VIOLENZA SULLE DONNE: non “drammi familiari” ma reati penali
Femminicidio è una parola di recente formazione e indica l’omicidio preterintenzionale di una donna per motivi basati sul genere. Nel Il Devoto – Oli Vocabolario della lingua italiana (2009), a cura di Luca Serianni al termine viene riportata la seguente definizione: “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”. Ci sono state, e ci sono ancora, delle resistenze nell’introduzione di tale neologismo poiché alcuni continuano a vederla come una forzatura inutile e immotivata quella di distinguere il delitto in basse al sesso della vittima. Ancora una volta la situazione viene sottovaluta, dichiarata eccessiva e priva di valide motivazioni. Tuttavia la realtà è ben diversa poiché, secondo i dati riportati dall’ISTAT (Istituto Nazionale di Statistica), il numero delle vittime è ancora alto e le forme di violenza ancora troppe.
Barbara Rauch, Bruna Demaria, Rossella Cavaliere, Lorena Quaranta, Gina Lorenza Rota, Alessandra Cità, sono questi i nomi delle vittime di violenza e femminicidio dal inizio ufficiale del periodo di quarantena fino ai giorni scorsi. Queste sei donne si aggiungono alla lista dei femminicidi del 2020: da gennaio ci sono state complessivamente già 21 vittime attestate e denunciate. La storia di ognuna di loro ha sfumature e ombre diverse, ognuna di loro non ha avuto abbastanza coraggio per chiedere aiuto o abbastanza forza per reagire. L’emergenza in corso per l’epidemia da Covid-19 porta con sé altre emergenze concrete, gravi e spesso troppe silenziose. In molte case ogni giorno ci sono donne che vengono abusate, violentate e portate alla morte.
Prima del lockdown alcune di loro avevano un posto dove potersi rifugiare, dove trovare quell’aiuto che cercavano e la forza necessaria per provare a reagire. La situazione poi è cambiata perché le disposizioni ministeriali impediscono di lasciare quella casa considerata da alcune donne una prigione, un posto spaventoso. In questo periodo i femminicidi vengono dichiarati come “drammi della convivenza forzata” nel tentativo di giustificare qualcosa che accade continuamente, spesso in silenzio, senza ricevere mai la considerazione che merita. Molte delle case di rifugio sparse sul territorio, in seguito all’emanazione del decreto ministeriale del 9 marzo, non accettano nuovi ingressi per tutelare le persone presenti all’interno.
Fortunatamente anche in questi giorni alcuni degli enti sempre presente per queste vittime non si è tirato indietro: il primo aiuto si può chiedere al numero verde 1522, istituito dal Dipartimento per le Pari Opportunità, la cui assistenza indirizza al centro anti-violenza più vicino. Inoltre Elena Bonetti, Ministro per le Pari Opportunità e la Famiglia, il 3 aprile ha firmato il decreto straordinario per l’erogazione di 30 milioni di fondi anti-violenza dichiarando “Un’azione che, per quanto mi riguarda ho ritenuto doverosa, ben conoscendo il lavoro che i centri antiviolenza e le case rifugio stanno continuando ad assicurare in questi giorni di emergenza, superando con dedizione le molte difficoltà e i rischi legati al contagio. A loro va la nostra gratitudine ma deve prima di tutto rivolgersi ogni possibile sforzo per sostenerli.”.
Un altro punto di riferimento sicuro è D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza), un’associazione costituita nel 2008 a cui aderiscono 80 centri-anti-violenza in tutto il territorio nazionale. Può essere contattata telefonicamente o raggiungendo fisicamente il centro più vicino: sul sito sono disponibili tutti i recapiti e gli indirizzi dei vari punti di aiuto dell’associazione. In un comunicato stampa del 14 aprile 2020 l’associazione afferma che “Dal 2 marzo al 5 aprile 2020 i centri antiviolenza D.i.Re sono stati contattati complessivamente da 2.867 donne, di cui 806 (28%) non si erano mai rivolte prima ai centri antiviolenza D.i.Re. L’incremento delle richieste di supporto, rispetto alla media mensile registrata con l’ultimo rilevamento statistico (2018), pari a 1.643, è stato del 74,5 per cento”.
STORIA, LETTERATURA E LEGISLAZIONE
I femminicidi, le violenze e gli abusi sulle donne purtroppo sono stati sempre presenti nella storia. A partire da quello che riportano le fonti di antichi poeti latini. Ad esempio Svetonio nella sua opera Vitae Caesaris riportava i fatti secondo i quali l’imperatore Nerone commissionò l’omicidio della madre e della prima moglie Ottavia, così come dell’amante Poppea, presa a calci nel ventre e buttata giù per le scale in piena gravidanza dallo stesso imperatore. Livio nel suo Ab Urbe Condita ricordava come Sestio Tarquinio, ultimo re di Roma, violentò la nobile matrona romana Lucrezia, moglie di Collatino, la quale in seguito allo stupro decise di togliersi la vita in modo da “lavare con il suo stesso sangue la vergogna per ciò che aveva subito”.
Per arrivare poi nell’Ottocento e nel Novecento in cui sia la storia che la letteratura sono piene di eventi e racconti così atroci. Tuttavia, grazie al movimento femminista cominciarono ad esserci le prime battaglie per combattere contro le violenze subite quotidianamente dalle donne. Nel 1979 il movimento femminista inizia una raccolta firme (necessarie per la presentare una legge di iniziativa popolare) per una legge dedicata a contrastare, limitare e abolire gli abusi sulle donne basati prevalentemente su motivi di genere. Secondo il Codice Rocco del 1930 (codice penale adottato durante il ventennio fascista in Italia), infatti, la violenza sulle donne era soltanto un delitto contro la moralità pubblica e il buon costume, non un reato contro la dignità della persona. L’iniziativa del 1979 e molte altre delle proposte avanzate in questi anni, non giungono a conclusione.
Per una vera e propria legge bisogna attendere il 1996: questa dichiarava la violenza un reato contro la persona e introduceva l’inasprimento della pene a seconda della gravità del caso. Inoltre solo nel 1981 venivano aboliti altri due articoli del codice penale fascista del 1930: il delitto d’onore e il matrimonio riparatore. Il primo rendeva “giustificabili”, o comunque meno gravi, le uccisioni di donne in contesti matrimoniali o familiari qualora queste avessero intaccato l’onore o la reputazione dei propri uomini. La pena veniva notevolmente limitata, riducendosi a soli pochi anni di carcere. Il secondo, invece, faceva in modo che per il colpevole di violenza carnale il reato si estingueva se lo stesso si rendeva disponibile a sposare la vittima.
Il lungo percorso per eliminare e combattere la violenza sulle donne nella legislazione italiana non è ancora finito. Nel aprile del 2009 veniva approvata la legge che rende lo stalking un reato perseguibile penalmente. Il 19 giugno 2013 l’Italia approvava la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, nota come Consiglio di Istanbul: un trattato che propone di prevenire la violenza, favorire la protezione delle vittime e impedire l’impunità dei colpevoli. La più recente è la legge del 19 luglio 2019 per la Tutela delle vittime di violenza domestica e di genere la quale “[…]interviene sul codice di procedura penale al fine di velocizzare l’instaurazione del procedimento penale e, conseguentemente, accelerare l’eventuale adozione di provvedimenti di protezione delle vittime.”.
La costante presenza nella storia di eventi atroci legati alla violenza sulle donne non la rende più giustificabile o accettabile. Nonostante le numerose tutele, i molti tentativi di aiuto per superare la paura e per denunciare gli eventi di abusi domestici quotidiani, la situazione è ancora incontrollabile. Secondo l’ISTAT, c’è mediamente un femminicidio ogni tre giorni. L’Istituto Nazionale di Statistica dichiara, inoltre, che una donna su tre nel corso della vita ha subito una qualche forma di violenza: fisica, psicologica, economica, sessuale, stalking o molestie. Dietro la violenza esistono dei pregiudizi profondamente radicati nella cultura comune, i quali sono alla base delle difficoltà di poter davvero combattere la violenza.
La responsabilità è spesso data alle donne: si dà poco peso alle denunce, ritenute false, e di frequente, alla notizia di una nuova vittima, si afferma che se la donna avesse voluto si sarebbe sottratta alla violenza.
La lotta deve partire in primo luogo dalla coscienza delle persone e bisogna ascoltare le voci che, dopo tanti silenzi, hanno trovato la forza per gridare e chiedere aiuto, uscendo dall’ombra che le rendeva prigioniere.
Direttore responsabile: Claudio Palazzi