Il settore moda è stato uno tra i più colpiti da inizio di questa pandemia. Secondo il report di Confindustria Moda una tendenza positiva di ripresa potrebbe verificarsi nel corso del 2022, grazie anche al progredire della campagna vaccinale.

Inevitabilmente il comparto moda ha subito dei cambiamenti, ma tante rivoluzioni che le riviste più blasonate avevano preannunciato non si sono verificate. Da marzo 2020 fino a settembre 2021, ogni mese grandi voci di questo campo hanno scritto come questa esperienza, così traumatica, dovrebbe farci aprire gli occhi sui problemi sempiterni della moda. Eppure, mettendo a confronto questo periodo con quello pre-covid non sempre si sono raggiunti dei risultati.

Una persona non esperta si figura il settore moda popolato da gente irascibile, arrogante, snob e pretenziosa come nel film “Il diavolo veste Prada” (2006), che ha aiutato molto a plasmare questo scenario. Non tutti hanno una personalità del genere, ovviamente. Molto simile al film sono, invece, i ritmi frenetici che devono affrontare chi lavora nella moda. Tempi di lavoro improponibili e insostenibili che portano molto spesso al cosiddetto burnout, che significa “bruciarsi, esaurirsi”. Il lockdown e lo smart working hanno messo in evidenza questo problema, che ha portato a un effettivo cambiamento in questo settore. Molte aziende hanno deciso di diluire i tempi e assecondare la creatività e non solo la produttiva, come Gucci alla guida di Alessandro Michele.

La pandemia ha portato, almeno inizialmente, una sorta di democraticità nel settore moda. I brands, infatti, si sono adeguati alle disposizioni ministeriali in fatto di chiusure, proponendo la fashion week in formato digitale, proiettandole nelle pagine social personali e, quindi, accessibili in diretta a tutti. Il vantaggio non era solo a livello sociale, ma anche a livello ambientale. La fashion week comporta, infatti, un ingente spostamento di persone, quindi di mezzi -aerei, taxi, auto- e la città si riempie, molte volte a discapito di chi ci vive. Digitalizzare le sfilate di moda ha comportato dei vantaggi sotto molti aspetti. A settembre 2021, però, molti hanno deciso di fare un passo indietro e ritornare allo spettacolo dal vivo. La stessa Anna Wintour, direttrice di Vogue America, la voce più autorevole e temuta, nel numero di settembre di Vogue ha dichiarato di preferire le sfilate “in presenza”.

La produzione, anche essa fatta di ritmi infattibili, ha inevitabilmente subito un rallentamento, dovuto a una decrescita della domanda di acquisto. Questo aspetto è considerato una catastrofe dal punto di vista economico, ma non dal punto di vista ambientale. Il settore moda è inquinante e la parola “sostenibilità” è ormai una tendenza in ogni azienda e ogni brand. Come può essere sostenibile un marchio o un’azienda che produce collezioni quasi a cadenza settimanale? La pandemia ha portato anche una riflessione su questo aspetto, c’è bisogno di un cambiamento efficace ed effettivo. Il risultato, però, è stato solo una grande operazione di greenwashing da parte delle aziende, come i grandi colossi del fast-fashion, Zara, H&M, Shein, che parlano di sostenibilità e ogni settimana immettono sul mercato centinaia di pezzi.

Per sopperire al rallentamento produttivo, molte aziende durante il lockdown si sono riconvertite, votandosi alla causa medica e producendo mascherine e camici monouso. La pandemia ha scatenato una vera e propria “chiamata alle macchine da cucire”, moltissimi si sono impegnati nella produzione di mascherine in TNT (tessuto non tessuto). Gli esempi in Italia e non sono innumerevoli: il gruppo Armani ha convertito la produzione per la creazione di camici monouso. Roncato, azienda di valigeria, ha prodotto mascherine in PVC, lavabili e con filtri che possono essere cambiati. Oltre a un cambio nella produzione, non sono mancate donazioni da milioni di euro per aiutare gli ospedali: Gucci, Valentino, Bottega Veneta, Prada e molti altri.

Terminata la produzione di dispostivi medici, le aziende hanno dovuto ripensare alle loro collezioni. La chiusura forzata in casa, la scomparsa di eventi e cene e lo smart working hanno richiesto dei cambiamenti. C’è stata una crescita nella domanda di abbigliamento comodo, molto più casual e sportivo, causando però un declino dell’abbigliamento formale.

Il digitale ha invaso le nostre vite, di conseguenza anche la moda. La vendita al dettaglio si è spostata online, questo non significa che l’offline sia morto, ma c’è bisogno di qualcosa di nuovo e di innovativo, che renda l’acquisto una vera e propria esperienza. Probabilmente assisteremo nei prossimi mesi e anni a un connubio tra reale e digitale, come la collezione SS 2022 di Balenciaga. Lo streaming sta diventando fondamentale e le case di moda propongono collaborazioni con aziende di videogiochi, creando abbigliamento virtuale per gli avatar dei giochi: come i vestiti, accessori, make-up creati da molte aziende per il gioco Nintendo “Animal Crossing”. La moda si sta preparando a scrivere i prossimi capitoli nella sua storia anche nel cosiddetto metaverso – uno spazio tridimensionale all’interno del quale persone fisiche possono muoversi, condividere e interagire attraverso avatar personalizzati.

La questione ambientale ha accelerato numerose tendenze del settore. “Less is more” è il motto più ricorrente: comprare meno vestiti, ma di alta qualità e durabilità, di buona manifattura e magari con materiali riciclati. D’altro lato, c’è chi invece di comprare qualcosa di nuovo decide di indirizzarsi su ciò che già esiste, ricorrendo al vintage o al second-hand. Anche in questo caso c’è una vera e propria divisione, di cui se ne può avere una testimonianza osservando i social più utilizzati come Instagram e Tik Tok. Gli utenti, infatti, passano da un video di un haul settimanale di Shein di una micro-influencer, a persone che mostrano i loro acquisti nei negozi vintage o nei mercati dell’usato più famosi delle città, come Porta Portese a Roma.

C’è quindi una continua lotta fra fast-fashion e un ritorno a una slow-fashion, soprattutto tra i luxury brands che nell’ultimo decennio hanno dovuto cambiare la loro produzione per adeguarsi alla richiesta continua dei consumatori, sempre più vorace, sempre più alla ricerca di qualcosa di nuovo.

C’è, però, anche una divisione tra chi è sempre più attento alla questione ambientale e interessato a come il capo viene prodotto e se chi lo ha creato è stato pagato adeguatamente e non sfruttato; i consumatori sono molto più attenti e consapevoli della vulnerabilità dei dipendenti di questo settore. Da all’altro lato c’è chi continua a tenere gli occhi chiusi.

Sebbene possiamo constatare dei cambiamenti effettivi, sotto molti aspetti c’è stata una vera e propria involuzione che ha riportato a una situazione pre-covid. Questo non è sempre un segnale positivo.

Il percorso verso una moda sostenibile, democratica e inclusiva è ancora molto lungo e tortuoso, nonostante le novità e gli accorgimenti delle aziende di moda.

Come scrisse Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne “Il Gattopardo”: se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.

settore moda

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