Italia, confine orientale: tra foibe, esodi e una difficile memoria storica da costruire
Una stretta di mano tra il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il Capo di Stato sloveno Borut Pahor: è questa la foto storica che ci arriva dalla giornata commemorativa del 13 luglio.
A molti può avere ricordato la scena pressoché identica di Verdun del 1984 tra l’allora presidente francese Mitterrand e il cancelliere federale tedesco Kohl in segno di riconciliazione dopo 70 anni dalla sanguinosa battaglia della Grande Guerra.
Sono passati 100 anni, invece, da quando il Narodni Dom, la “casa del popolo” della comunità slovena a Triste, fu data alle fiamme ad opera delle squadre d’azione fasciste nel 1920. Il dono dello storico edificio ad un’associazione rappresentante la minoranza di lingua slovena è diventata quindi l’occasione per i due Capi di Stato di rendere omaggio anche alle vittime italiane delle foibe.
E’ la prima volta che un rappresentante istituzionale di una nazione dell’ex Jugoslavia compie un gesto simile.
Ma per comprendere appieno il significato storico di un simile evento è giusto riportare alla memoria i fatti che hanno prodotto una lacerante distanza tra le genti che abitano lungo il confine orientale dell’Italia.
Irredentismo e fascismo
In seguito alla nuova ridefinizione dei confini così come erano stati sanciti dai trattati di pace della prima guerra mondiale, l’Italia vide l’annessione ad est dell’intera Venezia Giulia e della Dalmazia settentrionale, isole comprese. Rimanevano fuori altri territori posseduti dall’antica Repubblica di Venezia e la città di Fiume.
Da qui, invece di concludersi il lungo processo di unificazione cominciato col Risorgimento ottocentesco, venne rilanciata la retorica irredentista da parte delle forze nazionaliste. I rapporti col nuovo stato jugoslavo furono da subito aspri. Non mancarono, inoltre, episodi di forte tensione come in occasione dell’occupazione, da parte di militari italiani, della città di Fiume nel 1919.
La situazione degenerò, appunto, nel 1920 con l’incendio del Narodni Dom di Trieste ad opera del neonato movimento fascista.
Il fascismo d’altronde si proponeva come continuatore del processo risorgimentale: in quest’ottica il sistema di assimilazione etnica operata dal regime a partire dal ’22 vedeva nei territori del confine orientale il banco di prova della politica di italianizzazione. Essa non passò soltanto attraverso una migrazione forzata di italiani, ma anche colpendo le attività economiche e culturali delle due principali minoranze, quella slovena e quella croata.
Il disegno politico proseguì con la riforma scolastica Gentile che prevedeva l’abolizione della lingua croata e slovena dalle scuole. Infine fu operata la cancellazione delle due lingue minoritarie dalla toponomastica e la italianizzazione di migliaia di cognomi sloveni e croati.
Sostenuta da un’evidente ideologia razzista, l’operazione di assimilazione forzata, inoltre, non risparmiò l’adozione di azioni repressive.
Le cose precipitarono quando, durante il secondo conflitto mondiale, l’Italia e la Germania nazista invasero la Jugoslavia. L’occupazione di quelle terre, in seguito direttamente annesse al resto della penisola, subirono lo stesso trattamento di italianizzazione forzata. Questa volta, però, la politica di repressione si avvalse anche dell’uso dei campi di concentramenti, nei quali furono deportati numerosi civili.
La situazione avrebbe trovato un capovolgimento solo in seguito all’armistizio dell’8 settembre del 1943.
Le foibe e l’esodo
Tecnicamente il termine foibe indica delle cavità carsiche. Il fenomeno storico delle “foibe” fa riferimento, invece, agli eccidi ai danni di militari e civili italiani presenti in Venezia Giulia, Dalmazia e nel Quarnaro, in due differenti momenti.
Il primo evento, appunto, è segnato dall’armistizio dell’8 settembre che rianimò i gruppi partigiani jugoslavi i quali si rivalsero nei confronti di centinaia di ufficiali militari fascisti e rappresentanti italiani – non solo politici – che occupavano ancora quelle terre. Nella situazione di sospensione del diritto e nell’assenza di un’autorità superiore, ci furono anche casi di vendetta personale, accompagnata da saccheggi e rapine.
Il secondo momento si verificò nel 1945 con la controffensiva jugoslava che puntava all’occupazione della Venezia Giulia. In questo caso le vittime degli eccidi furono quei politici o semplici civili che si opponevano alla nuova politica del capo della Resistenza jugoslava, Tito.
A differenza del senso comune, le vittime delle foibe non morirono gettate nelle cavità carsiche, se non una minoranza. Come hanno evidenziato le ricerche dello storico Raoul Pupo, la maggior parte di esse perirono invece nei campi di prigionia jugoslavi o durante la deportazione. Piuttosto che come metodo di eliminazione fisica, le foibe venivano utilizzate come modalità di occultamento dei corpi.
Sempre secondo lo storico triestino, il conto delle vittime oscilla tra le 3000 e le 5000 persone: esso è di difficile stima anche a causa delle indagini più volte rimandate, o intralciate, nel corso degli anni.
A coda del massacro delle foibe seguì, infine, il cosiddetto esodo giuliano dalmata, cioè la migrazione di cittadini di etnia e lingua italiana presenti in Istria e nel Quarnaro, in seguito alle decisioni del trattato di Parigi che cedeva quelle terre alla Jugoslavia.
Il processo migratorio non fu repentino, ma durò circa quindici anni coinvolgendo più di 300 mila italiani. Tra loro ci furono chi scelse di raggiungere il territorio rimasto italiano, oltre il nuovo confine orientale, mentre altri decisero di spostarsi in Europa, o persino nel resto del mondo.
Un muro di silenzio
Nel suo discorso alla Camera del 10 febbraio 2015, la Presidente Laura Boldrini ha sottolineato con efficacia le ragioni che portarono all’oblio di questa pagina di storia. Riprendendo anche le parole di un intervento del Presidente Napolitano di qualche anno prima, la terza carica dello Stato ha indicato come cause per un tale esito i “calcoli diplomatici e convenienze internazionali”.
Difatti, il maresciallo Tito, il presidente della Jugoslavia, nel 1948 ruppe con l’Unione Sovietica di Stalin ritirandosi dal Patto di Varsavia: così facendo aveva spinto per la creazione di un blocco alternativo a quello delle due superpotenze, USA e URSS, il cosiddetto Movimento dei Paesi non allineati. Da questa inedita posizione per un Capo di un’ex Nazione del blocco sovietico, Tito ritagliò per sé un ruolo di interlocutore col mondo occidentale, aprendo ad un’economia diversificata e un migliore rapporto con le autorità religiose. Questo dunque il grande “calcolo diplomatico”, nei confronti di un alleato obbligato.
Inoltre, al di là della figura di Tito, l’Italia repubblicana anche in virtù della sua nuova collocazione geopolitica, aveva avviato una certa normalizzazione dei rapporti con la neonata Jugoslavia. C’era un certo timore nei partiti di governo di rinfiammare vecchi spiriti irredentistici, ufficialmente archiviati nel 1975 col trattato di Osimo che rendeva definitive le frontiere tra Italia e Jugoslavia risalenti al 1947.
Infine l’ambiente politico e culturale della sinistra, che non mostrò mai particolare interesse nel riportare in superficie tale storia per “pregiudiziali ideologiche”, sempre secondo le parole di Napolitano.
Così l’unico mondo intenzionato a riscoprire la tragedia delle foibe fu quello neofascista, rappresentato in primis dal Movimento sociale italiano.
La Giornata del Ricordo
Già a partire dagli anni Cinquanta il Movimento sociale iniziò la sua attività di intercettazione della tematica. L’attenzione si rivolgeva principalmente al sentimento di abbandono degli esuli istriani che, dopo aver vissuto il trauma dell’allontanamento, subirono l’umiliazione dei campi profughi. L’essere ignorati e dimenticati divenne probabilmente la ferita più grande, alla fine.
Anche perché ormai trasformato in argomento di lotta politica, ed essendosi mescolata la propaganda alla memoria, il processo storico tardò ad aprirsi rendendo col tempo difficile la ricerca della verità e giustizia. E’ responsabilità dunque anche degli storici se ancora nel 1994, con la dissoluzione della Jugoslavia e la nascita di Slovenia e Croazia, l’argomento rimaneva saldo nella retorica dell’estrema destra.
Da qui, la ricerca di occasioni per una proposta di legge che sancisse la solennità civile del ricordo di quegli eventi: essa si concretizzò nel 2004 con il II governo Berlusconi. Per iniziativa parlamentare, che coinvolse sia la maggioranza che l’opposizione, la Camera approvò con larghi numeri l’istituzione della Giornata del Ricordo.
La data scelta fu il 10 febbraio, la stessa in cui nel 1947 furono firmati i trattati di pace di Parigi che assegnavano alla Jugoslavia l’Istria, Zara, il Quarnaro e parte della Venezia Giulia. Era evidente ancora il debito nei confronti della propaganda di parte, lasciando ancorata la questione foibe ed esodo al contesto della retorica irredentista.
Non mancarono infine critiche sollevate dagli storici come Guido Crainz che polemizzò sull’uso strumentale della commemorazione, o Angelo Del Boca che, invece, criticò l’intenzione di volerla – a suo dire – contrapporre alla Giornata della Memoria, l’occasione di ricordo delle vittime dell’Olocausto.
La stretta di mano
Alla fine di questo lungo percorso tortuoso e non privo di polemiche giunge, dunque, il significativo gesto di Mattarella e Pahor, la stretta di mano tra due popoli ancora distanti seppure vicini geograficamente. Essa pare evidenziare una comune intenzione di superare le strumentalizzazioni e negazioni delle parti opposte, di andare oltre una dicotomia manichea. Perché in un clima nazionale ed europeo di ritorno in auge delle retoriche nazionaliste, il pericolo è quello di erigere nuovi muri e fossati, ideologici e fisici: recinti arbitrari con i quali separare i buoni dai cattivi, le vittime dai carnefici. Noi dagli Altri.
Per evitare un minaccioso ritorno indietro nei tempi bui della storia è necessario affrontare quel passato, senza negarlo, ignorarlo o dimenticarlo. Piuttosto, solo facendo i conti con le proprie azioni, con i crimini e gli errori, e riconoscendo le reciproche responsabilità e le rispettive sofferenze, le nazioni coinvolte potranno intraprendere un cammino di pace e vera collaborazione.
Direttore responsabile: Claudio Palazzi