Giuseppe Conte: storia di un burattino divenuto Presidente del Consiglio

La favola di Pinocchio di Collodi, il racconto della trasformazione mirabolante di un burattino in un bambino vero, è ormai una storia universale conosciuta in tutto il mondo.
Ma essa è prima di tutto la biografia di una nazione, quella italiana. E il novello Pinocchio nell’attuale panorama politico non può che essere il Presidente del Consiglio Conte, colui che ha completato la sua personale metamorfosi da burattino a politico vero.

Maggio 2018: l’avvocato del popolo

In caso di vittoria del Movimento 5 Stelle alle elezioni del 4 marzo, la figura indicata come ministro della pubblica amministrazione era quella di un professore ordinario di diritto privato dell’Università di Firenze. Avvocato, senza alcun incarico politico precedente, il suo nome era Giuseppe Conte.

La vittoria dei grillini arriva, ma i numeri non consentono loro di governare da soli.
I lavori per comporre un governo conducono i 5 Stelle allora a cercare nella Lega di Matteo Salvini l’interlocutore per formare una maggioranza in parlamento.

I programmi e le posizioni dei due schieramenti, seppur già con punti in comune, devono trovare una sintesi in un “contratto di governo”, una soluzione inedita per la storia italiana. In un tale contesto di novità, la figura che vada a presiedere il Consiglio dei ministri deve essere qualcuno capace di mediare tra partiti così distanti e, allo stesso tempo, essere garante dell’alleanza.

La scelta ricade sull’anonimo e sconosciuto avvocato: è proprio questo, d’altronde, il ruolo che egli sceglie di ricoprire dal momento in cui ottiene dal Presidente Mattarella il mandato a formare il governo. E in Senato, in occasione del voto di fiducia al nuovo esecutivo, è sempre Conte a presentarsi come «avvocato che tutelerà l’interesse dell’intero popolo italiano».

Il deficit di autonomia e i limiti di manovra personale del nuovo premier sono i punti più criticati dagli osservatori e giornalisti, oltre che dalle opposizioni in parlamento. Difatti, il rischio di rimanere schiacciato tra i due soci di maggioranza è alto.
Ed è ciò che puntualmente accade nei primi mesi di governo.

Settembre 2018-Gennaio 2019: il burattino

Nella nuova compagine governativa i leader dei due partiti di maggioranza ricoprono ruoli di primissimo piano. Di Maio, il capo politico del M5S, accentra nelle sue mani la guida del ministero del lavoro e quello dello sviluppo economico. Salvini, invece, riserva per sé la carica di ministro dell’interno. Entrambi, inoltre, sono vicepresidenti del Consiglio: formalmente i sostituti di Conte, di fatto i veri titolari dell’esecutivo.

Le prime grandi riforme del nuovo governo sono la realizzazione dei principali punti dei rispettivi programmi elettorali: i cosiddetti “decreti sicurezza” e quota 100 per la parte leghista, e il reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia grillino.

Le conferenze stampa di presentazione delle nuove misure sono motivo di passerella per i due vicepresidenti; Conte è in mezzo a Salvini e Di Maio, quasi nel ruolo di notaio, un mero ratificatore delle decisioni prese da altri.

Parafulmine di tutte le critiche mosse al governo a cui dà il nome, l’avvocato del popolo, in questa prima fase, appare piuttosto un burattino nelle mani dei due leader, molto più esperti e scaltri sul piano politico e comunicativo. Seppure con storie personali differenti, Salvini e Di Maio hanno già imparato a muoversi nell’agone politico: sanno cosa vogliono ottenere e conoscono i rischi in termini elettorali delle promesse tradite. Hanno la pressione di dover rispondere a eletti ed elettori; in questo Conte è più libero, meno vincolato, ma anche privo di qualsiasi mandato popolare. Il Presidente del Consiglio non ha peso politico, cioè elettorale: non è neppure parlamentare. Non ha un partito o un movimento alle spalle né una parte della “società civile” in suo sostegno.

Questa collocazione aliena, extra politica, tuttavia, potrebbe rappresentare per Conte anche una posizione favorevole da cui partire per costruire una propria base di autonomia e consenso.

Estate 2019: il leader dell’opposizione

A termine di un Ferragosto di tensioni all’interno del governo, il 20 agosto 2019, in Senato, si consuma la resa dei conti tra Salvini e il Presidente del Consiglio.
Forte del risultato delle elezioni europee e delle percentuali dei sondaggi che lo accreditano vincitore in caso di nuove elezioni, il leader della Lega va allo strappo con il partner di governo grillino. In Senato, dunque, si discute la mozione di fiducia presentata da Salvini contro il proprio governo.

Tutto sembrerebbe annunciare una giornata di vittoria per il leader leghista e una mesta ritirata per il premier-avvocato avviato sulla strada delle dimissioni. Ma Conte, con una piroetta imprevista, coglie la palla al balzo per assumere il ruolo di principale oppositore di Salvini, il nuovo uomo forte della politica italiana. Opportunismo politico, scarsa sensibilità istituzionale e grave carenza di cultura costituzionale: sono queste le maggiori, aspre, critiche mosse dal Presidente del Consiglio al suo vice.

Arroccato in un immobilismo incomprensibile. il Partito Democratico, principale partito d’opposizione, mai era riuscito a sollevare le contraddizioni del governo “gialloverde”. E neppure le voci critiche fuori dal Parlamento si erano rivelate tanto efficaci contro il leader del Carroccio quanto gli attacchi di Conte.

Con un singolo intervento il “burattino” spezza i fili che lo legavano a Salvini, ma anche allo stesso Di Maio: Giuseppe Conte veste per la prima volta i panni del politico.
E affermando una propria autonomia, l’avvocato sembra riuscire nell’impresa di smarcarsi dal suo recente passato e tornare immacolato com’era prima dell’incarico istituzionale.

Agosto 2019: il premier “Giuseppi” Conte

Caduto il governo Conte, l’unica strada percorribile appare comunque il ritorno al voto. Solo un accordo impensabile tra Grillo e Renzi consegna al Presidente della Repubblica un’altra soluzione: la possibilità di un governo composto da PD e Movimento 5 Stelle.
Le trattative tra le parti sono serrate. Trovare una nuova sintesi tra partiti che fino a quel momento erano stati antagonisti, capaci di reciproche accuse pesanti, dai toni duri, persino violenti, non è scontato. Ma l’alternativa è la vittoria annunciata del centrodestra alle elezioni.

In ogni caso, il neosegretario del Partito Democratico Zingaretti chiede discontinuità rispetto al governo precedente: l’accordo è dunque vincolato alla necessità di un nuovo nome per Palazzo Chigi. Il veto del centrosinistra su Conte è irremovibile. Almeno così pare.

L’inaspettato supporto per Conte arriva da un endorsement d’eccezione: attraverso un tweet, infatti, il Presidente Trump riconosce le qualità a livello internazionale dell’avvocato; a conclusione, il Presidente degli Usa si augura che Conte possa restare Presidente del Consiglio.
Il tweet diventa virale per l’errore ortografico – Giuseppi – che Trump commette scrivendo il nome di Conte. Ma il peso politico è indiscutibile; tant’è che il veto del PD presto cade.
Con una nuova e opposta maggioranza, Giuseppe Conte sopravvive a se stesso, grazie alla leadership e i rapporti che ha saputo costruire, soprattutto a livello internazionale.

Primo semestre 2020: lo statista

Per il governo Conte II la prova più grande da affrontare non è stata la manovra finanziaria autunnale. Né la scissione all’interno del Partito Democratico. Essa è stata inevitabilmente rappresentata dall’emergenza sanitaria causata dalla pandemia di covid-19.

Nei mesi più difficili, delle decisioni drastiche come il lockdown sancito il 9 marzo, il Presidente del Consiglio ritaglia per sé la parte di statista. Attraverso frequenti dirette Facebook, Conte comunica direttamente con i cittadini chiusi nelle proprie abitazioni: a qualsiasi orario, facendo digerire ritardi e l’imprevedibilità stessa delle conferenze. Spiegando la drammaticità della situazione, il premier cerca di compattare l’opinione pubblica e non esita ad attaccare le opposizioni in nome dello stato d’emergenza. La sua popolarità schizza alle stelle.

Superate le fasi più calde della crisi sanitaria, il rischio per Conte di rimanere rinchiuso nel ruolo di gestore della crisi viene scongiurato con il lancio della sfida all’Unione Europea sul Recovery Fund come misura per la ricostruzione post-covid.

Le proposte di condividere il debito a livello comunitario e di ricorrere a finanziamenti a fondo perduto fino a qualche mese fa apparivano eretiche per l’ortodossia delle regole europee. Eppure, dopo estenuanti trattative, anche il muro più rigido dei cosiddetti Paesi frugali, i più legati alle idee economiche di austerity e di rispetto del pareggio di bilancio, è stato superato da Conte. L’ultima notizia è infatti la vittoria in campo europeo, tra lo scetticismo dei detrattori e le speranze di coloro che credono ancora nel progetto comunitario, della linea del premier italiano.

L’ultima prova per Conte, giunto a questo punto, sarà quella di difendere questa posizione: l’opportunità di usufruire di fondi dalla portata storica ha già da tempo innescato trame di potere e attacchi da avversari vecchi e nuovi.

Dopo avere affrontato l’avversario Salvini, gestito un’emergenza sanitaria e vinto la partita europea, il politico Giuseppe Conte è dunque chiamato alla sfida più importante: mantenere il ruolo di leadership che si è costruito in questi anni. Ci riuscirà?

Direttore responsabile: Claudio Palazzi

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