Napoli: nell’immaginario di tutti è una città piena di leggende e trame sotterrane che costituiscono sia la storia morale di questa città, sia il carattere del popolino (così chiamava Benedetto Croce i napoletani). Le storie raccontate, giunte fino a noi, scorrono per le vie di Napoli da tempi remoti: quasi tutte le leggende pretendono che quelli di cui si parla fossero un tempo personaggi davvero esistiti o, piuttosto, eventi realmente accaduti. Chissà se in fondo a questi miti ci sia un briciolo di verità o se, invece, l’immaginazione degli esseri umani sia l’unico elemento in gioco: è però certo che i racconti arrivati al nostro orecchio hanno subito deformazioni da ogni bocca per la quale sono passati. Incastrate nella realtà del gioco del telefono senza fili, che dura da secoli, si costituiscono le leggende napoletane, di cui, noi contemporanei, possiamo essere certi solo della loro parzialità.

Egregi letterati e studiosi – in prima fila Benedetto Croce e Matilde Serao – hanno cercato di ricostruire i vari passaggi attraverso i quali è avvenuta la modificazione di un certo racconto, provando a risalire alla fonte da cui la leggenda traeva origine: le difficoltà che sopraggiungono rendono quasi impossibile la ricostruzione, ma, allo stesso tempo, la curiosità dovuta alla particolarità di queste storie rende le loro fatiche piacevolmente sopportabili, così come si percepisce dalla lettura dei loro scritti.

COLAPESCE

La leggenda di Niccolò Pesce è una delle più conosciute a Napoli e sicuramente la meraviglia che attraversa la trama del racconto ha contribuito a renderla così popolare.

Niccolò Pesce era un ragazzino napoletano che, secondo il mito, amava trascorrere molto tempo in mare e questo provocava la disperazione della madre, la quale, arrivata all’esasperazione, gli disse: “che tu possa diventar pesce!”. E così fu. Niccolò Pesce, o Colapesce, si trasformò in un essere marino. O quasi: poteva trascorrere ore e ore (anche giorni interi) sott’acqua senza riprendere fiato. Talvolta, per andare ad esplorare luoghi marini remoti, si faceva inghiottire da grossi pesci per viaggiare dentro il loro ventre e, giunto dove desiderava, squarciava la pancia degli animali con il coltello che portava sempre con sé.

Come si può ben immaginare, si era sparsa la voce di questo fanciullo che aveva capacità straordinarie e ne fu informato anche il re, che probabilmente – se diamo credito a possibili contaminazioni siciliane della leggenda – era Federico II di Svevia. Il sovrano, curioso di sapere cosa ci fosse sui fondali marini, chiese a Colapesce di descriverglielo. “Coralli, pietre preziose, tesori, scheletri umani, relitti e molte altre cose ci sono sui fondali” rispose Colapesce al re, non senza portargli alcuni dei tesori recuperati giù negli abissi. Il re, stupito da questo prodigio, fu curioso di conoscere fin dove arrivassero i limiti delle capacità del ragazzo e gli chiese di riportargli una palla di cannone che avrebbe fatto sparare lontano nel mare (secondo un’altra versione si trattava dell’anello del re, non c’entrava il cannone).

Colapesce, tuffatosi per riprendere l’oggetto, lo raggiunse ma, sul punto di ritornare a riva, si rese conto che sopra di lui si stendeva uno specchio d’acqua che, come fosse marmo sepolcrale – scrive Benedetto Croce – si estendeva sopra di lui. E giunto in fondo all’abisso, Colapesce si trovò in un posto senz’acqua, vuoto e silenzioso. A questo punto, la leggenda di questo ragazzo prodigio si arresta: Colapesce non fu più capace di tornare in superficie.

PARTENOPE

La leggenda di Partenope è sicuramente la più conosciuta anche dai non napoletani, ma in pochi sanno che, quella che è una delle celebrità omeriche, è anche il soggetto del mito di fondazione della stessa Napoli, la madre dei ‘partenopei’.

Chiunque pensi alle avventure di Ulisse, non potrà non pensare alle sirene e non potrà non essere felice che l’eroe abbia saputo vincerle: ma come sarebbe la storia dal punto di vista di queste magiche creature? La storia di Partenope è proprio quella di una delle sirene che, disgraziatamente, si imbatté nel percorso di Ulisse.

Nell’Iliade, si narra di tre sorelle, una, Partenope (“la vergine”), la seconda Ligea (“voce squillante” o “voce dell’Oltretomba”), la terza Leucosia (“dea albina”). Queste tre sirene, che vivevano nel bel mezzo del mare, avevano il potere di sedurre i marinai con il loro canto. La loro voce era così suadente che questi decidevano di tuffarsi per provare a raggiungere quel lontano richiamo, trovando, però, solo morte certa.

Ulisse, che sapeva del pericolo che di lì a poco avrebbe incontrato, escogitò lo stratagemma di farsi legare all’albero della nave in modo da non poter cadere nella trappola di seduzione. E, come tutti sappiamo, funzionò. Non è noto invece che le tre sorelle, si uccisero proprio a causa del rifiuto di Ulisse e lasciarono che il loro corpo inerte si disperdesse nel mare, fino ad arrestarsi a riva. Partenope approdò nell’isolotto su cui oggi sorge Castel dell’Ovo, il suo corpo si dissolse conferendo al terreno napoletano la morfologia che possiamo apprezzare oggi e che, si dice, ci ricorda il corpo di una sirena.

Nel pieno spirito delle leggende giunte fino a noi, la genealogia di questo mito di fondazione è oscura: se è vero che ne rintracciamo tracce nell’Odissea, sono anche altre le versioni di Partenope, altrettanto diffuse a Napoli.

Una delle più famose, diffusasi nell’800, è quella che racconta di una storia d’amore impossibile tra Partenope, una bellissima sirena, e Vesuvio, un centauro. Grazie allo zampino di Eros, i due si innamorarono follemente. Il loro amore, però, dovette imbattersi contro i capricci del più potente degli dèi, Zeus, il quale, innamorato di Partenope, decise di trasformare il centauro in un vulcano, il Vesuvio per l’appunto. La sirena, distrutta dal dolore si uccise, e da qui la leggenda si confonde con quella appena citata secondo cui le sue spoglie depositate dal mare strutturarono la morfologia del Golfo di Napoli.

Un’altra versione ancora, riportata da Benedetto Croce in Napoli nobilissima, narra che tra i marinai ci fosse il divieto di uscire in mare il primo di aprile poiché la sirena Partenope, per gioco o per scherzo, in quel giorno si divertiva a trasformare i marinai in pesci. Da qui, la tradizione del “pesce d’aprile”.

IL MUNACIELLO

«Chiedete ad un vecchio, ad una fanciulla, ad una madre, ad un uomo, ad un bambino se veramente questo munaciello esiste e scorazza per le case, e vi faranno un brutto volto, come lo farebbero a chi offende la fede. Se volete sentirne delle storie, ne sentirete; se volete averne dei documenti autentici, ne avrete. Di tutto è capace il munaciello…»

(Matilde Serao, Leggende napoletane)

Quella del munaciello è probabilmente la leggenda napoletana più importante di tutte perché, tra i vicoli di Napoli, questa figura bizzarra è pensata come realmente esistente: parliamo di una leggenda che vive come credenza.

L’origine più accreditata di questa credenza, appunto, citata dalla studiosa delle leggende napoletane, Matilde Serao (scrittrice e giornalista prolifica, fondatrice de Il Mattino e de Il Corriere di Roma), racconta la storia di due amanti vissuti nel 1445, Caterinella Frezza e Stefano Mariconda, che, a causa della diversa estrazione sociale (lei nobile, lui un umile garzone) videro ostacolato il loro amore. Come in tutte le leggende e storie mitiche, però, la forte passione non vede ostacoli ma solo soluzioni: Stefano, passando per i tetti dell’antica Napoli, giungeva da Caterinella, e i due vivevano questi incontri clandestini ogni notte, fino a quando, cadendo, il giovane morì.

Caterinella, disperata, si fece monaca. La donna entrò in convento incinta del figlio del suo amante ormai morto e pregò la Madonna affinché il nascituro potesse essere in salute, ma così non fu: il bambino era deforme – la testa sproporzionata rispetto al corpo troppo piccolo – e, con il passare del tempo, le condizioni peggiorarono. La sventurata madre vestiva il figlioletto da monaco sperando in un miglioramento che non arrivò, mentre non tardarono ad arrivare invece derisioni e nomignoli per questo strano essere, che venne soprannominato “il munaciello” (piccolo monaco) e che provocava spavento e ribrezzo tra i napoletani.

Alla morte della madre le prese in giro peggiorarono, le aggressioni, anche fisiche, erano all’ordine del giorno, quindi d’un tratto il munaciello misteriosamente scomparve, forse portato via dal diavolo, forse ucciso dalla famiglia Frezza. Dopo la misteriosa scomparsa, il popolo napoletano continuò a vedere la strana figura aggirarsi per Napoli e, ben presto, fu accettato da tutti il fatto che quel munaciello era diventato uno spirito dispettoso.

Un’altra origine di questa credenza narra che un “pozzaro”, ossia un gestore di pozzi d’acqua, era solito, grazie alla sua piccola statura, intrufolarsi nelle case dei committenti che non pagavano passando attraverso cunicoli sotterranei: rubava loro gioielli e altri oggetti preziosi e li donava alle donne di cui si invaghiva (anche in questo caso passando per i canali). Questa genealogia rende conto del fatto che, come è solito pensare tra i napoletani, le apparizioni di questa figura possano portare sia fortune che sfortune.

Oggi la tradizione vuole che il munaciello appaia nelle case dei napoletani mostrando simpatia, facendo trovare monete o facendo scherzi innocui che possano essere interpretati in numeri da giocare al lotto. Ma il munaciello può manifestare anche la sua antipatia, soffiando nelle orecchie delle persone che dormono o rompendo piatti e stoviglie. In casi estremi, in cui una persona si trova in situazione di estrema difficoltà, il munaciello si fa vedere e, per gli impavidi che decidono di seguirlo, si dice che li conduca in una grotta piena di tesori. Da qui l’usanza di dire, nei casi in cui qualcuno si arricchisce di punto in bianco: “forse avrà il munaciello in casa!

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