del 2006, con l’ampissima coalizione di centrosinistra guidata da Romano Prodi trionfante sulla coalizione di centrodestra guidata da Silvio Berlusconi. L’indice di bipolarismo, cioè la somma dei consensi ottenuti dai due maggiori sfidanti, è vicino al 100%, una circostanza praticamente unica nella storia repubblicana del nostro paese. Quest’esperienza spinge i partiti ad adottare strategie politiche centripete, come vedremo anche alle elezioni politiche del 2008, dove Walter Veltroni, decide di far propria l’esperienza dell’Unione di Romano Prodi, costituendo un nuovo partito, riformista e progressista, il Partito Democratico. Sparisce per la prima volta dal nome del partito qualsiasi richiamo alla tradizione di sinistra. Dopo il travagliato governo Berlusconi del 2008 e le complesse vicende del governo tecnico di Mario Monti del 2011, si arriva al 2013, al termine della legislatura, in circostanze completamente diverse: il PD è guidato da Pierluigi Bersani, la destra sempre da Berlusconi, ma la grande novità delle elezioni del 2013 è costituita dal Movimento 5 Stelle, che spezza il bipolarismo ottenendo ben il 25% dei consensi.

Il PD, seppur con tre governi diversi, guida il paese fino al 2018, nonostante le  enormi spaccature interne, dovute alla scissione con Liberi e Uguali, dove converge anche l’ex segretario Bersani. La figura di Matteo Renzi, moderata, se in un primo momento ottiene enorme successo, sprofonda nel baratro dopo la sconfitta nel referendum costituzionale del 2016. Ultimo successo del PD sono infatti le europee del 2014, concluse con il 40% dei consensi. Da lì in avanti, dopo la sopracitata sconfitta al referendum, arriva la bruciante sconfitta alle politiche del 2018, con appena il 18% dei consensi e la sconfitta alle elezioni europee del 2019, in cui nonostante avvenga un sorpasso nei confronti del Movimento 5 Stelle, in termini assoluti, il numero di voti ottenuto non è certo confortante.

Il PD del neosegretario Nicola Zingaretti, nonostante il periodo di ripresa che sembrava esserci stato durante le elezioni europee, oggi appare lacerato dai contrasti interni, tra le varie correnti del partito ed incapace di reagire alle pressioni politiche della Lega di Matteo Salvini e perfino di un Movimento 5 Stelle che seppur in piena crisi interna ed in piena emorragia di consensi, riesce ad apparire più dinamico dei democratici.

C’è vita a sinistra del PD?

Fin dalla svolta della Bolognina si sono creati numerosi piccoli partiti a sinistra di quello che oggi è il Partito Democratico, da Rifondazione Comunista fino agli attuali La Sinistra di Nicola Fratoianni e Potere al Popolo, tutti riuniti da un minimo comun denominatore: percentuali bassissime alle elezioni ed incapacità nel catalizzare l’elettorato. Le tematiche che affrontano di principio possono anche essere condivisibili, ma si scontrano con una real politik che oggi impone di fare i conti con partiti con strutture molto dinamiche, con mezzi comunicativi molto rapidi e soprattutto con un sistema che, anche in virtù della cessione di sovranità attuata nel corso del tempo verso l’Unione Europea, rende innegabile la presenza di un’economia di mercato con cui bisogna fare i conti.

Le soluzioni portate da Potere al Popolo, o dal nuovo Partito Comunista di Marco Rizzo, appaiono dunque inattuali e inattuabili, dal momento che si tende a negare una realtà che c’è e che fa parte di un processo irreversibile di sedimentazione storica. Inoltre, la continua tendenza alle scissioni ha portato alla presenza di tante entità atomistiche che dibattono su temi che non hanno alcuna rilevanza nel dibattito politico contemporaneo. Dunque, potremmo dire che se vita a sinistra del PD non ce n’è, in realtà di spazio politico ce n’è molto e qualcuno forse dovrebbe prenderselo.

Conclusioni

Il dramma del Partito Democratico rimane quello di essere nato in virtù di una vocazione maggioritaria ed in virtù di un sistema bipolare che oggi non esiste più: la crescita esponenziale di Fratelli d’Italia e soprattutto della Lega, la presenza costante di Forza Italia e del Movimento 5 Stelle hanno riempito e spezzettato un panorama politico che oggi sembra saturo di forze al centro del sistema.

I partiti più in crisi, infatti, sono quelli che per ora non trovano una loro precisa identità ed il PD è uno di questi. Sui temi sociali, come l’immigrazione, si è rincorso Salvini, come testimoniato dalle riforme dell’ultimo governo Gentiloni, portate avanti dal Ministro dell’Interno Marco Minniti, sui temi economici non si è riusciti a trovare un giusto equilibrio tra tematiche tipicamente di sinistra e tematiche come quelle dei partiti liberal democratici, su cui oggi, è innegabile, in Italia c’è grande spazio. L’analisi che molti fanno in questo contesto è che oggi prendere una posizione netta su vertenze all’ordine del giorno risulta complesso poiché si preferisce galleggiare in attesa che la bolla di consenso dei propri avversari politici scoppi, piuttosto che essere aggressivi e cercare di creare una reale alternativa sui temi.

Questo inevitabilmente non fa bene al dibattito politico: la degenerazione comunicativa a cui stiamo assistendo, che ha portato i fatti ad essere messi in secondo piano a favore delle apparenze, ha creato confusione nell’elettorato, rendendo nebbioso il confine tra finzione e realtà. La questione, in conclusione, sembra essere di merito e di metodo. Da un lato non si riesce a strutturare un programma che possa essere competitivo in relazione alle strutture politiche della contemporaneità, che riporti quindi realmente il paese ad una crescita che non c’è realmente mai stata dopo la crisi economica; dall’altro non si è in grado di proporre metodi comunicativi e partecipativi diversi da quelli dei propri avversari politici e che siano in grado di competere con essi.

 

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