8 morti, centinaia di sfollati, città sommerse e strade ricoperte di fango; una stima di 2,5 miliardi di euro di danni; case, aziende e vite travolte dall’acqua dei fiumi esondati e dalla pioggia torrenziale. Questo è soltanto il parziale bilancio dell’alluvione che ha colpito la Toscana all’inizio di novembre.
Dopo un settembre e ottobre anomali per le temperature – le più alte registrate da quando se ne tiene il conto – e per assenza di precipitazioni, quasi 200 millimetri di pioggia sono venuti giù in un’area ristretta in 3 ore: un evento imparagonabile con l’esondazione dell’Arno avvenuta precisamente il 4 novembre 1966 ma dopo ben 10 giorni di pioggia incessante.
Per il
maltempo anche il Veneto ha dovuto fronteggiare frane e una notevole erosione delle coste, e solo l’attivazione del Mose ha messo al riparo Venezia dalla minaccia di inondazione. Nel resto d’Italia, soprattutto a causa di forti raffiche di vento, è scattata l’allerta arancione per 7 regioni. Soltanto lo scorso maggio l’Emilia-Romagna è stata colpita duramente da alluvioni e frane che hanno causato 16 morti e migliaia di sfollati in seguito al rovescio di 4,5 miliardi di metri cubi d’acqua.

Appare evidente come questi non siano più casi isolati, ma parte di un fenomeno più generale della cui gravità meteorologi ed esperti da anni stanno mettendo in guardia opinioni pubbliche e governi mondiali. Ma se gli appelli e gli allarmi cadranno ancora nell’indifferenza, il rischio di apparire come Cassandre inascoltate diverrà solo più concreto: ormai ci viene detto che non è più tempo di tappare buchi o riparare falle, perpetuando gli stessi errori del passato, piuttosto c’è la necessità di affrontare la questione climatica con una nuova presa di coscienza che spazzi via la vecchia mentalità legata a logiche emergenziali coniugando la macro dimensione del problema con la micro. Occuparsi della riduzione delle emissioni inquinanti a livello nazionale e globale, infatti, non deve porre in secondo piano la gestione e manutenzione del territorio: anche gli amministratori locali non si possono più sottrarre dalle proprie responsabilità nell’affrontare la crisi ambientale.

Proprio dell’adattamento e della resilienza nei confronti degli scenari peggiori, che il cambiamento climatico ci costringe a immaginare, tratta l’ultimo rapporto Onu sul clima.

COP e rapporti Onu sul clima

Il 2 novembre è stato pubblicato l’ultimo rapporto dell’Unep riguardante il cambiamento climatico. Fondata a Nairobi nel 1972 il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) opera in tutto il mondo con lo scopo di salvaguardare il futuro della società globale. L’agenzia internazionale non solo si pone l’obiettivo di monitorare e lanciare allarmi riguardo le cause e gli effetti del cambiamento climatico, ma soprattutto di formulare proposte concrete per agire e prevenire disastri ambientali, attraverso un corretto e sostenibile uso delle disponibilità naturali. Inoltre, è bene ricordare come l’impiego di risorse finanziarie e di tecnologie all’avanguardia è essenziale per uno sviluppo energetico e industriale che sia alternativo ed ecologico.

Nel corso degli anni, la stragrande maggioranza dei Paesi mondiali si è riunita nella Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) per ridurre le proprie emissioni di gas a effetto serra.
Infine, per la prima volta a Berlino nel 1995, i governi dei Paesi aderenti all’UNFCCC diedero il via alle prime negoziazioni sul clima con la Conferenza delle Parti (COP).

A livello globale, le conquiste più importanti sono state il Protocollo di Kyoto del 1997 (COP3) – in vigore soltanto dal 2005 – che vincolava per la prima volta giuridicamente i Paesi sviluppati a diminuire le proprie emissioni inquinanti, e l’Accordo di Parigi del 2015 (COP21) in cui la comunità internazionale si impegnava a mantenere la temperatura media mondiale al di sotto dei 2° C rispetto ai livelli preindustriali.

È prassi ormai che l’Unep faccia uscire un proprio rapporto prima dell’annuale Conferenza delle Parti: proprio in occasione dell’inizio dei lavori della COP28 che si terrà a Dubai per la fine di novembre, è stato pubblicato il rapporto Adaptation Gap Report 2023.

In quest’ultimo documento l’agenzia delle Nazioni Unite pone l’attenzione sul gap tra quello che dovremmo fare e quello che stiamo facendo riguardo gli effetti del riscaldamento globale, lanciando l’allarme sul ritardo: invece di accelerare, i processi di adattamento climatico stanno rallentando.
C’è ancora tempo, viene detto, ma è necessario adottare misure rapide e durature per l’abbattimento delle emissioni di CO2 e impedire l’aumento della temperatura del pianeta.
Il rapporto Unep ribadisce il ruolo cruciale delle fonti rinnovabili come l’eolico e il solare, la necessità di uno stile di vita sostenibile per l’ambiente che investe i modelli abitativi, alimentari e di consumo. Ma con l’Adaptation Gap Report, l’agenzia internazionale mette in luce un fronte nuovo e scoperto per molti Paesi, tra cui l’Italia: la mancanza di risorse economiche sufficienti per affrontare le crisi meteorologiche e ambientali, proponendo un nuovo fondo di compensazione per perdite e danni. Nello specifico il divario finanziario è superiore di oltre il 50% rispetto alle stime dei monitoraggi precedenti, e chi rischia di più – a livello di vite umane e danni economici – sono proprio i Paesi in via di sviluppo, non ancora sufficientemente preparati, soprattutto a livello finanziario, per le sfide ecologiche.

L’intero rapporto potrebbe essere riassunto con la seguente espressione: «mitigare per evitare l’ingestibile e adattamento per gestire l’inevitabile».

«Quand’è che il futuro è passato da essere una promessa a essere una minaccia?»

Citando lo scrittore statunitense Chuck Palahniuk, questa domanda parrebbe essere la personificazione di un’intera generazione, quella nata negli anni ’90.
Il mondo per il quale milioni di figli sono stati cresciuti dai genitori è diventato sempre più bersaglio di minacce esistenziali. Proprio a causa dei processi di globalizzazione che prometteva – e in effetti ha garantito – comunicazione, cooperazione, scambi e arricchimento a livello mondiale, anche le crisi hanno subito gli stessi effetti di condivisione su larga scala: dalle guerre alle crisi economiche, passando per le pandemie che viaggiano sui voli internazionali insieme a manager e operatori finanziari.
C’è la sensazione che sia arrivata l’ora di scontare i debiti del vecchio mondo, per questa ragione immaginare un futuro è sempre più difficile, se non in quanto scenario di catastrofi – quasi – inevitabili.

Questo apocalittico senso comune riguardo lo spirito dei tempi sembra egemonico anche nei modi in cui la crisi ambientale viene affrontata, a partire dai nomi delle associazioni di attivisti che si battono per la giustizia climatica e contro il riscaldamento globale: Ultima Generazione, i cui membri sono noti a livello mediatico per le azioni di disobbedienza civile nonviolenta che ha come bersaglio i vetri protettivi delle opere d’arte o il traffico degli automobilisti; o Extinction Rebellion, il cui simbolo è emblematicamente una clessidra che rappresenta il poco tempo rimasto a disposizione per il pianeta Terra e i suoi abitanti.
Ecco, quindi, che insieme alla depressione e all’ansia per un futuro socio-economicamente precario, fa la sua comparsa anche la “eco-ansia”, il disagio o paura per eventuali disastri ambientali.

Il pericolo di farsi risucchiare da un’idea di futuro già segnato, dove il riscaldamento globale, il «genocidio programmato» e l’estinzione della specie umana appaiono inevitabili e irreversibili, potrebbe essere quello di condannarsi all’immobilismo. Dall’altro lato, proprio in occasione della COP 21 di Parigi nel 2015, un gruppo di studenti ha invitato gli alunni di tutto il mondo a scioperare a favore di energia pulita e utilizzo di fonti rinnovabili: dall’esempio di Greta Thunberg, a partire dal 2018, il fenomeno di scioperi scolastici annuali e ricorrenti di venerdì si è imposto e diffuso a livello globale rivelando un inedito spazio politico composto da giovanissimi con uno sviluppato universo valoriale, sensibile e critico sulle tematiche ecologiche.

Una società ecologica

L’ultimo rapporto dell’Unep sollecita governanti e cittadini mondiali ad adottare nuovi paradigmi per affrontare la crisi ambientale abbandonando la mentalità emergenziale – che sembra dominare le logiche delle democrazie occidentali.
Ancora una volta, la più grande responsabilità ricade sui governi nazionali: il corretto adeguamento alle direttive delle COP, come dimostra il temporaneo ritiro statunitense dall’Accordo di Parigi sotto la presidenza Trump, è legato in maniera imprescindibile alla volontà dei singoli Paesi di rispettare la parola data.
Progressi e arresti nel percorso di sensibilizzazione e salvaguardia ambientale, conflittualità e convergenze tra organismi internazionali e interessi nazionali sono all’ordine del giorno. Il rapporto dialettico tra i Paesi sviluppati, sui quali ricade un debito morale e storico – oltre a una maggiore responsabilità tecnologica e finanziaria -, e quelli emergenti, che difendono il loro “diritto a inquinare”, rende difficile l’instaurarsi di una solidarietà globale, lasciando libero sfogo agli egoismi nazionali.
Forse, per questa ragione il semplice adattamento climatico non può essere una misura risolutiva della crisi.

Secondo il filosofo e storico ambientalista Murray Bookchin per affrontare i problemi ecologici è necessario andare alla radice dei problemi climatici: il modello di sviluppo capitalistico. La concezione stessa di espansione “illimitata” di mercato, attuata con una violenta e cieca prospettiva sul futuro, all’interno di un sistema concorrenziale dove lo sfruttamento del suolo, delle risorse e dell’ambiente è posto come un dogma, elimina qualsiasi spazio per la solidarietà.
La crisi climatica non può essere fermata tappando i buchi, ma richiede un cambio radicale di mentalità e azioni che mettano al centro della risoluzione della questione ambientale il rapporto stesso tra l’uomo e la natura, investendo il modello abitativo, di sfruttamento del territorio e, in generale, l’intero sistema economico-produttivo del capitalismo globalizzato: per Bookchin il primo passo per la realizzazione di una società ecologica è mettere in discussione il presunto diritto di dominio sulla natura da parte dell’uomo.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here