Esattamente cinquantacinque anni fa, il 22 marzo 1968, il Presidente della Cecoslovacchia, Antonin Novotny, si dimise dalla presidenza e fu sostituito da Ludvik Svoboda, ex generale dell’esercito che aveva combattuto al fianco dell’Armata Rossa nella Seconda Guerra Mondiale. Diverse tendenze interne al partito comunista cecoslovacco riuscirono ad allontanare dal potere Antonin Novotny, il quale per quattordici anni diresse la nazione attraverso un regime totalitario e repressivo. In verità, l’aria era già cambiata il cinque gennaio dello stesso anno, con l’avvento di Alexander Dubcek alla carica di segretario del Partito Comunista Cecoslovacco, in sostituzione dello stesso Novotny, che unitamente alla presidenza della repubblica ricopriva anche quel ruolo. Questo, fra gli altri, fu uno dei principali atti politici che segnarono la cosiddetta “Primavera di Praga”: un processo riformista che tentò di stabilire una forma democratica e pluralista di socialismo.

Indubbiamente, un cambiamento così radicale nella politica del paese fu inizialmente avallato, seppur titubante, dallo stesso Breznev, segretario del Partito Comunista Sovietico e presidente dell’U.R.S.S., poiché si rese conto che Novotny non era più difendibile, a causa dei crimini commessi dal suo regime staliniano, che gli comportò una diffusa impopolarità nel paese e, soprattutto, all’interno del suo stesso partito. Il nuovo governo, con alla guida Dubcek, varò un programma riformista che si basava sulla libertà di pensiero e di stampa, sul decentramento politico ed economico, sul nuovo ruolo dei sindacati, non più asserviti al regime, rispondendo alle esigenze di democratizzazione dei cecoslovacchi. Secondo Dubcek la grave crisi economica, come quella attraversata dal paese, non era più risolvibile con i vecchi metodi di gestione centralizzata e burocratica e di fronte alle nuove generazioni, attratte dalla libertà culturale e politica, il partito doveva farsi promotore e allo stesso tempo guidare una nuova partecipazione popolare alla vita pubblica, al fine di evitare che le basi del regime siano travolte dalle nuove tendenze invocate dal popolo. Queste ragioni furono spiegate a Breznev, il quale, seppur non convinto, a malincuore accettò diede il benestare per evitare il peggio.

Nel nuovo corso, fu dato ampio respiro ai giornali, alla radio e alla televisione: la stampa assunse una funzione importantissima in Cecoslovacchia, esercitando pienamente il diritto alla critica e all’informazione. Anche il partito, fino allora dominato dal vertice, si aprì alla discussione democratica avviando un processo di critica e di rinnovamento, probabilmente più esteso di quanto non fosse stato inizialmente previsto. Infine, anche il popolo partecipò con passione alla vita pubblica, evidenziando sempre più le sue esigenze e rinfrancando il sentimento nazionale. Il nuovo rapporto di fiducia tra gli uomini al potere e il popolo emerse alla sfilata del primo maggio 1968 a Praga, che si svolse con la convinta e spontanea partecipazione popolare alla Festa del Lavoro, alla presenza di Svoboda, Dubcek e alcuni altri esponenti del nuovo governo.

Mosca, però, diede segni di inquietudine, poiché il processo di democratizzazione cecoslovacca, con l’abolizione della censura, la rivitalizzazione dei sindacati e l’ammissione, persino, del pluralismo delle idee, evidenziava le derive totalitarie degli altri regimi comunisti allineati all’Unione Sovietica. Tali preoccupazioni non furono mitigate dalle assicurazioni giunte da Praga che la costruzione del “socialismo dal volto umano” non minava le relazioni con l’URSS, che restavano alla base della politica estera cecoslovacca, e che non vi erano né le condizioni né la volontà di avviare una “controrivoluzione”. Ma cecoslovacco si scontrò con una prima prova di forza dell’URSS.

Per tutta risposta, il trenta maggio del 1968, entrarono in territorio cecoslovacco le prime truppe sovietiche al fine di effettuare esercitazioni militari ai confini tra la Cecoslovacchia e la Germania dell’Est. Le esercitazioni inizieranno il successivo venti giugno, tra la diffidenza della popolazione e non senza preoccupazione degli uomini politici di Praga. A molti sembrò che le manovre militari fossero una pressione contro i dirigenti del nuovo corso: l’Unione Sovietica dimostrava in questo modo la sua potenza e, nello stesso tempo, rimarcava l’appartenenza al blocco sovietico della Cecoslovacchia. La reazione dell’intellighenzia del paese non si fece attendere, il successivo ventisette giugno fu pubblicato sulla rivista letteraria “Literàrnì listy, ad opera dello scrittore Ludvik Vaculik, “l’Appello delle duemila parole”: un documento firmato da numerosi intellettuali progressisti radicali, ma che in pochi giorni contò decine di migliaia di adesioni anche tra gli operai, con il quale s’invitava la popolazione di opporsi con tutti i mezzi, anche con uno sciopero generale, a qualsiasi rallentamento del nuovo corso.

Il documento fu oggetto di un violento attacco sulla Pravda, che lo definì antisocialista e controrivoluzionario, insinuando che il Partito Comunista Cecoslovacco stava perdendo il controllo della situazione. Dello stesso parere anche i governi polacco, tedesco orientale, ungherese e bulgaro, che a tal proposito il diciassette luglio inviarono una lettera ai dirigenti di Praga, affermando che la situazione creatasi in Cecoslovacchia era inaccettabile e metteva in pericolo la comunità degli Stati socialisti. Accuse queste prontamente respinte, assicurando che il Partito controllava la situazione e che il nuovo corso doveva continuare per costruire un nuovo tipo di socialismo in Cecoslovacchia.

Si susseguirono diversi negoziati segreti tra Leonid Breznev e Dubcek, che portarono il primo di agosto ad un apparente compromesso: i contingenti sovietici entrati in Cecoslovacchia per le esercitazioni militari sarebbero stati ritirati a fronte di un rallentamento del processo di democratizzazione a Praga. Il tre agosto, a Bratislava, ci fu un incontro tra i rappresentanti cecoslovacchi con i sovietici, i polacchi, i tedeschi orientali, i bulgari, e gli ungheresi. Su questo incontro non si sono mai avute informazioni precise, ma sembrerebbe che anche in tale occasione Dubcek prese l’impegno di rallentare la libertà di stampa, il decentramento economico e politico e la rinascita dei sindacati, per evitare che l’esempio della democratizzazione cecoslovacca si diffondesse nell’Europa orientale e mettesse in difficoltà i regimi di quegli stati. Tornato a Praga, Dubcek negò  l’esistenza di clausole segrete concordate nell’incontro di Bratislava, al di là della generica affermazione presente nel comunicato finale: “che la conservazione e il rafforzamento delle conquiste del socialismo costituiscono un obbligo internazionale comune di tutti i paesi socialisti”.

Queta affermazione, per quanto generica possa apparire, determinò uno dei basilari principi utilizzati da Breznev per avanzare la sua teoria sulla cosiddetta sovranità limitata dei paesi socialisti, con la quale si sosterrà il diritto dell’Unione Sovietica di intervenire laddove ritenesse che i comunisti locali non fossero allineati con “Mosca”. Tuttavia, Dubcek riaffermò la propria autonomia, invitando a Praga l’undici agosto il Presidente jugoslavo Tito ed il successivo quindici agosto del 1968 il rumeno Ceausescu: capi di stato e massimi esponenti dei rispettivi partiti comunisti locali, che rappresentavano in Europa due posizioni di indipendenza da Mosca. La misura era ormai colma, la possibilità, seppur potenziale, di un’alleanza tra Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania, ritenuta dannosa agli interessi del blocco sovietico, insieme al timore che il processo di democratizzazione cecoslovacco ponesse in crisi gli altri regimi comunisti, spinse il Cremlino ad un atto di forza, dando avvio, nella notte tra il venti e il ventuno agosto, all’Operazione Danubio.

In breve, la Cecoslovacchia fu occupata dalle truppe del Patto di Varsavia; oltre ai sovietici, intervennero gli eserciti della Bulgaria, dell’Ungheria e della Polonia. Dubcek e gli altri dirigenti del nuovo corso furono fatti prigionieri e con un jet militare portati prima in Polonia e poi in Russia.

Il Presidente della Repubblica cecoslovacca, Ludvik Svoboda, si rifiutò categoricamente di firmare il decreto di nomina di un governo collaborazionista con gli occupanti, che sarebbe stato presieduto da Alois Indra, componente dell’ala conservatrice e antiriformista interna al Partito Comunista Cecoslovacco, da tempo in contatto con il Cremlino allo scopo di pianificare un colpo di stato e arrestare il nuovo corso di democratizzazione del paese.

Le truppe corazzate sovietiche giunsero a Praga senza incontrare alcuna resistenza, del resto le forze armate cecoslovacche non ricevettero alcun ordine atto a contrastare gli occupanti. La stessa Radio Praga, nel denunciare l’invasione in corso, esortò la popolazione cecoslovacca a non reagire alle forze di occupazione. Tutto ciò, probabilmente, evitò ulteriori spargimenti di sangue e lo scoppio di una guerra intestina tra stati del Patto di Varsavia.

Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa sovietica, TASS, fu lo stesso governo cecoslovacco a richiedere l’intervento di Mosca, senza precisare chi effettivamente lo avesse richiesto, per reprimere la minaccia portata all’ordinamento socialista, agli interessi vitali dell’Unione Sovietica e degli altri Stati socialisti da forze controrivoluzionarie appoggiate da forze esterne ostili. In buona sostanza, tra le righe, la NATO avrebbe tentato di destabilizzare la Cecoslovacchia per allontanarla dal blocco socialista. Fu lo stesso Svoboda che ai microfoni di Radio Praga smentì questa versione denunciando l’avvenuta occupazione di forze sovietiche e la violazione della propria sovranità nazionale.

Al Cremlino però necessitava una copertura politica alla completa riuscita dell’operazione, che venne a mancare, poiché a Praga non si riuscì a formare un governo filosovietico. Del resto, la stessa richiesta d’intervento secondo cui i sovietici furono chiamati ad intervenire, fu confutata dalle proteste di tutti gli Organi statali cecoslovacchi e, nonostante gli appelli alla calma di Radio Praga, da una folla disarmata, ma furente, che invase le strade della capitale cecoslovacca, frapponendosi alle forze corazzate sovietiche.  La stessa Radio Praga alternò gli inviti alla calma ad appassionate condanne dell’invasione e nonostante i carristi sovietici spararono sul palazzo della radio per tacitarla, la catena radiofonica cecoslovacca continuò a trasmettere in tutte le lingue e per giorni fu l’incubo delle forze di occupazione e lo strumento di collegamento tra il potere legale e l’opinione pubblica.

In alcuni quartieri di Praga ci furono scontri, ma altrove i cittadini di Praga cercarono di parlare con i soldati russi: ragazzi giovani, disorientati e stupiti per la palese accoglienza ostile, a cui gli era stato fatto credere di dover difendere i compagni cecoslovacchi dalla controrivoluzione. Ormai l’intero paese era sotto controllo delle forze di occupazione, ma la resistenza non violenta della popolazione e dei poteri legali continuò. Il comitato di Praga del partito comunista lanciò un appello a tutti i partiti comunisti e alcuni di questi effettivamente protestarono in nome dell’internazionalismo socialista. Al Cremlino, incurante delle proteste, la priorità restava comunque, in questa prima giornata di occupazione militare della Cecoslovacchia, trovare un gruppo di comunisti cecoslovacchi che, sconfessando il governo, avallassero l’invasione fornendo così copertura politica all’operazione militare.

Tutti i rappresentanti dei poteri legali della Cecoslovacchia, tranne il presidente Svoboda, erano prigionieri dei sovietici. Svoboda resistette a tutte le pressioni ricevute da Mosca, rifiutando di sottoscrivere qualsiasi soluzione, che scavalcasse gli altri Organi costituzionali del paese, rendendo impotente gli esponenti filosovietici interni al Partito, quest’ultimi accusati di tradimento dalle manifestazioni popolari in atto. Il ventitré agosto, Svoboda si recò a Mosca per negoziare una soluzione al conflitto. Nella capitale sovietica, resisi oggettivamente conto dell’impari lotta contro il regime e per evitare ulteriori conseguenze in patria, il ventisette agosto, i membri della delegazione cecoslovacca, composta da Svoboda, Dubček, Černík e Smrkovský, accettarono di sottoscrivere il Protocollo di Mosca.

Il Protocollo prevedeva la soppressione dei gruppi d’opposizione e il ripristino della censura; non ci fu alcun riferimento ad un’azione “controrivoluzionaria” e non ci fu una formale richiesta di annullamento del percorso di democratizzazione intrapreso da gennaio nel paese. Dubček tornò a Praga, come anche la maggior parte dei riformatori, e mantenne il suo incarico di primo segretario del partito comunista cecoslovacco, paradossalmente con l’incarico di avviare la “normalizzazione” del paese. Il diciassette aprile del 1969 fu sostituito da Gustáv Husák, imposto da Mosca. Furono annullate le riforme, epurato il partito dai suoi membri liberali ed applicato una rigida censura.  L’utopia del popolo cecoslovacco di costruire un socialismo dal volto umano, democratico e pluralista  durò dal mese di gennaio 1968 fino all’agosto dello stesso anno. Le manifestazioni di protesta si esaurirono nel giro di una settimana dall’invasione russa.

L’invasione sovietica della Cecoslovacchia ebbe un forte impatto emotivo in seno ai Partiti Comunisti occidentali, i quali si divisero simpatizzando per una o l’altra parte. Le ambasciate e i governi occidentali protestarono in modo diverso gli uni dagli altri, ma senza troppo vigore per non rompere l’equilibrio della Guerra Fredda, il quale era basato sulla mancanza di reciproci palesi interventi sulle politiche dei due schieramenti. Solo i cinesi si espressero duramente nei confronti del Cremlino, accusandolo di imperialismo, mentre gli jugoslavi protestarono sdegnati e si prepararono a resistere ad eventuali atti di forza. Anche la Romania e l’Albania criticarono con durezza l’iniziativa del Cremlino. Perfino alcuni moscoviti ebbero il coraggio di manifestare sulla Piazza Rossa, mostrando solidarietà alla Cecoslovacchia. Verranno picchiati, arrestati e, in parte, internati nei manicomi.

Orbene, a questo punto si potrebbe porre una domanda: a distanza di oltre cinquant’anni quale insegnamento e quali analogie con i tempi attuali restano di quella lontana esperienza. È innegabile il mondo, nel frattempo, è tanto cambiato. La caduta del muro di Berlino ha plasticamente annunciato la fine del “Patto di Varsavia” e la stessa Cecoslovacchia non esiste più, pacificamente scissa nelle rispettive Repubbliche Slovacca e Ceca, le quali, oggi, sono entrambe membri dell’Unione Europea e della NATO!  Alla fine, si può dire che è stata la storia a soddisfare le aspirazioni del popolo cecoslovacco.

Proprio la storia ci fa riflettere sui contesti passati, che, seppur in forme diverse, ci permette, talvolta, di collegarli, attraverso analogie, a manifestazioni e situazioni politiche, economiche, culturali attuali. Infatti, quei vecchi fatti si ritrovano oggi, magari in siti diversi ed ognuno con le proprie peculiarità, in eventi attuali. A fattor comune si può proporre, fra le tante, una riflessione: la repressione delle aspirazioni del popolo da parte del “più forte”, come a Praga dove la sete di democrazia dei cecoslovacchi si dovette piegare agli ordini sovietici.

Le odierne cronache richiamano alla mente la guerra in corso tra Ucraina e Russia. In questa sede non si ritiene opportuno entrare nel merito sulle ragioni che hanno portato al conflitto le due parti, poiché su queste continuano a versarsi fiumi d’inchiostro e a proporsi reportage radiotelevisivi. Invece, per quanto qui d’interesse, si vuole porre l’attenzione su un punto che accomuna Praga del 1968 e Kiev al giorno d’oggi. In estrema sintesi, è palese che la maggioranza degli ucraini abbia manifestato l’intenzione che il loro paese si unisse all’Unione Europea, in cerca di migliori condizioni economiche e di una più matura democrazia, che, in fondo, erano le stesse esigenze manifestate in passato dai cecoslovacchi. Semplificando, tale aspirazione ha trovato la netta opposizione della Russia, che fra l’altro, è fermamente intenzionata a reprimere le derive occidentaliste del governo ucraino. Stesso ragionamento, seppur con motivazioni opposte, può applicarsi alle aspirazioni degli ucraini filorussi, che hanno, invece, dovuto misurarsi con la rigidità del governo ucraino.

La conclusione è indubbia: lo scoppio della guerra ha trasformato, suo malgrado, le aspirazioni di ognuno, sia che fosse filorusso, sia che fosse filooccidentale, in disperazione, tragedia e morte.

Questa guerra è essa stessa un segno del radicale cambiamento dei tempi e qui si può evidenziare una netta differenza tra quanto accadde nella “Primavera di Praga” e quanto, invece, sta succedendo oggi. Immaginiamo, solo per un attimo, che il blocco sovietico non fosse caduto, è plausibile ipotizzare che le rivendicazioni del popolo e del governo ucraino sarebbero state represse analogamente a quanto accaduto alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso in Cecoslovacchia, e prima ancora in Ungheria. Una guerra non sarebbe stata possibile. Ma non è solo questo l’aspetto importante.

L’episodio cecoslovacco avvenne in piena Guerra fredda, quando in un delicato equilibrio fra i paesi della Nato e quelli del Patto di Varsavia vigeva un tacito accordo fra le parti per il quale veniva evitata qualsiasi interferenza diretta della Nato in vicende che riguardavo il Patto di Varsavia e viceversa, al di là delle attività di spionaggio. Paradossalmente, nell’occasione, ci furono reazioni più vementi proprio da paesi comunisti quali Cina, Jugoslavia e Romania, che comunque restarono a livello diplomatico, mentre dai governi occidentali e dagli stessi Stati Uniti giunsero proteste più moderate, quasi di facciata. Insomma, la Cecoslovacchia si trovò sostanzialmente sola di fronte alla potenza sovietica.

Diversamente, la globalizzazione ha rivoluzionato gli equilibri fra le potenze mondiale sia sul piano politico, ma soprattutto su quello economico. Non è certo dato sapere quanto le aspirazioni del popolo ucraino e l’orientamento verso occidente del governo in carica siano frutto di strumentalizzazioni da parte dei paesi NATO, come viene osservato dalla Russia. È, comunque, certo che l’Ucraina è riuscita a far fronte all’attacco russo grazie all’intervento dei paesi occidentali, sia sul piano economico, con l’applicazione delle sanzioni alla Russia, sia su quello militare, con l’ingente fornitura di materiale bellico. Anche la Cina, in qualche modo vicina alla Russia, non pare, almeno ad oggi, aver preso una posizione netta, preoccupandosi più di ritagliarsi un ruolo di mediatrice tra le due parti, evitando un coinvolgimento diretto. Ciò è spiegabile per via dei suoi interessi economici che con l’occidente sono enormi e, in questa fase, un suo netto intervento in favore della Russia potrebbe comportare l’irrimediabile lesione di tali interessi.

Un secondo punto di contatto tra i due eventi è determinato dall’instaurazione di un nuovo governo, politicamente ed economicamente diversamente orientato rispetto a quello precedente. In tal senso, per quanto concerne la Cecoslovacchia si è già detto sopra. Analogamente in Ucraina, con le dovute differenze, si è verificata una situazione alquanto simile. In merito, bisogna fare cenno alla cosiddetta “Rivoluzione di Maiden” del 2014, avvenimento attraverso il quale la maggioranza degli ucraini ha manifestato la propria aspirazione di “occidentalizzare” il Paese chiedendone l’entrata nell’Unione Europea e nella NATO. Le manifestazioni sono state tanto imponenti da determinare la caduta del governo in carica di Mykola Azarov e l’allontanamento del presidente Viktor Janukovyč, entrambi graditi alla Russia, e portare il paese a nuove elezioni. Anche in questo caso, analogamente a quanto i sovietici ebbero a dire su quanto accadde a Praga, la Russia si è parlato dell’intervento degli Stati occidentali (e soprattutto degli USA) per destabilizzare il Paese e spingerlo ad allontanarsi dalla Russia, al di là del fatto che in realtà l’entrata dell’Ucraina in “Europa” e nella NATO non era così scontata, perché mai stata in agenda.

La storia si ripete anche sulle ragioni dell’intervento. Anche in questo caso, il governo russo è stato costretto ad intervenire sulla base delle richieste di aiuto provenienti dalle popolazioni filorusse del Donbass. Ha, quindi, avviato “l’operazione militare speciale” per “liberare” (almeno inizialmente) gli ucraini dalla repressione “neonazista” del governo in carica.  Come in passato, la maggior parte del popolo russo, che non approvò l’occupazione sovietica della Cecoslovacchia, non ha apprezzato l’intervento militare nei confronti dell’Ucraina e le dimostrazioni che ci sono state a Mosca con decine di arresti sono state emblematiche. Come significativo è anche il fatto che ai primi soldati russi inviati in Ucraina è stato detto che avrebbero dovuto liberare i fratelli ucraini dall’oppressione governativa “nazista”, per trovarsi poi in guerra di fronte a un popolo che, in maggioranza, invece di accoglierli come liberatori gli ha opposto una forte resistenza anche sul piano militare.

Infine, resta da confrontare la percezione dell’opinione pubblica rispetto ai due avvenimenti.  Sostanzialmente, ora come allora l’opinione pubblica si è suddivisa a favore di una o dell’altra parte, con una sola differenza afferente alla guerra russo-ucraina che è segno dei tempi odierni. Nel 1968, la percezione politica era molto sentita, soprattutto in occidente. C’era chi, contrario al sistema capitalista in patria, condannava i cecoslovacchi, in quanto controrivoluzionari e traditori del socialismo; altri, invece, di orientamento liberale ne condivideva gli ideali di maggiore democrazia e libertà. Oggi, le cose sono diverse, in un’epoca dove, soprattutto in Italia, impera la disillusione sulla  politica, ci si divide sulle ragioni che hanno portato al conflitto, tra coloro che vengono considerati pro-Putin, che giustificano l’intervento militare, e quelli invece che lo condannano. Nell’ambito di questo acceso dibattito, vi è poi una terza componente, non presente cinquant’anni addietro, rappresentata da coloro che sono “né con l’invasore russo, né con il governo ucraino” e condannano gli uni e gli altri per le conseguenze che la guerra sta determinando alle proprie condizioni di vita: aumento del costo delle bollette energetiche, dei prezzi dei generi alimentari, dei carburanti e dell’inflazione in genere. Come si è detto, anche questo è segno dei tempi cambiati.

La riflessione finale è che i popoli possono nutrire delle aspirazioni, spesso afferenti a maggiore libertà e, soprattutto, a maggiore benessere, ma queste, anche nelle poche ipotesi in cui ci sia un governo di analogo orientamento, devono sempre fare i conti con equilibri economici e politici mondiali che, sempre più spesso, hanno poco da spartire con le esigenze basilari dei popoli e che, talvolta, sfociano in conflitti armati.

 

 

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