Correva l’anno 1992 quando 172 governi e 108 capi di stato o di governo, dal 3 al 14 giugno, si riunirono a Rio per un evento senza precedenti: il Summit della Terra. La United Nations Conference on Environment and Development (Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo), comunemente conosciuta come Conferenza di Rio, più in generale Accordi di Rio o ancora Summit della Terra, fu la prima conferenza mondiale sul cambiamento climatico. Questa ebbe l’indubbio merito di dar vita alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici in virtù della quale, dal 1995, si organizza annualmente la Conferenza delle Parti (COP). Se dunque è innegabile l’impulso che diede alla lotta ai cambiamenti climatici, riunendo quasi tutti i paesi del mondo per affrontare su scala globale una minaccia esistenziale in grado di porre fine alla civilizzazione così come oggi la conosciamo, d’altro canto è altrettanto evidente come a trent’anni da quell’accordo lo stato del pianeta non abbia fatto che peggiorare esponenzialmente richiedendo una profonda riflessione sul nostro atteggiamento, una riflessione non più procrastinabile.

Se il Summit della Terra fu il primo specificamente sui cambiamenti climatici, sua antesignana è la Conferenza di Stoccolma sull’ambiente umano del 1972. Quest’ultima però, se tutt’affatto lodevole per aver posto su scala globale per la prima volta nella storia il tema della protezione dell’ambiente, si può altresì affermare che fu un embrione ancora molto poco sviluppato della lotta al degrado ambientale, anche per via dello stato di avanzamento della ricerca scientifica sul tema in quegli anni. La Dichiarazione di Stoccolma nello specifico non cita il cambiamento climatico, la concezione di ambiente è ancora piuttosto antropocentrica e decisamente lontana dalla concezione dell’uomo come parte di un tutto molto più grande ed interconnesso quale è la biosfera, oltre ad essere ancora fortemente improntata alla crescita economica e all’aumento dei consumi come unico modo per aumentare la qualità della vita. Traspare manifestamente dunque tale concezione di ambiente dal testo della dichiarazione, nella quale l’essere umano è considerato “al tempo stesso creatura e artefice del suo ambiente”. Per di più evidentemente non si accenna ad una riduzione dell’utilizzo delle risorse non rinnovabili ma più che altro ci si auspica una generale gestione più consapevole di quest’ultime che permetta di utilizzarle per sempre e a tutto il mondo senza che queste si esauriscano mai. Seppur qualche mese prima, nel marzo 1972, fosse stato già pubblicato il Rapporto sui limiti dello sviluppo (The Limits to Growth) commissionato al MIT dal Club di Roma e fosse stata già messa in luce l’incoerenza di affermare la possibilità di una crescita economica illimitata su un pianeta con risorse limitate, nella Dichiarazione a tutto ciò non si allude. Nonostante inoltre fosse già operativa dal 1958 la celeberrima stazione di Mauna Loa, primo centro di misurazione continua della concentrazione di CO2 nell’atmosfera, come accennato, il testo della Dichiarazione è ad anni luce dal contestare modelli di produzione, modelli di consumo e tantomeno da parlare di CO2, gas climalteranti, effetto serra o cambiamento climatico. Nondimeno il dibattito scientifico nonché culturale era ancora ai suoi primissimi stadi di sviluppo e la stessa Conferenza di Stoccolma nacque piuttosto come risposta ad una serie di incidenti, avvenuti in gran parte in mare con sversamento di idrocarburi e più ampiamente come considerazione che i problemi legati ad un generale e non ben definito “ambiente” influiscono negativamente sullo standard di vita. Per tutta questa serie di ragioni si può forse essere parzialmente indulgenti nei confronti di chi cinquant’anni fa, seppur si fossero manifestate le prime avvisaglie, non agì.

Se dunque a Stoccolma, si potrebbe argomentare, non si era realmente coscienti della vastità del problema, a Rio furono cristalline le criticità ed altrettanto inequivocabili le soluzioni. Durante il Summit della Terra furono analizzati i modelli di produzione, fu resa palese la stretta connessione fra la combustione di combustibili fossili ed il cambiamento climatico, furono presentate le risorse di energia alternativa nonché di mobilità alternativa per porre rimedio ai drammatici problemi di salute caratteristici delle aree urbane correlati alle emissioni di inquinanti, non solo gas climalteranti, da parte dei veicoli. Ulteriore spazio fu dedicato alla crescente scarsità d’acqua che si sarebbe dovuta affrontare se fosse aumentata la concentrazione di CO2 nell’atmosfera. Come accennato, fondamentale fu la redazione della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico che istituì, a livello internazionale, l’obiettivo di “raggiungere la stabilizzazione delle concentrazioni dei gas serra in atmosfera a un livello abbastanza basso per prevenire interferenze antropogeniche dannose per il sistema climatico”. Nondimeno la Convenzione non ebbe alcun target di emissioni come obiettivo concreto nonché verificabile. Tuttavia, dal momento della ratifica, è prevista l’organizzazione annuale della Conferenza delle Parti (COP) per verificare lo stato di avanzamento nel raggiungimento dell’obiettivo e verosimilmente stabilire target o azioni giuridicamente vincolanti. Fra le COP più rilevanti in termini di efficacia e portata delle misure prese si ricorda evidentemente la COP 3 nell’ambito della quale fu definito il Protocollo di Kyoto che mise nero su bianco il target di riduzione delle emissioni da raggiungere. Ulteriore pietra miliare della lotta al cambiamento climatico non può che essere la più recente COP 21 che diede luogo alla stesura degli Accordi di Parigi, i quali statuirono il mantenimento dell’innalzamento della temperatura media mondiale rispetto ai livelli preindustriali entro 1.5°C.

A trent’anni, dunque, dal momento in cui fu resa chiara a tutti l’entità della minaccia, il rapporto per il 2022 dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, offre una drammatica prospettiva su quello che gli stati hanno effettivamente implementato per mitigare il cambiamento climatico e su quello che ci aspetterà in un futuro per nulla lontano. Nel momento in cui persino il limite stabilito nel 2015 dagli Accordi di Parigi degli 1.5°C è dato da molti climatologi pressoché impossibile da raggiungere in quanto da quando è stato accordato, le misure prese dalla comunità internazionale sono state ampiamente insufficienti, il rapporto dell’IPCC avverte come “con solo 1,5 °C di riscaldamento globale, molti ghiacciai in tutto il mondo scompariranno completamente o perderanno la maggior parte della loro massa; altri 350 milioni di persone sperimenteranno la scarsità d’acqua entro il 2030; e fino al 14% delle specie terrestri dovrà affrontare alti rischi di estinzione”. Il rapporto mostra come a causa del cambiamento climatico dal 1961 la produttività delle colture in Africa si sia ridotta di un terzo, nel prossimo decennio il cambio del clima costringerà alla povertà estrema fino a 132 milioni di persone, metterà a rischio la sicurezza alimentare e aumenterà la mortalità da caldo e malattie cardiache. Superando gli 1.5°C si scateneranno effetti tanto più gravi quanto consistente sarà il superamento e fenomeni spesso irreversibili quale ad esempio lo scioglimento del permafrost con il rilascio del metano ivi congelato. Ancora sono previste precipitazioni più estreme, ondate di caldo e siccità più intense e ricorrenti, tempeste più violente e innalzamento del livello dei mari.

L’ultimo rapporto dell’IPCC ci scuote nelle nostre più profonde certezze legate al dominante sistema di produzione e consumo analizzando come “il livello del prodotto interno lordo (PIL) è spesso equiparato ai livelli di benessere sociale, anche se come misura della produzione il mercato può essere una metrica inadeguata per misurare il benessere” o ancora come “collegare lo sviluppo alle modalità passate e attuali di crescita economica crea sfide significative per il CRD [sviluppo resiliente al clima], poiché implica che gli stessi processi che hanno contribuito alle attuali sfide climatiche, compresa la crescita economica e l’uso delle risorse e i regimi energetici su cui si basa, sono anche i percorsi per migliorare il benessere umano. Questo pone la resilienza climatica e lo sviluppo in opposizione l’uno all’altro”. Pertanto, a Trent’anni da Rio, l’unico atteggiamento da diffidare è quello di chi persiste con il business as usual o attende che qualcun altro risolverà le cose al suo posto in quanto il problema in fondo non lo riguarda più di tanto. Come affermato nella dichiarazione finale del Summit della Terra la responsabilità del cambiamento climatico e del degrado ambientale globale è comune e differenziata. Se dunque ciascuno in modo diverso, tutti ne siamo responsabili e tutti dobbiamo sforzarci il più possibile per tagliare drasticamente le emissioni di gas climalteranti, tanto a livello politico, quanto collettivo e individuale. In definitiva si sta chiudendo la finestra per rimanere entro gli 1.5°C ed evitare le peggiori conseguenze che cambierebbero aspetto alla Terra e alla civilizzazione così come la conosciamo. Con le parole del Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres all’apertura dell’ultima COP 26 di Glasgow “I sei anni passati dall’Accordo di Parigi sul clima sono stati i sei anni più caldi mai registrati.  La nostra dipendenza dai combustibili fossili sta spingendo l’umanità sull’orlo del disastro. Siamo di fronte a una scelta netta: o la fermiamo, o ci ferma. È ora di dire: basta.  Basta brutalizzare la biodiversità. Basta ucciderci con il carbonio. Basta trattare la natura come un gabinetto. Basta bruciare, trivellare scavare più a fondo. Stiamo scavando le nostre stesse tombe”.

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