Colpo di Stato in Mali: il rischio di una nuova Siria

Nella giornata del 18 agosto scorso i cittadini della capitale del Mali, Bamako, hanno assistito al passaggio in strada di carri armati e veicoli dell’esercito.
Obiettivi delle forze militari erano il Presidente Ibrahim Boubacar Keita e il Primo ministro Cissé i quali, insieme ad altri ministri e funzionari parlamentari, sono stati tratti in arresto.

Attraverso un breve messaggio, il Presidente ha rassegnato le dimissioni nell’augurio di evitare spargimenti di sangue. Nella giornata successiva, sempre a mezzo televisivo, cinque membri della frangia golpista hanno annunciato la designazione del colonnello Goita presidente dell’autoproclamato “Comitato nazionale per la salvezza del popolo”. Assieme alla nuova nomina, la promessa è quella di una transizione civile verso nuove elezioni: i contorni del futuro sono, però, piuttosto incerti.
Ciò che è invece certo è che, a distanza di neppure dieci anni, ha trovato compimento l’ennesimo colpo di Stato nella storia del Mali.

Una vita difficile per la democrazia

Tra regimi di stampo comunista e sistemi monopartitici, nella storia successiva al periodo coloniale il Mali ha difatti avuto soltanto una trentina di anni di stabilità democratica.

L’ultimo golpe, sempre di matrice militare, risaliva al 2012 quando le forze armate si sono ribellate al regime democratico a seguito dello scoppio della guerra civile a Nord del Paese, nella regione dell’Azawad. Questo territorio sahariano dalla forte presenza di gruppi tuareg sin dal 1960, anno dell’indipendenza dalla Francia, ha mostrato avversione nei confronti del potere centrale di Bamako. Tra richieste di autonomia, rivendicazioni di tipo etnico e la scoperta di petrolio nella zona, nel corso degli anni sono scoppiate diversi momenti di contrasto tra la regione e la capitale maliana.

Soltanto nel 2012, però, in seguito alla sconfitta di Gheddafi e al rientro delle truppe mercenarie assoldate dal Colonnello libico, l’Azawad esplose nella ribellione armata: questa rivolta portò persino alla proclamazione di indipendenza della regione.
L’esercito del Mali, in un quadro di insofferenza e di timori per l’andamento della guerra civile decise, perciò, di intervenire, sospendendo la Costituzione e le istituzioni democratiche.

Il nuovo governo, designato dalla giunta militare nel 2013, chiese e ottenne allora l’intervento della
Francia e della comunità internazionale contro i ribelli tuareg dell’Azawad che, nel frattempo, avevano stretto un’alleanza con frange fondamentaliste di matrice islamica.
Le sorti della guerra vennero in questa maniera ribaltate, e sotto l’egida dell’ONU avvenne l’elezione del nuovo Presidente Keita.

Speranze e tradimenti

Ibrahim Boubacar Keita, politico molto popolare, già Primo Ministro e Presidente del Parlamento, rappresentava una continuità con la storia democratica pre-golpe del 2012. Eletto con larghissima maggioranza, ha trovato un grande seguito soprattutto tra i giovani che lo consideravano un politico onesto e rispettabile. Era lui l’uomo considerato in grado di combattere la
corruzione, piaga della politica e società maliana.
Rieletto nel 2018, ma solo al secondo turno e con accuse di brogli, la sua popolarità scese velocemente, invece. Nonostante l’ingombrante presenza militare straniera, col proseguire della guerra civile aumentarono anche gli attacchi terroristici; il Presidente Keita venne allora accusato dai suoi oppositori di non riuscire a garantire la sicurezza dei suoi cittadini. Ma fu la situazione economicamente difficile e il tradimento della promessa di lotta alla corruzione a far precipitare la sua leadership.

Il 2020, infine, ha presentato due nuove sfide per il Presidente maliano: l’emergenza sanitaria causata dal covid-19 e la nuova accusa di irregolarità nelle elezioni parlamentari.
In risposta alla Corte costituzionale che in primavera aveva ribaltato gli esiti elettorali, i partiti di opposizione chiamarono le piazze alla protesta: il 5 giungo, proprio nella capitale Bamako, venne organizzata una grande manifestazione che chiedeva a gran voce le dimissioni del Presidente.

Il golpe

E’ in questo clima di incertezza, sfiducia e speranze tradite che il 18 agosto avviene l’intervento militare. I massimi gradi dell’esercito hanno partecipato al colpo di Stato senza fare alcuna vittima, anzi. Le piazze dei manifestanti hanno accolto con favore l’atto di deposizione del Presidente, riponendo fiducia nelle promesse del colonnello Goita per una transizione politica pacifica.
Ma dall’esterno appaiono non ancora del tutto chiare le reali motivazioni degli apparati militari, e difficili da prevedere sono gli esiti politici del golpe.
Probabilmente esistono diversi interessi personali che coinvolgono l’esercito: dai mancati pagamenti di stipendi ad una rinnovata insofferenza legata al perdurare del conflitto civile nella regione dell’Azawad.

Mentre potrebbe essere anche avanza l’ipotesi che vede l’intervento militare atto ad intervenire prima che le proteste delle opposizioni politiche potessero trovare uno sbocco pacifico all’interno della prassi democratica. Ma c’è da ricordare, appunto, come la storia politica del Mali sia scandita da colpi di Stato, con l’esercito in cabina di regia, anche in funzione di “protezione” dello stesso regime democratico. Sarà così anche in questo caso? Ancora difficile a dirlo.
Ciò che è chiara è invece la reazione della comunità internazionale.

Risposta internazionale e gli equilibri geopolitici

In contrasto con l’evidente complessità della composizione del quadro interno, la risposta della comunità internazionale è stata repentina e unanime.
Le organizzazioni transnazionali come l’Unione Europea hanno subito condannato il colpo di Stato. I primi dissensi sono giunti dalle organizzazioni africane come l’Unione Africana e l’ECOWAS, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, di cui il Mali è membro. Infine il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è stato convocato per discutere della situazione dopo che il Segretario generale dell’ONU Guterres ha chiesto il rilascio degli arrestati e il ripristino dell’ordine costituzionale.

Da sottolineare in particolare la voce forte della Francia che, oltre ad avere fatto sentire la sua in quanto membro permanente del Consiglio di sicurezza, rimane la nazione estera che ha nel Paese africano più interessi e più truppe sul territorio, impegnate in diverse missioni contro le milizie jihadiste e per il rafforzamento delle forze repubblicane.

Ma se il mondo occidentale, nonostante i suoi antagonismi interni e il protagonismo francese, è compatto nella condanna del colpe, il resto della comunità internazionale appare quantomeno più ambigua.
Per esempio, la presenza della Turchia nel continente africano negli anni si sta facendo sempre più capillare e decisiva nelle zone più calde, militarmente e politicamente parlando. Basti ricordare il ruolo svolto recentemente da Ankara nella liberazione di Silvia Romano. I legami tra gruppi fondamentalisti e il Paese di Erdogan, inoltre, sono ad oggi controversi, mentre è certa la volontà del nuovo sultano turco di incarnare un ruolo di leadership per l’intero mondo islamico.
In più è da ricordare come Sadio Camara, il colonnello della Guardia Nazionale, colui che è considerato una delle principali menti del golpe, abbia avuto una formazione militare in Russia.

Un composizione del genere sembra replicare uno schema che sa di vecchio, come quello della Guerra Fredda . Ma anche uno scenario molto più recente, che è si è manifestato ad esempio durante la guerra siriana in cui la Turchia ha rotto i rapporti con l’Alleanza Atlantica scivolando nel campo della Russia in appoggio ad Assad. Un nuovo Oriente, con la superpotenza e super-variabile cinese, e un’Occidente privo, almeno in questa fase, della pressante leadership americana.
I pericoli di un simile quadro sono la proliferazione degli attori in campo, la rivendicazione degli interessi di alcuni che si scontrano con le ragioni degli altri. La frammentazione dello scontro tra eserciti regolari e mercenari, milizie e organizzazioni terroristiche; schieramenti liquidi e alleanze fragili. E, infine, l’introduzione di elementi estranei che vanno a complicare uno scenario già ridotto in crisi da conflitti etnici e religiosi, proteste sociali e politiche e rivendicazioni nazionali.

Una guerra mondiale a pezzi

Riprendendo la lucida analisi presentata più volte da Papa Francesco, la possibilità di stare assistendo ad un conflitto su larga scala, mondiale dunque, che si svolge in varie aree del pianeta – quelle che presentano già criticità endemiche – è molto concreta.

Se così fosse la comprensione delle crisi internazionali, e la loro risoluzione, col tempo risulterà sempre più difficile. In un contesto da guerra fredda, in cui gli sfidanti si scontrano su terreni distanti dai propri confini nazionali, senza dichiarazioni di esplicita ostilità, garantire la pace a livello comunitario appare ancora una grande utopia. 

Direttore responsabile: Claudio Palazzi

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here