La guerra russo-ucraina, figlia delle guerre che nel secolo scorso hanno coinvolto  tragicamente l’Europa ed il mondo, non si combatte solo sul fronte militare. L’informazione di cui avidamente il mondo intero si nutre in queste ore si muove, non senza difficoltà, tra i fuochi incrociati delle propagande avverse di Mosca e Kiev, non riuscendo sempre facilmente a distinguere la realtà dalle fake news. La Russia poi, sul fronte interno, ha subito messo in moto un’abile narrazione volta a condurre l’opinione pubblica a favore dell’ “operazione militare speciale” in Ucraina.

Di propaganda si è cominciato a parlare nel XX secolo, in concomitanza con le guerre mondiali e la salita al potere di regimi totalitari in alcuni Paesi, costituendo questa un’arma imprescindibile per il perseguimento di obiettivi politico-militari e per l’ottenimento del consenso delle popolazioni coinvolte, spesso ottenuto con metodi non democratici e reprimendo le voci in dissenso. Onde evitare di confinare la propaganda unicamente all’interno della sua accezione negativa, o nell’arco temporale del Novecento, però, proviamo a scandagliare il fenomeno con un’analisi a più ampio raggio.

Cosa vuol dire e da dove viene la parola “propaganda”?

Il termine “propaganda” trae la sua origine dalla Sacra Congregazione di Propaganda Fide, voluta ed istituita dal pontefice Gregorio XV nel 1622 allo scopo di diffondere la religione cattolica nel mondo. Questa ha competenza in tutto ciò che riguarda l’attività missionaria, essendo l’ente coordinatore dell’opera di evangelizzazione dei popoli.

Per quanto riguarda l’etimologia della parola in senso stretto, “propaganda” deriva dal gerundio femminile del verbo propagarema dobbiamo la forma italiana corrente al francese propagande. Tra i vari significati del latino propagare, troviamo “diffondere”, “trasmettere”, “tramandare”: tutte azioni, queste, che per essere svolte necessitano la presenza di un individuo attivo che agisce e uno passivo che riceve, un emittente e un ricevente. Un politico e il suo uditorio, per esempio.

La propaganda è un fenomeno antico

Secondo la definizione data da Treccani, per propaganda si intende un’ “azione che tende a influire sull’opinione pubblica e i mezzi con cui viene svolta. È un tentativo deliberato e sistematico di plasmare percezioni, manipolare cognizioni e dirigere il comportamento al fine di ottenere una risposta che favorisca gli intenti di chi lo mette in atto“. Leggendo questa definizione con un’ottica moderna, sicuramente la riferiamo a tutti i tentativi del potere di manipolare l’opinione pubblica attraverso tutti i mezzi a sua disposizione, tra cui stampa e media di ultima generazione. Non si avranno difficoltà nel ritenere che l’esistenza di un’opinione pubblica, e la ricerca del consenso da parte di chi è al governo, esistono però dall’origine delle società e dei sistemi di potere, quindi sin dalle prime civiltà.

Allo scopo di mantenere un equilibrio sociale, infatti, già in epoca pre-romana si attestano forme di propaganda politica: si pensi alle enormi piramidi fatte erigere da faraoni egizi per rafforzare la loro immagine di grandezza gli occhi del popolo, o quando, nella democratica Grecia antica, i sofisti insegnavano le arti della retorica e della dialettica che, se ben padroneggiate da un abile oratore, erano in grado di persuadere l’uditorio sulla veridicità delle proprie affermazioni anche se, in realtà, false.

Nella Roma antica, invece, si pensi alle festose parate militari che accompagnavano l’Imperatore Giulio Cesare al ritorno dalle vittoriose battaglie intraprese, con l’evidente scopo di alimentare un sentimento di orgoglio patriottico e consenso nei confronti delle conquiste militari romane. La pomposità di queste cerimonie sicuramente fa tornare in mente al lettore il recente discorso di Vladimir Putin allo stadio Luzhniki di Mosca gremito di persone, in occasione dell’ottavo anniversario dell’annessione russa della Crimea. Sulla veridicità dello “spettacolo” non mancano dubbi, ma ciò che il Presidente russo voleva fare cos’era se non mostrare al mondo intero che la sua gente è dalla sua parte?

Propaganda in tempi di guerra 

Se gli obiettivi perseguiti dalla propaganda sono rimasti, nel tempo, sempre gli stessi, ad evolversi sono stati i mezzi impiegati per una sua efficace realizzazione. I più moderni mezzi di comunicazione per l’epoca furono utilizzati allo scoppio della Prima guerra mondiale, conflitto che vide l’arruolamento di giovanissimi soldati letteralmente “alle prime armi”, quando un grande ruolo di persuasione e di mantenimento dell’equilibrio sociale fu giocato, sia sul fronte esterno che su quello propriamente militare, da giornali di propaganda, cartoline e manifesti. Rimanendo sulla situazione italiana, durante il periodo del primo conflitto bellico e, soprattutto, dopo la tragica disfatta di Caporetto, il governo italiano sentiva forte l’esigenza di mantenere vivo il consenso dei civili nei confronti della guerra e di neutralizzare, allo stesso tempo, ogni spiraglio di narrazione pacifista.

Il meccanismo della propaganda, così, veniva messo in moto in due modi: per raggiungere anche i moltissimi analfabeti tra la popolazione, veniva impiegata sovente la spedizione di cartoline postali o la realizzazione di manifesti da affiggere nelle piazze con immagini ispiranti sentimenti patriottici e di comunità; per i soldati al fronte, invece, oltre a cartoline rappresentanti scene di vita quotidiana e di donne che lavoravano in sostituzione dei propri eroi, venivano fatti stampare e circolare giornali di propaganda specificamente rivolti a loro. Inizialmente, i giornali di trincea venivano redatti e fatti circolare proprio dagli stessi soldati, a volte stampati o semplicemente lasciati in forma manoscritta. Dopo la disfatta di Caporetto, il governo cominciò ad interessarsi a questi fogli e ne prese le redini, costituendo un apposito Ufficio di Propaganda presso il Comando Supremo, con il compito di stilare e diffondere le linee guida per un’azione di propaganda diretta al soldato. Si pensava, infatti, che i giornali circolanti tra le trincee potessero essere un ottimo strumento al fine di risollevare gli animi delle truppe dopo la cocente sconfitta. È facile, a questo punto, immaginarne i contenuti intrisi di retorica patriottica.

Al contempo, la tutela della narrazione unica e dell’equilibrio all’interno del Paese, che doveva restare compatto nel supporto ai soldati al fronte, avveniva per mezzo di censura e repressione del dissenso. Non a caso furono varate, in questo periodo, una serie di leggi che prevedevano punizioni severe per chi manifestava apertamente la propria contrarietà al conflitto. La storia sembra ripetersi, se guardiamo per un istante all’attualità: in Russia, dall’inizio dell’invasione in Ucraina, comuni cittadini che manifestavano il proprio dissenso all’aggressione militare sono stati arrestati e portati via dalle forze dell’ordine, mentre è stato chiuso o limitato l’accesso a social network e siti di informazione colpevoli di alimentare una narrazione fuorviante agli occhi di Mosca. Insomma, corsi e ricorsi storici.

Propaganda nei regimi totalitari 

La parola propaganda, nel tempo, è stata maggiormente utilizzata nella sua accezione negativa, che tende ad indicarla come fenomeno di manipolazione del vero volto al raggiungimento di un consenso più ampio possibile. Gran parte del significato attribuitole è dato, sicuramente, dalla fondamentale importanza che la propaganda ha rivestito nell’affermazione dei regimi totalitari novecenteschi.

Antonio Gramsci fu il primo a teorizzare il concetto di “egemonia culturale” per spiegare come, affinché una nuova forma di governo si affermi, sia indispensabile agire non solo politicamente e militarmente, ma anche culturalmente. Il consenso della popolazione, fondamentale per il mantenimento dell’equilibrio sociale, è debole se ottenuto con la forza. Da parte della popolazione è necessario, secondo Gramsci, l’interiorizzazione della cultura portatrice dei valori della classe dominante per ottenere un consenso stabile e duraturo nel tempo. Ho scomodato Gramsci perché, studiando la storia, ognuno di noi ha potuto constatare come parte delle azioni di governo messe in atto dai regimi totalitari nel Novecento fosse rivolta proprio alla cultura attraverso un’abile propaganda diramata attraverso ogni mezzo disponibile.

Il regime fascista, per restare in Italia, fu abilissimo nell’utilizzare i nuovi mezzi di comunicazione di massa per plagiare le menti della popolazione, utilizzando radio e stampa come veicolo dei discorsi del Duce e dell’ideologia fascista in generale, monopolizzando anche i momenti di svago degli italiani. A questo si affiancava una fortissima operazione di censura, dal 1937 ad opera del Ministero per la Cultura Popolare (MINCULPOP) che vegliava sulle pubblicazioni di quotidiani e case editrici, la maggior parte delle quali si era allineata all’ideologia fascista. A capo dei principali giornali, Mussolini ordinò che venissero posti direttori iscritti al Partito e dallo spazio delle notizie fu bandita la cronaca nera. La stampa, come anche i programmi radio e i cinegiornali trasmessi dall’Istituto LUCE dal 1925, doveva alimentare continuamente il mito del Duce e l’orgoglio patriottico anche per giustificare, agli occhi della popolazione, operazioni belliche e di conquista come la guerra in Etiopia del 1935.

Non diversi sono i regimi instauratisi in diverse parti del mondo nel corso della storia, dal culto della personalità di Stalin alimentato dalla stampa sovietica durante il regime, alla Russia di oggi in cui la repressione del dissenso e l’uso della propaganda fanno da padroni. Non solo in periodi come questo quando la guerra, come abbiamo visto, scompagina le carte in tavola e spinge i governi a ricercare il maggior consenso possibile nonostante le ingenti perdite di vite umane. Già precedentemente, come dimostra la condizione del più noto dissidente di Putin attualmente in carcere, Aleksej Navalny, un aperto dissenso all’autorità del Cremlino non era concessa. Così come, in Russia come in Cina e in Turchia per citare i più noti, la libertà di stampa non è tutelata con gravi conseguenze per la democrazia che in essa trova la sua migliore espressione.

Proprio per questo, studiare la storia si dimostra un antidoto efficace alla sudditanza passiva di fronte anche alla più piccola delle privazioni di libertà. Accorgercene, indignarci quando un diritto fondamentale viene calpestato, significa essere cittadini attivi e consapevoli delle proprie libertà individuali e collettive. E se la storia, in alcuni casi, sembra non averci insegnato niente, almeno noi che possiamo scegliere quale giornale comprare in base ai nostri gusti e quale voce ascoltare alla tv, possiamo cominciare a renderci conto della fortuna di vivere in una democrazia e dell’importanza di tutelarla.

La propaganda politica nelle democrazie moderne 

Come esplicitato inizialmente, la propaganda non ha solamente l’accezione negativa con cui siamo portati ad identificarla, mettendola in stretto rapporto con regimi più o meno identificati come tali. Anche le repubbliche, come la nostra, in cui vige un sistema democratico e un pluralismo nell’espressione delle idee, la propaganda politica è prassi conclamata soprattutto alla vigilia di appuntamenti importanti come le elezioni.

In Italia, è consuetudine riferirsi all’attività politica come a una situazione di “campagna elettorale permanente” perché, anche quando non si è in prossimità di elezioni, i vari partiti che coprono lo spettro politico della nazione tentano di tirare “acqua al proprio mulino” utilizzando tutte le strategie possibili. Ogni partito politico, essendo portatore dei valori di una specifica ideologia, plasma la realtà a seconda di questa e offre soluzioni specifiche a problematiche dirimenti. Promesse, slogan elettorali, comparsate televisive e post sui social, tutto fa brodo per portare una fetta sempre più ampia di opinione pubblica dalla propria parte.

Alla vigilia dei momenti elettorali, che segnano il ritmo della vita di una repubblica, caratteristici sono i comizi risalenti, tornando ancora una volta indietro nel tempo, alla vita repubblicana dell’antica Roma. Il comizio, come spiega Gianpietro Mazzoleni nel libro “La comunicazione politica“, è una “riunione di popolo attorno a un oratore che espone le sue posizioni e cerca di convincere l’uditorio”. Dalla Roma repubblicana deriva anche il termine “candidato”, distinto dagli altri nelle piazze da una toga bianca indossata come segno di riconoscimento. Nei comizi, fanno da padrone ancora una volta l’arte della retorica e la capacità di attrarre l’opinione pubblica dalla propria parte convincendola sulla veridicità delle risposte dell’oratore a problematiche attuali e sulla giustezza della sua visione del mondo.

Se da metà dell’Ottocento si era passati da una propaganda in forma esclusivamente orale a una scritta, mediante manifesti e carta stampata da supporto ai classici comizi, dalla metà del secolo scorso si è passati ad una campagna elettorale svolta sfruttando i più moderni mass media. Elemento essenziale di una buona propaganda politica diventa l’immagine del leader del partito che, dice ancora Mazzoleni, scalza abilmente il ruolo del partito attirando tutta l’attenzione su di sé. La televisione in primis, e oggi anche i social network, contribuiscono infatti all’ascesa di una dimensione sempre più personalistica delle campagne elettorali, sfruttando la potenza dell’immagine televisiva e l’assurgere dei social network a grande palcoscenico su cui mettere in scena le proprie proposte politiche con immagini spettacolari, ma anche mostrare lati più personali del proprio carattere. Il ritorno del “culto della personalità” novecentesco all’interno delle democrazie, potremmo quasi dire, anche se tutto nel rispetto di un pluralismo di fondo e di competizioni elettorali oneste.

Mazzoleni, nel libro sopracitato, riporta poi l’equazione “partito = saponetta” che molti critici hanno applicato per indicare la svalutazione dell’impegno politico a favore di tecniche molto più vicine al marketing con cui il candidato usa oggi presentarsi all’elettorato. Infatti, al di là del contenuto politico, il linguaggio utilizzato per presentare i propri programmi è molto simile al “linguaggio della cultura mediale, linguaggio che il pubblico degli elettori è in grado di decodificare più agevolmente”. Per intenderci, personaggi politici presentati all’opinione pubblica come veri e propri prodotti commerciali, che si circondano non a caso di esperti nel marketing pubblicitario. Dettami fondamentali di questa strategia sono una forte presenza scenica e un linguaggio che le persone possano comprendere facilmente, distante dal cosiddetto “politichese” dei grandi partiti di massa novecenteschi.

Esempio tra i più noti, anche perché il primo a comprendere e sfruttare il medium televisivo, è Silvio Berlusconi: la famosissima frase “l’Italia è il Paese che amo” pronunciata il 26 gennaio 1994 a reti unificate ha cambiato per sempre il modo di fare campagna elettorale in Italia. Imprenditore e proprietario di diverse emittenti private, Berlusconi conosceva approfonditamente i meccanismi della pubblicità e fu abile a cogliere le enormi potenzialità delle strategie di marketing applicate alla presentazione della propria proposta politica. Ancora oggi, la forte impronta personalistica data alla politica caratterizza le campagne elettorali che, nel frattempo, si sono spostate sempre più dalle piazze reali a quelle dei talk show televisive e delle dirette social. Ma alla fine, è sempre “tutta propaganda”.

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