Nel 2017, quando Jordan Peele esordì come regista con il film Get Out, il pubblico si divise davanti ad un film che, pur definendosi horror, non lo era del tutto, o che comunque, se lo era, ridefiniva i canoni di un genere che da anni credevamo di conoscere.
Abituati infatti alle grandi saghe dell’horror come Paranormal activity, Insidious e The conjuring, non possiamo non rimanere stupiti davanti ad un film che non usa quegli stessi meccanismi (il jumpscare, il colpo di scena improvviso, che ci fa balzare sulla sedia), ma che anzi ne propone di nuovi, altrettanto efficaci.
L’efficacia dei film di Jordan Peele sta infatti proprio nel non cedere gratuitamente allo “spavento facile”, ma nel costruire lentamente e metodicamente una sensazione di ansia che nello spettatore non fa altro che crescere.
A questo si unisce un altro elemento che rende Jordan Peele un regista veramente rivoluzionario e originale nel suo genere: quella sensazione che il regista ci voglia comunicare altro, che nei suoi film ci sia un sottotesto e che in realtà sia proprio quel sottotesto la parte importante del racconto.
Jordan Peele l’ha fatto con Get Out, strappando un Oscar per la migliore sceneggiatura originale e una candidatura come miglior film, e l’ha riproposto, questa volta in modo più evidente e prepotente, con il film Us nel 2019.
La trama
Tempo presente. La famiglia Wilson, una benestante famiglia americana composta dalla madre Adelaide e dal padre Gabe, insieme ai due figli Zora e Jason, si sta recando nella casa al mare per le vacanze. In un panorama idilliaco in cui nulla sembra poter turbare il tranquillo soggiorno familiare, Adelaide è però perseguitata da un ricordo d’infanzia.
Quando era piccola, nel 1986, sulle stesse spiagge dove era andata in vacanza con i suoi genitori, Adelaide si era persa in un labirinto degli specchi e aveva avuto un incontro con una bambina che era proprio uguale a lei. Il fatto l’aveva traumatizzata talmente tanto che, ritrovata dai genitori, Adelaide si era rinchiusa in un fitto mutismo e solo dopo anni aveva ricominciato finalmente a parlare.
Dopo tanto tempo tutto sembra normale, se non fosse per quella strana sensazione che Adelaide si porta dietro, come se sentisse che di lì a poco quella bambina, ora adulta, l’avrebbe trovata di nuovo.
Tornati a casa dopo la giornata in spiaggia, in fondo alla quale Adelaide scorge quello stesso labirinto di specchi in cui si era persa da bambina, il racconto comincia a muoversi più velocemente, fino a precipitare: i Wilson scorgono sul loro vialetto quattro persone che ferme, fisse e immobili li osservano tenendosi per mano.
Barricatisi in casa i Wilson però non riescono a tenere lontani gli avventori fino a quando, costretti in soggiorno, si accorgono che questi sono dei loro doppi, in tutto e per tutto uguali a loro, solo più sporchi, vestiti con delle pesanti tute rosse e con delle forbici in mano.
Questi doppi, tutti muti ad eccezione del doppio di Adelaide, la cui voce emerge dalla sua gola come se non parlasse da anni, ma da anni sapesse già cosa dire, non sono venuti per derubarli. Sono venuti per sostituirsi a loro, per mettere i Wilson davanti alla realtà degli altri, di americani che, esattamente come loro nell’aspetto, non hanno però avuto le stesse possibilità.
Comincia ora una caccia fra gatto e topo in cui la famiglia Wilson, il mondo intero, ma Adelaide soprattutto, si ritroverà a fare i conti con quella bambina che aveva incontrato anni prima, quell’ombra che aveva vissuto tutto quello che aveva vissuto lei, ma sottoterra, nascosta, punita fin dalla nascita senza nessun apparente motivo.
Il sottotesto Us quando l’altro alza la testa
Il film di Jordan Peele si presenta subito come carico di simbolismo, più o meno evidente, e certo non bastano queste poche pagine per analizzarlo completamente. Alcuni rimandi, però, sono però più evidenti di altri.
Fin dall’inizio, infatti, il regista pone allo spettatore un elemento che è poi la chiave di lettura più importante del film: in ogni luogo, come ad inseguire i protagonisti, si manifesta il numero 11:11, con rimando ad un passo biblico che lo spettatore non può fare a meno di fiondarsi a cercare: «Perciò, così parla l’Eterno: ecco, io faccio venir su loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò».
Proprio come una calamità, i doppi, per anni ignorati, vengono su da quei tunnel sotterranei dove si erano nascosti per tutta la vita, quei tunnel che, come viene detto all’inizio del film, ricoprono tutti gli Stati Uniti come vene capillari, alcuni senza uno scopo preciso.
Vissuti senza aver mai visto la luce del sole, i doppi vivono le stesse vite dei fortunati in superficie, ma, invece di giocattoli morbidi e piacevoli, ne ricevono di taglienti e freddi, e invece di pasti caldi e deliziosi, sono costretti a mangiare carne di coniglio cruda.
Quello che mette in scena Jordan Peele, dunque, quel sottotesto che in Get Out rimaneva sensibilmente defilato e che in Us si mostra in tutta la sua prepotenza, ha l’aspetto di una vera e propria lotta di classe.
Con elementi che richiamano esplicitamente al comunismo – basti pensare al colore delle tute dei doppi e al nome del doppio di Adelaide, Red – il regista mostra un ribaltamento della società che riguarda in particolare gli Stati Uniti (è infatti difficile non vedere nel titolo sia il Noi, ma anche U.S.), ma che potrebbe essere esteso al mondo intero.
E infatti tutti noi potremmo avere il nostro “altro”, quella persona che, senza nessun apparente motivo, ha semplicemente avuto meno possibilità e non gli stessi privilegi, ma che, in fondo in fondo, è, come noi, con occhi, denti, mani, sangue. Come dice Red, «We were human too, exactly like you».
Sarà poi nel duello finale tra Adelaide e Red, col colpo di scena che ne consegue, che questa lotta si dispiegherà completamente in tutta la sua violenza ma, ed è questo uno dei passaggi più impressionanti del film, in tutta la sua grazia e quasi naturalezza, paragonata ad una danza: le due, poste una davanti all’altra, lottano senza tregua, l’una, Adelaide, volendo rivendicare quella vita che sente come sua di diritto, senza eccezioni; Red, invece, volendo prendersi ciò che non ha mai potuto avere, tagliando con quelle forbici che porta con sé il legame con il suo scomodissimo doppio che le impedisce di diventare persona.
Lottando l’una contro l’altra, però, si accorgono di lottare contro se stesse, o meglio, con una versione di loro stesse che, per quanto diversa, è diversa per le circostanze, ma uguale nell’anima, come quelle due bambine che si erano incontrate molti anni prima nel labirinto degli specchi, un labirinto sopra la cui entrata si leggeva, luminoso, Find yourself, scopri te stesso.