Italiani nel Mondo: conversazione con un lavoratore in Libia ai tempi del covid-19
«Pronto? Mi senti?»
Sono da poco passate le 20 quando provo a mettermi in contatto con Settimio ma la linea è debole ed è già la seconda volta che tento di avviare una videochiamata tramite WhatsApp. La connessione va e viene ma è anche normale essendo venerdì: in Libia, la nazione in cui si trova il mio interlocutore, è infatti giorno festivo, come lo è per tutti i Paesi di cultura musulmana, e la linea internet, già di per sé intasata, oggi è anche a mezzo servizio.
«Sì, ti sento. Tu mi senti?»
E’ ormai diventato un rito, i primi minuti sono sempre così: sospesi tra l’attesa di una risposta e il ritorno in ritardo della voce.
Messo a posto il collegamento, sento però in sottofondo un forte chiacchiericcio, quasi un canto. Settimio mi chiede subito scusa spiegandomi che è da poco uscito dalla mensa e quello che sento è la salat al-maghrib, la preghiera dell’ora del tramonto dei lavoratori islamici presenti nel campo. Gli chiedo cosa abbia mangiato. «Il solito riso e pollo.» mi risponde un po’ sconfortato. Gli risparmio la descrizione della mia cena, allora.
Ci stiamo scambiando i classici convenevoli avviandoci alla solita chiacchierata sul tempo – nel deserto le temperature giornaliere è difficile che scendano sotto i 40° C e non sono rare le tempeste di sabbia – quando Settimio si interrompe.
«Salamu alaykum!»
Uno scambio rapido di parole in arabo e torna da me.
Non mi sorprendo molto. Mi aveva già spiegato come l’inglese in Libia sia la lingua che va per la maggiore sia tra i manager che tra la “classe dirigente”; e naturalmente è utilizzata per comunicare con i lavoratori che possono giungere da qualsia posto, persino da nazioni dell’Sud-Est Asiatico. Ma in genere i libici preferiscono parlare la loro variante dialettale dell’arabo: sono davvero pochi, invece, quelli che utilizzano ancora qualche parola in italiano.
Settimio è un lavoratore italiano che fa su e giù tra Italia e Libia da più di cinque anni. Inizialmente ha lavorato per una compagnia libica, dal management costituito perlopiù da italiani, impegnata nei servizi petroliferi. Le sue mansioni erano legate all’ambito di gestione dei lavori di manutenzione del campo, un sito petrolifero a Sudest di Bengasi. Col passare del tempo è arrivato a svolgere attività anche in ambito civile, al di fuori del sito.
Infine, da quasi sei mesi, Settimio è tornato in Libia cambiando compagnia: quest’ultima è a completa guida libica e da più di vent’anni svolge gli stessi servizi della precedente società in un centro nei pressi della cittadina di Gialo, sempre situato nel deserto a Sud di Bengasi.
I legami tra gli italiani e la Libia hanno radici profonde più di cento anni.
Dopo i rapporti dettati dalla dominazione coloniale di inizio novecento, a cui fece seguito il periodo degli orrori dell’imperialismo fascista, il nuovo Stato libico nato negli anni ’50, subì fin da subito un forte ascendente dall’Italia. Parte della classe dirigente del Paese africano e molti ruoli economicamente rilevanti erano infatti ricoperti ancora da italiani.
Fu solo in seguito alla rivoluzione di stampo nasseriana guidata da Mu’ammar Gheddafi che i rapporti tra Italia e Libia giunsero ad una rottura critica. Il nuovo leader arrivò a confiscare i beni degli italiani residenti in Libia, molti divennero esuli, e sempre il “Colonnello” avanzò nei confronti dell’Italia la richiesta di risarcimento per danni coloniali.
Eppure l’Agip, e dunque l’Eni, fu negli anni Settanta l’unica a rimanere operante nel Paese ricco di giacimenti di petrolio e gas, anche in seguito alla politica di nazionalizzazione delle compagnie petrolifere attuata da Gheddafi. Sono d’altronde gli anni dell’ambiguità della politica estera italiana che in campo internazionale riuscì a giocare su più tavoli.
I rapporti privilegiati tra la penisola e l’ex colonia trovarono dunque una nuova base di intesa e distensione nel Trattato di Bengasi del 2008 raggiunto dal Colonnello e l’allora Premier italiano Silvio Berlusconi. In quell’occasione fu lanciata persino l’idea di un partenariato tra le due nazioni.
Come sappiamo le cose sono precipitate in seguito alla guerra civile del 2011 che portò alla deposizione di Gheddafi. L’intervento militare, a cui partecipò anche l’Italia, ha fatto piombare la Libia nel caos e molte delle attività italiane presenti al di là del Mediterraneo sono andate incontro al fallimento.
Eppure, nonostante gli ultimi eventi abbiano ridisegnato gli equilibri all’interno del Paese, l’Italia rimane ancora il primo investitore in Libia e il principale mercato di esportazione per la Libia. La stessa Eni produce la maggior parte del gas nella nazione nordafricana ritagliandosi uno spazio di assoluto dominio rispetto agli altri competitor internazionali.
Ciò che è mutato drasticamente è, appunto, la presenza di lavoratori italiani in loco. Sia per le precarie condizioni di sicurezza sia per la scarsità di attività disponibili, gli italiani in Libia sono davvero pochi.
Difatti, nell’organizzazione dei lavori nel campo, nel corso della sua permanenza libica, Settimio ha avuto sotto la sua gestione più di 200 lavoratori. Solo alcuni provenienti da Ghana, Ciad e altre nazioni subsahariane; il grosso della manodopera, tra elettricisti e operai semplici era ed è invece rappresentato tuttora da pakistani e thailandesi. Nessun italiano.
Gli domando se è ancora in contatto con Mureed, il collega pakistano rimasto nella vecchia compagnia.
«Impossibile non sentirlo. Mi ha mandato un messaggio qualche giorno fa per l’ultima festa islamica.»
Si riferisce all’Id al-Adha, i giorni di festa in cui, ogni anno, i musulmani compiono il pellegrinaggio alla Mecca. Quest’anno a causa dell’emergenza sanitaria la celebrazione di uno dei cinque pilastri dell’Islam è stato molto differente dal solito. Come accaduto per i riti della Pasqua cristiana.
Gli chiedo com’è la situazione legata al covid-19 lì in Libia.
«Qui al campo siamo rimasti in pochi. Molti operai sono tornati nei loro Paesi di origine già da diversi mesi. E’ tutto bloccato da marzo, ma chi è rimasto sta bene. Anche dagli altri campi le notizie che arrivano sono positive: la possibilità di contagio in queste condizioni, in ambienti così controllati e isolati è quasi impossibile.»
Essendo uno dei responsabili del campo, Settimio è rimasto per organizzare il lavoro in vista della ripresa delle attività. Ma fuori dal sito, lontano dal deserto, le cose sono diverse invece.
«Dalle voci che arrivano da Tripoli pare che la situazione sia ancora in divenire. Si dice che alcuni quartieri e zone della città abbiano adottato il lockdown per timore di focolai, ma misure di questo tipo durano poche settimane. Non ti so dire neppure se vengano davvero rispettate.»
«Noi qui in Italia abbiamo avuto il collasso del sistema sanitario nella fase più calda dell’emergenza. La Libia in che modo è attrezzata di fronte a una simile evenienza?»
«Il sistema sanitario qui è già disastrato dai tanti anni di guerra civile e si regge solo grazie a delle eccellenze dall’estero e al supporto di organizzazioni umanitarie internazionali come Medici senza frontiere o Emergency.
So per esempio che la Libia ha stretto una convenzione medica con i Paesi vicini, specialmente con la Tunisia per quanto riguarda la regione della Tripolitania. In questo modo molti possono godere di un minimo di servizio sanitario: ovviamente tutti gli altri che non possono spostarsi o affrontare un viaggio, o semplicemente usufruire della convenzione, sono costretti a rivolgersi alle strutture nazionali libiche. A quel che ne rimane, perlomeno.»
Il servizio sanitario libico, come d’altra parte il resto dei servizi e delle strutture pubbliche, era difatti già al collasso ben prima di quest’ultima emergenza.
Come abbiamo ricordato, in Libia si combatte una guerra civile dal lontano 2011. Da più di cinque anni il Paese si trova spaccato in due: ad Est, nella Cirenaica, c’è il centro di comando del generale Haftar che controlla le città di Bengasi e Tobruq; ad occidente, invece, con sede a Tripoli è insediato il cosiddetto Governo di Accordo nazionale presieduto da Serraj.
Le misure adottate già da fine marzo, agli iniziali segnali di crisi e alla registrazione dei primi casi di positività, sono state le medesime per entrambe le fazioni: chiusura delle scuole, di alcuni uffici e di molti mercati. Il governo di Tripoli ha persino liberato più di 400 detenuti per evitare che l’affollamento nelle carceri provocasse focolai ingestibili.
Il tema della carceri è centrale nella storia della Libia.
Non solo perché sono ancora di attualità le condizioni disumane dei centri di prigionia in cui vengono detenuti i migranti che attraversano l’Africa per raggiungere le coste del Mediterraneo, dalle quali poi tentare il viaggio della speranza per arrivare in Europa. Ma anche perché i principali eventi della Libia contemporanea hanno avuto come protagonista il carcere di massima sicurezza di Abu Salim di Tripoli.
Nel 1996 un gran numero di detenuti – più di un migliaio – fu trucidato. Secondo molte organizzazioni umanitarie la prigione ha rappresentato negli anni un luogo di gravi violazioni dei diritti umani da parte delle guardie carcerarie. Il governo libico ha sempre respinto tali accuse e una protesta vera e propria, sia interna che internazionale non è mai esplosa.
Nel 2010, in pieno clima di Primavera araba, l’arresto dell’attivista e avvocato Fathi Terbil, che aveva rappresentato le famiglie delle vittime del massacro del ’96, fu uno dei primi momenti di protesta che poi sfociò nella rivolta generale. Allo scoppio della guerra civile lo stesso penitenziario fu preso d’assalto dai rivoluzionari, e la liberazione dei prigionieri assunse un tale significato da rendere l’evento il preludio della caduta del regime del Colonnello Gheddafi.
Già in altre occasioni, Settimio ha avuto modo di parlarmi della forte svalutazione del Dinaro, la moneta locale, a causa della mancanza di stabilità politica. E’ facile immagine, dunque, l’impatto che i lockdown di mezzo mondo hanno avuto sulla società libica fortemente dipendente dalle sue risorse energetiche. L’interruzione della domanda ha fermato l’intero indotto petrolifero già devastato dalla crisi militare.
«Dalle notizie che giungono qui nel deserto la situazione non è delle migliori nelle città. Il rifornimento ad alcuni prodotti alimentari è diventato paragonabile a quello di beni di lusso: sia a causa della limitata disponibilità sul mercato che per l’aumento dei prezzi.
I libici con cui sto in contatto mi raccontano di frequenti blackout o di limitazione dell’energia elettrica in orari specifici. Molte città, anche la stessa Tripoli, hanno difficoltà ad accedere persino all’acqua. Gli acquedotti erano colpiti già durante la guerra, in realtà: alla faccia di qualsiasi diritto internazionale.
«Il rischio che la crisi sanitaria diventi una crisi alimentare per te è concreto, quindi?»
«Per quel poco che ne so, sarebbe un miracolo se non ci fosse quantomeno la forte possibilità.»
«E i libici che pensano del loro futuro?»
«Da quel che ne ho potuto vedere, i libici sono indolenti, e si curano poco del domani. Piuttosto, se parli con qualcuno di loro, anche solo il tassista che trovi fuori dall’aeroporto in confidenza ti dirà che rimpiange i tempi di Gheddafi.»
Ma d’altra parte, le nostalgie sono un elemento imprescindibile che accompagna la caduta di qualsiasi regime. A maggior ragione se la nazione in questione precipita nel caos di una devastante guerra civile pluriennale, il Paese è economicamente in ginocchio e il tessuto politico e sociale è ridotto a pezzi.
Sotto il regime del Colonnello, seppure precaria, esisteva una compattezza e unità. Crollato il potere autoritario e militare del governo centrale di Tripoli, sono riemerse con tutta la loro carica distruttrice gli antagonismi intestini e le rivalità tribali.
Attualmente la Libia è in mano a gruppi armati, le cosiddette milizie, che sono la cosa più lontana da un corpo di forze dell’ordine di uno Stato di diritto.
«Invece di chiederti il passaporto o il visto, da te vogliono sapere soltanto se hai dei contanti o un cellulare.» mi racconta Settimio che ha avuto la sfortuna di fare l’incontro con un gruppo di miliziani qualche anno fa.
Mi avvio verso la fine della conversazione con Settimio: deve andare in camera ad avviare il climatizzatore per riuscire a superare l’afa della notte del deserto. E là il telefono non prende.
Lo informo di avere letto di recente un intervento del ministro degli esteri italiano, Luigi Di Maio, il quale auspicava una rapida ripresa delle attività di produzione di petrolio e gas rimanendo la Libia uno dei principali fornitori energetici per l’Italia.
«Hai sentito qualcosa tu? Quali sono le ultime lì?»
«Qualcosa finalmente si sta muovendo. Da giorni qui stiamo attendendo il rientro di un grosso numero di lavoratori che sono ancora bloccati fuori, come ti ho raccontato.»
«Bloccati sempre a causa del covid?»
«Sempre per il coronavirus, sì. E poi tu conosci bene le condizioni dell’aeroporto di Tripoli.»
Dal 2014 l’aeroporto internazionale di Tripoli è stato teatro di guerra, tanto che è attualmente inagibile. Per raggiungere la Libia l’unico aeroporto internazionale sul versante occidentale è quello di Mitiga, sempre situato a Tripoli; ma questo è assolutamente inadeguato a svolgere quella funzione di grande scalo internazionale, sia per la struttura che per il personale impiegato.
«Una volta rientrati, i lavori potranno finalmente ripartire. Si spera.» continua Settimio «La compagnia ha vinto recentemente anche una gara d’appalto per una grande opera: qui come sempre di lavoro ce n’è, e anche tanto; ma i tempi sono lunghi.
L’unica cosa certa è che questo Paese non può fare a meno del petrolio, e del gas e delle sue risorse, che allo stesso tempo rappresentano la ricchezza e la rovina per la sua gente.»
«Quali sono le tue sensazioni? Secondo te ripartirete già entro fine mese?» Gli domando.
«Eh chi può dirlo? Inshallah!»
Inshallah, “se Dio vuole”.
E’ il segno definitivo che lo spirito di inerzia del popolo libico pare averlo conquistato.
Direttore responsabile: Claudio Palazzi