Proteste USA: ‘le vite dei neri contano’ nella Comune di Seattle

Il 25 maggio 2020 è la data della morte di George Floyd in seguito ad un fermo da parte delle forze dell’ordine nella città di Minneapolis, Stati Uniti.
Il video del brutale arresto da parte dei quattro poliziotti diventa virale a partire dalla sera stessa: le immagini dell’agente Chauvin che preme sul collo di Floyd mentre esala l’ultimo respiro vengono immortalate da alcuni smartphone. I social network trasmettono in diretta l’orrore della morte del quarantaseienne afroamericano:
«I can’t breath» – non riesco a respirare – è il nuovo slogan della protesta che si riversa subito nella principale città del Minnesota contro l’ennesimo abuso di potere da parte della polizia.
Il volto di Floyd diventa subito il simbolo di tutte le vittime dell’odio razziale.

La protesta ai tempi del covid-19

Un razzismo mai estirpato nel Paese, un conflitto razziale mai risolto, una rabbia degli oppressi mai del tutto placata sono resi esplosivi dall’impatto economico e sociale del lockdown. Il covid-19 diviene così protagonista e tema della rivolta: il suo “razzismo” che colpisce significativamente le fasce più deboli ed emarginate della società, fa da detonatore per il montare della collera delle minoranze.
Esclusa una manifestazione in Israele, gli Stati Uniti diventano la prima nazione ad affrontare una protesta di massa ai tempi del coronavirus. E’ la morte di Floyd a far tornare l’America, e il mondo, alla “normalità”.

Black lives matter

Due giorni dopo la morte di Floyd viene organizzata una commemorazione pubblica a Los Angeles: gli occhi del mondo sono tutti puntati sul grande evento. Il principale promotore della manifestazione è Black Lives Matter, il movimento attivista in difesa delle vittime della violenza razzista.
Ma chi sono? E cosa propongono?

La piattaforma, principalmente via web, si sviluppa intorno alle tre fondatrici, tutte donne, due delle quali queer, a partire dal 2013. E’ in occasione di un altro episodio di violenza da parte della polizia, a sfondo razzista, a provocare l’indignazione e la rabbia di Alicia Garza, una delle attiviste, che lancia su Facebook l’hashtag #BlackLivesMatter.

Nasce in breve tempo una rete internazionale di supporto nei confronti della comunità nera, all’insegna dei principi di giustizia e libertà, empatia e intersezionalità.
Oltre l’ovvia centralità dell’identità nera, il movimento è largo e aperto, queer e intergenerazionale, e si pone contro ogni forma di sessismo, misoginia e intolleranza su base di identità di genere e orientamento sessuale. Particolare cura viene riservata alle donne trans nere, considerate vittime di più forme di discriminazioni.
Dall’anno di fondazione gli hashtag più popolari sui social e i cartelloni durante le principali proteste civili in America recano tutti lo stesso slogan: Black Lives Matter. La crescita del movimento è esponenziale tanto da renderli protagonisti assoluti durante le manifestazioni di massa in seguito all’omicidio Floyd.

Dalla West Coast all’East Coast

Minneapolis, nel cuore dell’America, è l’epicentro della protesta: la rabbia e il disagio sociale, però, non ci mettono molto a propagarsi fino a raggiungere le coste opposte degli Stati Uniti.

Abbiamo già detto come da Los Angeles sia partita la prima grande manifestazione targata BLM: da un versante all’altro, è New York, una delle città più colpite dal covid-19, il principale centro delle proteste; entro il 2 giugno, saranno 23 gli Stati ad aver schierato la Guardia Nazionale per fronteggiare la marea di persone scese a protestare in centinaia di città diverse.

Secondo i sondaggi del New York Times, il 6 giugno scorso mezzo milione di cittadini si è riversato per le strade di circa 550 città. Le misure adottate dal lockdown cedono di fronte a queste folle; i governatori di una decina di Stati introducono il coprifuoco e limitazioni alla circolazione. Ma le manifestazioni non si arrestano.
Fa il giro del mondo l’immagine del muro posto davanti alla Casa Bianca, letteralmente presa d’assalto, mentre un barricato Trump minaccia su Twitter l’intervento dell’esercito nelle aree più calde della nazione.

Dalla protesta alla rivolta

Il clima si fa sempre più incandescente e lo scontro violento tra manifestanti e polizia appare spesso inevitabile. Un’America spaccata dal rancore e dalla rabbia, come mai dalla notte delle presidenziali del 2016: è questa la fotografia che i media di tutto il mondo immortalano. Scene di devastazioni, vetrine di centri commerciali distrutte e statue abbattute: ben presto, in Italia specialmente, si inizia a dibattere intorno a queste immagini. Le discussioni sulle ragioni dei manifestanti, sulle cause profonde di un sistema razzista e discriminatorio e sulle proposte concrete dei “rivoltosi”, vengono lasciate in un angolo. Appare più urgente a molti concentrarsi sulle polemiche riguardo la liceità di monumenti dedicati a schiavisti e oppressori, su Colombo sì, Colombo no e al razzismo di Via col Vento.

Soprattutto per questa ragione, dunque, l’evento della nascita di una “Comune” a Seattle, nello stato di Washington, si perde nel chiacchiericcio mediatico: sui principali organi di informazione stranieri diventa notizia solo quando essa si conclude, per altro in seguito alla morte, tragica e dalle circostanze ancora poco chiare, di due adolescenti. Soltanto quando viene posta la parola fine ad un’esperienza durata circa un mese se ne fa cenno, impedendo così di porre sotto i riflettori uno degli episodi più originali nato dalle proteste americane.
Ma essa, dunque, cosa ha davvero rappresentato? Cosa è stata?

La Comune di Seattle

A dispetto del distretto di polizia di Minneapolis dato alle fiamme la sera del 28 maggio, a Seattle i manifestanti riversati nei quartieri del centro l’8 giugno costringono gli agenti ad abbandonare la stazione di polizia che viene emblematicamente ribattezzata «Seattle people department». E’ l’inizio dell’occupazione e la nascita di CHAZ – acronimo di Capitol Hill Autonomous Zone.
Sono giovani, studenti, afroamericani, attivisti di Black Lives Matter e della sinistra radicale, ma anche artisti, insegnanti e avvocati che scendono in strada a erigere barricate e ridisegnare le vie con scritte e graffiti che ricalcano il volto di Floyd e gli slogan della protesta nazionale.

La nuova comunità, all’insegna dell’uguaglianza, si dà una struttura decisionale orizzontale sul modello delle assemblee di Occupy Wall Street, senza designare un leader o portavoce.
La vita sociale rispecchia molti principi e intenti della Comune: viene costruito un orto ad uso esclusivo degli afroamericani, e iniziata la progettazione di serre. Vengono organizzati circoli di dibattito, laboratori artistici, eventi con proiezioni di film e documentari a sfondo sociale; ci sono concerti e balli mentre si discute di università e sanità gratuita, di diritto all’abitazione e altre politiche sociali.

E’ mantenuta la raccolta differenziata, costruito un punto di soccorso medico, distribuita acqua gratis e cibo ai senzatetto: insieme ad un pasto caldo vengono consegnati libri di autori afro e indigeni. Contemporaneamente viene richiesta grande partecipazione su internet con l’intento di creare una rete solidale che, tramite donazioni, sostenga la comunità.

I dibattiti nelle assemblee producono una gran quantità di proposte, a volte anche confuse e contraddittorie. In linea con la protesta nazionale, viene portato avanti lo slogan che vorrebbe l’abolizione del corpo di polizia, o quantomeno un taglio ai fondi. In questo modo verrebbero finanziate le politiche di welfare, come la sanità e la scuola da cui si pretende la rimozione delle forze dell’ordine e una maggiore attenzione per la cultura nera e nativa. Spunta fuori il progetto per un fondo di risarcimento per le famiglie di vittime della violenza da parte della polizia e la riforma delle carceri e la soppressione di quelle minorili.
Infine, c’è anche chi avanza l’idea di “esportare la rivoluzione” del modello CHAZ nelle altre città americane.

Tra occupazioni e rivoluzione

Molte delle proposte meritorie e delle iniziative solidali col passare delle prime settimane sono sopraffatte dall’aumentare di forme di violenza interna alla Comune stessa, tra autoproclamati leader e circolazione delle armi, all’inizio bandite.
In seguito a due sparatorie ravvicinate, in cui perdono la vita due adolescenti, la pressione esterna si fa più forte. E’ costretta a cedere pure la sindaca di Seattle che fino a quel momento aveva difeso CHAZ dalle minacce di intervento di Trump.
Il primo luglio viene pacificamente sgomberata l’area di Capitol Hill e smantellati orti, tende e barricate.

L’esperienza di CHAZ dura meno di un mese: quasi la metà della durata della Comune di Parigi. A dispetto di quella francese del 1871 non è stata, fortunatamente, repressa nel sangue. Manca inoltre del tutto una coscienza politica omogenea, largamente diffusa invece tra le fila del proletariato urbano parigino che per primo nella storia issò una bandiera rossa sulle barricate.
La storia della Comune di Seattle è per forza di cose più radicata all’interno della storia americana.

Senza allontanarci troppo e raggiungere le lotte per i diritti civili animate da Martin Luther King e Angela Davis, basterebbe soffermarsi agli anni Novanta.
Nel 1992, a Los Angeles, sempre in seguito ad un atto di brutale violenza da parte della polizia nei confronti di un ragazzo afroamericano, accese proteste sfociarono in saccheggi e guerriglia urbana. La rivolta si protrasse per sei giorni: solo con una strage che contò 63 vittime e migliaia di feriti, il presidente Bush riuscì a riportare l’ordine nella città californiana.
Molti degli slogan e delle proposte nei confronti della polizia durante le proteste di oggi provengono direttamente da quell’esperienza. Segno che, se le ingiustizie non vengono affrontate e risolte, la rabbia è soltanto repressa, pronta a ricomparire alla prima occasione.

C’è comunque una netta differenza sia con la Comune di Parigi che con la rivolta di Los Angeles: essa è da rintracciare nel rifiuto di un’azione prettamente violenta, fondata anche sul ricorso alle armi. In questo senso, oltre che per le modalità organizzative, CHAZ ha recuperato piuttosto lo spirito giovanile che ha animato Occupy Wall Street nel 2011. L’occupazione e la protesta vengono vissute in modo pacifico, rifiutando per principio lo scontro frontale e l’uso delle armi. Così si favorisce un clima vivace per l’elaborazione di diverse proposte: certo, molte di quelle avanzate dai Millennials nel 2011 sono rimaste ignorate o inascoltate; altre, invece, però, sono state recuperate in seguito da Bernie Sanders e la nuova ala progressista del Partito democratico.

Non possiamo sapere se l’esperienza di CHAZ si perderà tra le pieghe della storia, oppure come la Comune di Parigi rappresenterà un modello per le proteste future, da cui imparare o trarre ispirazione. Né conosciamo il destino delle proposte avanzate: esse sopravviveranno a distanza di anni come quelle della rivolta di Los Angeles del 1992? Troveranno un compimento politico migliore di quelle di Occupy Wall Street? Chi può dirlo.
Ciò che sappiamo è che la Storia non è un percorso rettilineo, né tantomeno fisso. Non ha neppure un andamento ciclico: per questa ragione non avrebbe senso sovrapporre esperienze diverse nel tempo, e per ispirazione e per obiettivi.
Ciò che invece possiamo dire è che il corso della Storia è tortuoso, fatto di passi in avanti e arretramenti, cambiamenti repentini, grandi trasformazioni e controrivoluzioni reazionarie. A volte la Storia appare prevedibile, molte altre è inaspettata nelle sue evoluzioni.
Per queste ragioni siamo costretti a commentare ciò che osserviamo con i nostri occhi, e soltanto a immaginare il futuro.

Direttore responsabile: Claudio Palazzi

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