L’impianto Snia Viscosa di Rieti, le origini prima dell’abbandono

“Sono entrata in fabbrica che ero “ragazzetta” perché ci andavano anche le mie sorelle. Alle 5 partivamo in bicicletta da Maglianello e andavamo direttamente alla Viscosa per iniziare a lavorare puntuali alle 6. Il tragitto era lungo e faticoso soprattutto nei giorni di maltempo, si arrivava zuppi allo stabilimento e se non si aveva il cambio nell’armadietto non si poteva fare altro che aspettare che i vestiti si asciugassero addosso”, racconta Cesarina Castellani (classe 1919) che fu operaia presso la Snia per diversi anni. La storia dello stabilimento supertessile Snia viscosa, il cui ricordo è conservato teneramente nel cuore di molti abitanti del reatino e dintorni, inizia nel 1928, con la firma del contratto di vendita di un lotto di terra piuttosto esteso e collocato a metà tra campagna e centro storico, di proprietà degli aristocratici reatini, tra cui il principe Potenziani. All’epoca Rieti, nel cuore della fertile

Sabina, era un piccolo centro rurale, seppur con secoli di storia alle spalle che ne attestavano il prestigio, la cui economia si reggeva prevalentemente grazie alla produzione agricola. Già all’inizio del secolo scorso l’area era stata oggetto di vivo interesse da parte di industriali e grandi magnati, locali e non, che avevano sovvenzionato l’edificazione di uno zuccherificio, il primo d’Italia, collocato di fronte al futuro stabilimento tessile, di cui ancora oggi si può osservare la “carcassa in decomposizione”. Nel corso degli anni ’20, quando le rivendicazioni autocratiche erano all’ordine del giorno, il clima imprenditoriale iniziò a farsi più caldo e concitato: la Società generale Italiana della Viscosa aveva intrapreso la sua corsa all’espansione, spuntavano nuovi stabilimenti come papaveri in una distesa di grano, e tra i terreni più fertili per questa rinascita industriale il prescelto fu proprio quello reatino. In breve tempo lo stabilimento era già pronto per entrare in funzione ma, piccolo problema, mancava la manodopera: come già accennato Rieti era un piccolo centro contadino e la forza lavoro disponibile era prevalentemente analfabeta e inadatta ad essere impiegata in un impianto altamente pericoloso per via delle esalazioni tossiche, servivano operai specializzati, e in fretta…

Allora vennero chiamate a rapporto le maestranze del nord Italia, principalmente donne venete (esperte del settore tessile) provenienti da Rovigo e Padova: l’accoglienza non fu certo delle più calorose dal momento che i reatini, popolo di montagna abituato ad avere poche interazioni con i “forestieri”, non vide di buon occhio i costumi licenziosi, la disinvolta leggerezza e l’indipendenza delle donne venete. Con il tempo l’austerità degli autoctoni si ammorbidì e i due nuclei impararono a convivere, talvolta perfino fisicamente: la città “saliva” (per citare il quadro futurista di Boccioni) ed espandeva i propri confini per poter accogliere la nuova popolazione residente, il cui numero impennava giorno dopo giorno man mano che si diffondeva la notizia della “grande ouverture”. In breve tempo furono disponibili alloggi operai, essenziali nell’aspetto ma muniti di tutti i servizi, e lussuose villette, riservate ai dirigenti. I più sfortunati invece, la grande massa di pendolari che provenivano dai paesi satelliti della provincia, erano costretti ad arrangiarsi per poter raggiungere il posto di lavoro: pioggia o sole, gelo o afa, si doveva arrivare puntuali altrimenti ad attenderti ai controlli ci sarebbe stata soltanto una salatissima multa.

Luci e ombre dello stabilimento

Ebbene sì, alla Viscosa di Rieti la vita era tutt’altro che rose e fiori; se da un lato infatti è vero che la fabbrica aveva infuso nuova linfa all’economia locale e rimpinguato le tasche dei magnati, dall’altro bisogna considerare tutti gli incidenti di percorso. È a questo punto che la storia della viscosa si tinge di toni più noir: come accennato precedentemente, l’impianto tessile per poter funzionare necessitava quotidianamente di ingenti quantità di sostanze chimiche altamente tossiche tra cui acido solforico, indispensabile per la lavorazione della viscosa. Le conseguenze inevitabili della prolungata esposizione a queste esalazioni tossiche erano patologie gravi, come il solfocarbonismo, un’intossicazione che attacca l’apparato respiratorio provocando deficit neurologici, psicosi e nel peggiore dei casi, la morte. Numerose sono le testimonianze raccolte nel corso degli anni a tal proposito, la maggioranza delle quali sembrano addensarsi attorno al dato olfattivo: “In alcuni giorni l’aria si faceva pesante ed irrespirabile, nei reparti c’era una nebbia che la potevi tagliare con il coltello…Tra la nebbia, i rumori, la puzza, sembrava di stare all’inferno. Spesso all’ingresso ci veniva consegnato un bicchiere di latte, il presunto rimedio che avrebbe tamponato i danni”. Al di là dei sentimentalismi e delle romantiche nostalgie questa era la cruda realtà di una fabbrica che per molti dei suoi operai fu una seconda casa.

Lavorare alla Viscosa, tuttavia, era anche motivo di orgoglio: significava avere una sicurezza economica, il tanto decantato stipendio fisso, e soprattutto la possibilità di assicurarsi una migliore qualità di vita e di offrire ai propri figli un futuro più agiato. Figli che, nella maggioranza dei casi, nascevano da amori sbocciati proprio tra i vapori della sala macchine o tra le mura della mensa durante la pausa pranzo. La fabbrica “letale” pullulava di vita e la giornata lavorativa spesso si concludeva in festa: numerose erano le attività ricreative pensate per l’intrattenimento dei dipendenti, le feste danzanti al dopolavoro, i concerti del “Festival del Sommerso” (la ciliegina della cultura musicale sotterranea del reatino), i match di basket, disciplina fino ad allora letteralmente aliena alla popolazione locale, che in breve tempo guadagnò un successo tale da diventare lo sport di punta in città.

Gli anni ’70, la crisi e l’inizio della fine

Gli anni trascorrono veloci e all’iniziale entusiasmo si sostituisce una amara consapevolezza: il settore tessile è nell’occhio del ciclone di una crisi che non lascia superstiti e per diversi anni, tra il 1970 e il 1980, si alternano febbrilmente le gestioni nel tentativo di scongiurare l’insopportabile ipotesi di una chiusura. I tentativi di rinnovo dello stabilimento culminarono nel 1979 quando, presentato l’ennesimo piano di ammodernamento della struttura per adattarsi alle esigenze del mercato tessile nazionale, furono nuovamente rifiutati i fondi sufficienti per apportare le modifiche necessarie. L’impianto chiuse i battenti anche se non si trattava di un addio. La comunità operaia disoccupata era furiosa e per diversi mesi in città imperversò la protesta più irruente: per le vie tuonavano i cori di dissenso dei manifestanti “Si fermano le macchine, si fermano i tramvai, gli operai della SNIA, non si fermeranno mai”. Nel 1986 arrivò la tanto attesa risposta alle contestazioni: la fabbrica riapre ma con un’identità differente, Nuova Rayon, specialista nel settore della produzione del rayon di alta qualità. Tra alti e bassi la storia della Viscosa si trascina fino al suo triste epilogo, datato 30 giugno 2007: le macchine cessarono di lavorare, si prosciugarono le nebbie tossiche che intasavano l’atmosfera e i cancelli dell’impianto si chiusero per quello che, stavolta, sembrava un addio definitivo…
La storia della Viscosa è una di ostinazione, resistenza, determinazione: quella degli operai che non si rassegnavano all’idea di abbandonare all’incuria il luogo che aveva fatto da sfondo ad alcuni dei capitoli più importanti della loro esistenza, la prima giornata di lavoro, lo sbocciare di un amore adolescenziale, la prima festa danzante nell’abito “buono” (quello della domenica)…raccontare la Viscosa equivale ad aprire uno scrigno di Pandora che custodisce teneri ricordi e brucianti sconfitte.

L’ultimo capitolo della storia, il bando internazionale del 2015 per il rilancio della struttura

Ma forse non siamo ancora giunti alla fine di questa storia il cui ultimo capitolo si apre nel 2015 quando il comune di Rieti e la Banca Monte dei Paschi di Siena bandiscono un concorso internazionale,”Next Snia Viscosa“, con l’intento di risollevare le sorti dello stabilimento “fantasma”. Le aspettative sono alte e i presupposti ottimi: per alcuni mesi un team di professionisti si confronta sulle possibilità dell’iniziativa nel tentativo di elaborare un quadro di ristrutturazione e riqualificazione del sito, l’iniziativa sembra proiettare la provincia in un clima quasi futuristico e all’avangu  ardia. La notizia inizia a circolare e in città si vocifera: cosa ne sarà della Viscosa? Il contenuto del progetto rimane un tema piuttosto fumoso ma ripetutamente nelle dichiarazioni dei responsabili emergono tre parole chiave: acqua, terra e aria, i tre elementi più caratterizzanti del territorio reatino. L’abbondanza di risorse idriche fa di Rieti uno dei più cospicui serbatoi di acqua dolce in Europa, le correnti ascensionali che convergono a Rieti ne fanno uno dei più rinomati centri al mondo per il volo a vela tanto che la città in passato fu sede dei Campionati Mondiali, infine la fertile terra della piana reatina, patria degli studi sperimentali del biologo Nazareno Strampelli. Dopo pochi mesi dal sensazionale annuncio però, come spesso capita, l’euforia scema e la notizia perde quella patina di freschezza e originalità. Tuttavia, i giochi non si sono ancora conclusi, il bando avrà scadenza effettiva soltanto nel 2025 e chissà che per allora i più ottimisti non l’avranno avuta vinta.

Pochi anni fa di fronte allo stabilimento è stata realizzata una pista ciclabile che si snoda nel verde della città, spesso passeggiando nelle tiepide sere estive capita di gettare l’occhio al di là della barriera di filo spinato che ci separa dalla fabbrica, chiedendosi quali misteri siano celati al suo interno. Ogni reatino che si rispetti ha ascoltato dai nonni, almeno una volta nella vita, un racconto che inizia più o meno così “quando lavoravo alla Viscosa…”, ora sta a noi scrivere il futuro di questa storia.

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