I nati nel XXI secolo sono cresciuti immersi nei valori della democrazia, sensibilizzati fin da bambini all’indiscutibilità dei diritti umani, abituati a considerare ogni singolo Stato intessuto in una fitta rete di accordi internazionali che non gli permette di prendere iniziative in politica estera dissonanti dall’orientamento concordemente impresso. In un contesto del genere, scontri come quelli cui si è assistiti durante la Guerra Fredda venivano ormai considerati oggetto di studio per analizzare dinamiche di un capitolo della storia mondiale concluso, in quanto dominato da logiche e principi completamente impopolari nel nostro secolo. Ma è realmente così? Gli ultimi eventi di cronaca relativi al conflitto in Ucraina hanno dimostrato come l’ottica della collaborazione sovranazionale non possa essere considerato un dogma infallibile e completamente assorbito nella mentalità delle superpotenze contemporanee; questo in verità era già desumibile dagli innumerevoli scontri degli anni passati, ma le faglie sembravano giacere in uno strato estremamente distante dalla superficie occidentale.

L’ipocentro del terremoto: le sgomitate del secondo dopoguerra

L’assetto geopolitico contemporaneo affonda le sue radici nel secondo dopoguerra, che può essere considerato come un punto di non ritorno nella storia mondiale in cui si avviano tutti i processi da cui discende l’attuale configurazione politica, sociale ed economica del globo: creazione di garanzie del rispetto dei diritti umani tramite accordi ed organizzazioni internazionali, completamento della democratizzazione dell’Occidente, decolonizzazione, stabilizzazione dell’interdipendenza economica su scala planetaria e molti altri ancora. Questo fermento globale apparentemente volto a redistibuire orizzontalmente il potere, a qualsiasi livello, venne monopolizzato nel giro di pochi anni dalle due superpotenze qualificatesi poi come protagoniste indiscusse della seconda metà del XX secolo: Stati Uniti d’America e Unione Sovietica. Appena terminato il secondo conflitto mondiale gli Stati Uniti cercarono di farsi garanti dell’equilibrio mondiale tramite molteplici iniziative volte a consolidare la propria l’imprescindiblità: in primo luogo dal punto di vista economico, sia con la stipula degli accordi di Bretton Woods del 1944 con cui, sostituendo il sistema dei tassi di cambio del gold standard, si stabilì che le riserve mondiali fossero detenute da tutte le banche centrali non solo in oro ma anche in dollari, agganciando l’andamento economico internazionale alla moneta americana, sia avvolgendo l’Europa Occidentale nel tepore delle proprie ali tramite l’avvio del piano Marshall (o European Recovery Program) nel 1947, volto a finanziarne la ripresa economica. Sodalizio centrale tra queste due aree è stata l’istituzione nel 1949 della NATO (Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord), organizzazione intergovernativa a carattere difensivo, cui aderirono in un primo momento 12 paesi, tra cui Stati Uniti d’America, Regno Unito, Francia e Italia, mentre ad oggi ne fanno parte 26. Ma attenzione: non si può certo dire che tutto questo proliferare di magnanimità statunitense abbia messo in un cono d’ombra la rilevanza e il peso geopolitico dell’Unione Sovietica. Essa fu l’interlocutrice obbligatoria della superpotenza americana in tutta la fase di riconfigurazione dell’assetto territoriale europeo dell’immediato dopoguerra, non nascondendo il proprio interesse a mantenere il controllo indiscusso dell’Europa Orientale (Germania dell’Est, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania ed Ungheria). Entrambi gli Stati erano membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, assieme alle altre potenze vincitrici (Gran Bretagna, Francia e Cina) ed entrambi erano intenzionati a non lasciare margini di manovra che permettessero all’altro di espandere la propria influenza.

Le faglie della Guerra Fredda

La tensione contenuta fino alla conferenza di pace di Parigi del 1946, con cui si stabilirono le nuove configurazioni territoriali e le riparazioni economiche gravanti sulle potenze sconfitte, esplose subito dopo, quando il 12 marzo 1947 venne affermata quella che passò alla storia come la “dottrina Truman”, in un discorso con cui l’allora Presidente statunitense lasciò intendere che gli USA si sarebbero schierati intervenendo militarmente dalla parte di chiunque avrebbe contrastato le mire espansionistiche dell’URSS. Da quel momento il mondo si spaccò in due macro-aree di influenza, un sistema bipolare imperniato sulle egemonie contrastanti di quelle due superpotenze, accomunate solo dalla volontà di malleare propagandando la propria concezione e i propri ideali il maggior numero possibile di Stati. La letteratura ha fatto propria l’espressione del giornalista americano Walter Lippmann che definì tale scontro “guerra fredda”, in virtù del fatto che non si ebbe un fronte fisico di battaglia circoscritto, perchè il braccio di ferro avvenne a livello ideologico, economico, energetico, di egemonia territoriale, nel settore della ricerca e addirittura di esplorazione dello spazio extra-terrestre. In realtà, di invasioni e di scontri ce ne furono in abbondanza: semplicemente non vennero combattuti sul territorio delle potenze rivali, ma nei paesi che arrivavano a dividersi in due creando governi alternativi che appoggiassero politicamente gli Stati Uniti piuttosto che l’Unione Sovietica, come nel caso del Vietnam o della Corea; e nonostante i conflitti potessero essere percepiti come confinati in luoghi distanti, su tutto il mondo gravava una minaccia ben più grave, ovvero la possiblità che uno dei due Stati decidesse di ricorrere alle armi nucleari. Parliamo di 45 anni di storia estremamente densi, che hanno contribuito alla nostra realtà contemporanea tramite avvenimenti estremamente eterogenei: il processo di unificazione europea, la graduale affermazione dell’esistenza del Terzo Mondo e del movimento dei non allinati nello scenario globale, l’ispessimento della rete internazionale con il proliferare di organizzazioni e trattati che hanno dato sempre maggior spessore a questa branca del diritto, la nascita del consumo di massa e della relativa cultura che ha contribuito a modificare in maniera irreversibile la società dei paesi più sviluppati. La seconda metà del XX secolo è stato sicuramente un momento di convergenza di numerose trasformazioni che hanno dato vita ad una morfologia estremamente rivoluzionaria della realtà mondiale.

Il nuovo apparente equilibrio tra le placche

La dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, sostituita dalla Russia come membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e la fondazione dell’Unione Europea con il Trattato di Maastricht del 1992, hanno risplasmato il volto del nostro continente. Ma più in generale, possiamo affermare che l’assetto geopolitico mondiale dell’epoca è stato considerevolmente modificato, oltre che dall’emersione di nuove potenze mondiali come la Cina agli inizi del nuovo millennio, dall’emersione di istanze transnazionali e attori non governativi che hanno ridimensionato la sovranità statale. Elemento centrale che ha catturato in maniera preponderante l’attenzione degli Stati è stata l’emersione della maggioranza istruita e pronta al consumo: maggioranza di elettori, di acquirenti, di visitatori ecc. La grande ambizione che da sempre muove gli attori nazionali, ossia avere a disposizione quanta più ricchezza possibile, ha trovato un nuovo sbocco realizzativo nel momento in cui il cittadino ha assunto all’interno della configurazione capitalista la veste di cliente, per cui gli Stati hanno cercato di rendersi “l’albergo più soddisfacente e attrattivo” in cui continuare a soggiornare; essendo cambiati i principi e i valori, nell’assetto contemporaneo la forza e la prosperità si misurano in base alle condizioni di vita che si possono offrire ai propri residenti, misurando la  qualità delle prospettive offerte sotto ogni punto di vista. Competizione e cooperazione tra Stati si confondono in un contesto di stretta interdipendenza mondiale, in una realtà profondamente innovata da fenomeni come la globalizzazione e la rivoluzione digitale. Eppure, nello stordimento originato da questo stravolgimento generale, si rischia di approdare in convinzioni sbagliate: non c’è stato nessun reset dell’umanità. Ne è una dimostrazione lampante la situazione in Medio Oriente, in cui le rivendicazioni nazionali e la lotta per l’accaparramento delle risorse scandiscono ancora le dinamiche geopolitiche; e le superpotenze non hanno smesso di perseguire i propri interessi, semplicemente l’enorme varietà di strumenti e percorsi per perseguirli ostruisce esasperazioni ed estremizzazioni. Il mondo occidentale, convinto che tramite il sistema internazionale fossero state rese patrimonio comune le nuove regole del gioco, è rimasto fortemente destabilizzato vedendo la Russia tornare e praticare sullo scacchiere le vecchie mosse: l’invasione russa dell’Ucraina in atto dal 24 febbraio 2022 ha catalizzato l’attenzione di tutta l’opinione pubblica occidentale, i cui recettori di allerta sono stati estremamente sensibilizzati dall’emergenza pandemica, e che si è sentita passata dalla padella alla brace; “non bastava il Covid, ora anche la terza guerra mondiale”, chi non ha sentito pronunciare almeno una volta questa frase negli ultimi due mesi non è uscito abbastanza di casa.

Le scosse di assestamento nel XXI secolo

In realtà, tutti ormai sappiamo bene che il conflitto non è una trovata del 2022, ma l’exploit di frizioni che già nei primi anni 2000 portarono allo scontro le istanze filorusse e quelle filoccidentali presenti in Ucraina, in un Paese che da anni si trova sul filo del rasoio: a differenza di altri Stati dell’Europa dell’Est prima parte dell’Unione Sovietica, non è mai entrato a far parte né della NATO né dell’Unione Europea. Inoltre, la sua storia è estremamente intrecciata con quella della Russia, come dimostra anche la significativa presenza della lingua e della popolazione di quest’ultima sul territorio ucraino; per non parlare delle complesse dinamiche geopolitiche riguardanti la penisola della Crimea, stategica per il suo affaccio sul Mar Nero ed estremamente contesa tra i due Stati. Quello che ha colpito nella vicenda è stato il brutale ritorno all’utilizzo di una logica di rivendicazione nazionale legata ad interessi geopolitici su un territorio realizzata con le armi, oltre al palesamento dell’attaccamento alle proprie sfere di influenza da parte delle superpotenze a dimostrare che tale mentalità non è mai realmente tramontata. Il punto centrale, con cui non si intende giustificare le pretese che sono state avanzate con le armi ma solamente stimolare una riflessione, è: se in oltre duemila anni di storia studiati e analizzati ci è stato insegnato che le mosse delle città-stato prima, degli imperi poi, dei comuni, degli Stato-nazione e delle grandi potenze sono sempre state ispirate dal perseguimento del proprio interesse in quanto prioritario rispetto a quello del proprio interlocutore, forse è stato ingenuo pensare che bastassero appena trent’anni per estirpare questa logica dalle menti di chi detiene il potere di manovra delle politiche statali. Sicuramente colpisce che nel XXI secolo si sia tornato a parlare tra i Paesi più avanzati di rivendicazioni su altri Stati, ma solo perchè suona anacronistico rispetto a quelle di tipo economico, finanziario o di visibilità internazionale perseguite in Occidente tramite i nuovi canali della nostra epoca, non bellicosi nell’accezione tradizionale del termine.

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