La questione meridionale

Era il 1860 quando, con l’impresa garibaldina, il Regno delle due Sicilie veniva annesso a quello Stato italiano che l’anno successivo divenne formalmente Regno d’Italia sotto la guida del re d’Italia Vittorio Emanuele II di Savoia.

L’iniziale fiducia in un Regno unito e prospero però era stata in parte disattesa già dai primi contatti dell’esercito piemontese – garibaldino con la realtà del Mezzogiorno: quella terra ricca che si pensava fosse il sud della Penisola, il cui mancato sviluppo era addebitabile solo al malgoverno borbonico, presentava delle diversità strutturali rispetto al nord non solo sul piano economico ma anche, e soprattutto, su quello sociale. La prima volta che si sentì parlare di una <> fu negli anni settanta dell’Ottocento, quando Pasquale Villari nelle sue “Lettere meridionali”, pose il problema di una questione che doveva avere rilevanza nazionale, riponendo nello Stato post-unitario la fiducia di una sua risoluzione.

Accanto al Villari si inserirono in quest’opera di denuncia altri intellettuali meridionali come Giustino Fortunato e fino ad arrivare ad intellettuali fiorentini, con i quali la questione assunse un interesse extra regionale, e di fatto entrò nella discussione nazionale. Gli aspetti che gettavano le basi alla questione riguardavano in particolar modo le condizioni di arretratezza, di oppressione e di miseria delle masse rurali del sud, nonché una generalizzata corruzione nella vita politica e amministrativa asservite agli interessi delle classi dominanti.

Tanti erano i problemi che venivano posti ma pochi i modi per risolverli, e il dibattito che si accese nel corso dell’Ottocento andò toccando più punti, alcuni in contrasto, alcuni controversi (come chi parlava di inferiorità razziale), alcuni dei quali ancora oggi si continua a discutere.

Il pensiero di stampo meridionalista si basava sul comun denominatore di un’Italia divisa in due, differenziata per condizioni geografiche, sociali, economiche e tecniche, che di fatto rendevano il sud una terra aspra e spinosa, in cui il termine progresso era un concetto ancora sconosciuto. Per G. Fortunato il rimedio ai mali del Mezzogiorno si doveva trovare nello Stato unitario, così da evitare soluzioni decentrate che avrebbero portato solo ad altre consorterie locali, già colpevoli di una gestione dannosa e opprimente. Per Napoleone Colajanni e Ettore Ciccotti, invece, la soluzione doveva ricercarsi in un mutamento radicale nella dinamica sociale, attuato attraverso una larga azione riformista fatta a partire dall’educazione delle coscienze, per attuare il progressivo passaggio ad un mondo moderno basato sul socialismo.

Se per il Colajanni la via economica da seguire era quella del protezionismo teso a favorire l’industrializzazione al sud, per il Ciccotti la strada era quella del liberismo, in quanto il protezionismo non aveva fatto altro che incentivare i grandi gruppi capitalistici a realizzare <> a servizio <>. Su questa posizione il Ciccotti condivideva le idee dei liberali come Einaudi e De Viti De Marco, che nel liberismo vedevano un’opportunità di correggere le deviazioni del capitalismo italiano, in cui le industrie del nord raccoglievano manodopera a basso costo dal sud determinando l’inizio di quella depressione demografica mai arrestata.

Chi invece era favorevole all’emigrazione era Francesco Saverio Nitti, che considerava il fenomeno come un’opportunità di decongestione in grado di apportare miglioramenti nel mercato del lavoro nella campagna e ad un più rapido processo di educazione intellettuale delle masse. Nitti condivideva con Fortunato l’azione dello Stato come strumento risolutore dei problemi del Mezzogiorno attraverso interventi determinati su un piano economico e finanziario.

Per Salvemini la soluzione invece doveva ricercarsi, invece, in una cooperazione degli operai del nord con i contadini del sud, che avrebbero dovuto unirsi per l’introduzione del suffragio universale e superare il blocco protezionista tra gli industriali del nord e i latifondisti del sud che danneggiava l’intera economia nazionale.

Dopo l’unità era concezione diffusa tra i governanti del nord, che fino ad allora non si erano mai spinti oltre Napoli, di un sud ricco di risorse, le cui potenzialità erano rimaste finora inespresse a causa del malgoverno borbonico. Un pregiudizio che portò all’introduzione di una pressione tributaria eccessiva su una popolazione fin troppo misera. Il processo di piemontesizzazione fu così rapido e travolgente che non tenne conto delle realtà locali del sud: l’italiano era una lingua parlata solamente dalle poche persone istruite, il voto avveniva per censo e quindi rimaneva in mano delle classi dominanti che di fatto decidevano sull’intera popolazione, venne istituita la leva obbligatoria e imposte nuove tasse – come quella sul macinato -, nonché i prezzi di molti prodotti vennero aumentati. Gravosa fu anche l’opera di sdemanializzazione dei terreni dello Stato e della Chiesa, fatta con l’intento di abolire i privilegi feudali, che portò ad un arricchimento per chi poteva acquistarli, indebolendo ulteriormente quei coltivatori impossibilitati ad utilizzare anche quei campi una volta comuni.

In questo contesto larga parte del popolo, inascoltato e sofferente, deluso anche dalle promesse di riforme mai attualizzate pienamente nel concreto, cominciò a provare un senso di forte rancore verso il nuovo governo e la vecchia borghesia – che intanto continuava ad arricchirsi ai suoi danni – e arrivò a sfociare il suo malcontento in rivolte nelle campagne che necessitarono l’intervento dell’esercito piemontese per essere fermate.
Il risultato furono violenti scontri cui a farne le spese fu soprattutto la popolazione civile, vittima di saccheggi dei ribelli prima, e di violenze, devastazioni e soprusi da parte dell’esercito regio, dopo. E’ in questo periodo che si intensificò il fenomeno del brigantaggio, che inglobò oltre a banditi comuni, anche braccianti, ex soldati dell’esercito borbonico e garibaldino.

Fu solo con Giolitti che si arrivò ad un primo interessamento alle questioni meridionali. In parte basandosi sul pensiero di Nitti, il quale accettava un protezionismo dell’industria nazionale solo se lo Stato varasse una politica correttiva per il sud attuando riforme in senso tecnico-industriale, il governo Giolitti varò una legislazione speciale appositamente per il meridione a partire dal 20° secolo. Vennero promulgate leggi speciali per il risanamento di Napoli, per la Basilicata, la Calabria e il mezzogiorno continentale, la Sicilia e la Sardegna. Fra gli interventi vi fu la costruzione dell’impianto siderurgico di Bagnoli a Napoli, l’acquedotto pugliese, la direttissima Roma-Napoli, dotò il sud di amministrazioni pubbliche analoghe a quelle del nord, e portò nel 1911 l’istruzione elementare in carico allo Stato, fino ad allora rimasta in mano ai comuni (che avevano la problematica dei costi ingestibili da affrontare). Una delle leggi speciali meglio accolte in questo periodo era quella che stabiliva uno sgravio del 30% sull’imposta fondiaria.

Le misure furono in parte efficaci, determinando evidenti progressi un po’ in tutte le regioni del sud, ma non vennero accolte positivamente da gran parte dei meridionalisti. Venivano criticate per la loro mancanza di organicità, che ne metteva in discussione la reale efficacia: quanti di quei progressi che avvennero nel corso del primo novecento al sud fossero imputabili al loro effetto, e quanti, invece, erano il frutto di un più generale progresso dell’economia e della società italiana in quel periodo. Molti preavvisavano che l’effetto di questi interventi sarebbe stato solo parziale e non avrebbe risolto la questione meridionale. E infatti, nonostante i vari progressi, non diminuì il divario nord – sud, che addirittura aumentò, né si arrestò il flusso emigratorio che andò accelerando nella sua crescita.

Questo spiega perché all’indomani della guerra, nel pieno fermento della lotta politica e sociale, la discussione sul Mezzogiorno riprese con nuovo slancio, anche grazie agli effetti che sarebbero derivati dall’introduzione del suffragio universale nel 1913. Con Antonio Gramsci, la questione del Mezzogiorno divenne cardine dello sviluppo della vita politica italiana: la formula strategica del movimento rivoluzionario italiano doveva essere l’alleanza fra i contadini del Sud e gli operai del Nord, come già aveva sostenuto Salvemini tempo prima, con la differenza che questa alleanza dovesse servire alla costituzione di un nuovo sistema. L’obiettivo cui mirava Gramsci non era un obiettivo economico, bensì di potere: il proletariato organizzato in gruppi di contadini poveri, avrebbe dovuto abbattere le classi dominanti della borghesia agraria e latifondista, insieme al blocco di intellettuali loro “armatura”.

La strategia gramsciana era studiata anche come opposizione al fascismo, che si presentò come il candidato ideale per portare a termine quel processo di creazione di stato organicamente nazionale in cui il Risorgimento aveva fallito. Con la pretesa di fare dell’Italia una grande potenza, per il sud si aprirono degli scenari favorevoli, in quanto con il colonialismo si sarebbe potuto risolvere nel meridione il problema della terra e dell’emigrazione di massa. Il regime mise in campo anche una serie di misure – come ad esempio le opere di bonifica, realizzazione di opere pubbliche o il trasferimento di alcune industrie nel Mezzogiorno per ragioni strategiche – volte a consolidare il consenso nelle regioni interessate, senza però riuscire a soddisfare le esigenze locali, se non quelle della piccola borghesia e dei latifondisti.

Con la crisi del 29, e successivamente la devastazione della seconda guerra mondiale, il Mezzogiorno si presentava in condizioni tragiche. Con l’esclusione della desta liberista, favorevole all’attesa di una crescita naturale dell’economia mondiale, le altre forze politiche ripresero le azioni di denuncia, ritenendo urgente un intervento straordinario dello Stato nel Mezzogiorno. La riforma agraria fu considerata la giusta mossa per un obiettivo di ripresa, condivisa dal PCI che riproponeva l’idea di Gramsci, e dal mondo cattolico.

Al contrario, Malio Rossi Doria e l’orbita socialista, vedevano con pessimismo una prospettiva del mezzogiorno in questo settore: la riforma agraria così definita non poteva considerarsi una giusta politica ammodernatrice. Accanto ad essa erano urgenti il problema dello sfollamento delle campagne – e quindi dell’emigrazione -, e quello dell’aumento della produttività in ogni settore. Per il Rossi Doria bisognava addivenire ad una società democratica, basata sull’economia di mercato e caratterizzata da un forte intervento pubblico. Un modello da seguire doveva essere il quell’intervento americano di modernizzazione nelle aree arretrare, puntando dapprima su uno sviluppo agricolo così da creare in tempi brevi un’agricoltura competitiva, e solo in un secondo momento puntare su uno sviluppo industriale.

Oltre alla riforma agraria, che portò all’esproprio e alla quotazione di 440 000 ettari nel sud e nelle isole, vennero attuti tutti una serie di interventi per promuovere e amministrare l’intervento pubblico nel meridione. Interventi che riguardavano la viabilità, acquedotti, credito agrario fondiario e industriale, infrastrutture, servizi pubblici e altro ancora, che portarono nel ventennio successivo a miglioramenti cospicui. Anche il reddito pro capite aumentò di molto. Vennero create nuove industrie come l’Alfa-sud a Pomigliano d’Arco o il centro siderurgico a Taranto; si diede avvio, grazie alla scoperta di metano e petrolio, soprattutto nel sud-est della Sicilia, ad attività interessate in questi settori. Le agevolazioni creditizie e tributarie garantirono, inoltre, l’attrazione di investimenti italiani e stranieri nel mezzogiorno e il mercato locale del lavoro migliorò, anche grazie al continuo flusso migratorio che anche in questo periodo non si arrestò. Importanti furono anche le disposizioni secondo le quali una consistente parte degli investimenti delle aziende a partecipazione pubblica doveva essere destinata nel Mezzogiorno. Questa politica di intervento straordinario si concluse senza annullare il divario con il nord, sancendo anche una profonda crisi una volta che la questione meridionale fu tolta dall’agenda politica del Paese.

Con la crisi petrolifera all’inizio degli anni settanta che mise in crisi l’intera economia mondiale, il carattere speciale dell’intervento per il sud rivelò i suoi punti deboli: finite le sovvenzioni dello Stato molti esperimenti di investimento fallirono, giacché molte aziende aderivano a questi progetti solo per accedere ai vantaggi che offrivano; la malavita organizzata accrebbe il suo potere investendo i suoi guadagni illeciti in attività legali, approfittando anche della pioggia di soldi che venivano erogati dal nord; a ciò va aggiunto anche la malversazione delle classi dirigenti regionali a gestire correttamente l’uso dei fondi pubblici, portando inevitabilmente ad un uso clientelare di questi fondi. L’eccessiva pratica assistenzialistica alterò quindi le leggi di mercato danneggiando il giusto sviluppo delle zone più depresse del Paese. Certo è che questo intervento straordinario resta l’unico della storia d’Italia ad aver portato un incredibile sviluppo, rendendo il Mezzogiorno più progredito e vicino alla civiltà moderna continentale, straordinariamente diverso rispetto a com’era anni prima.

Negli anni seguenti il problema non fu più affrontato in maniera diretta, a partire dagli anni ottanta ci si concentrò sulla lotta al fenomeno mafioso varando leggi contro la corruzione e la criminalità.

Oggi, essenzialmente, l’attenzione è concentrata sul risanamento del debito pubblico e razionalizzazione della spesa. L’UE si fa garante di questo processo inviando fondi e promuovendo progetti imprenditoriali a carattere sociale, ecologico e culturali, anche se i vantaggi derivati non possono considerarsi rilevanti. Seppur i miglioramenti nel corso del secondo novecento ci sono stati, rimangono ancora grosse problematiche che non sono mai state affrontate e che determinano il divario con le regioni del nord Italia, e dell’Europa in generale: carenza di infrastrutture, una PA inefficiente, un sistema bancario ridotto e poco attento alle esigenze del territorio, la continua emigrazione di massa specialmente di tanti giovani, e l’infiltrazione della malavita in molte attività, che scoraggia la crescita e una fiducia per un futuro diverso.

In ultima analisi il Mezzogiorno sembra non riuscire a superare il suo endemico problema: riuscire a mantenersi da sé, dovendo continuare a far riferimento agli aiuti dal centro, senza riuscire a camminare sulle proprie gambe. Sta di fatto che se la questione continua ad essere ignorata l’economia dell’intera nazione continuerà a rallentare.

Direttore responsabile: Claudio Palazzi

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