Donald Trump farà fatica a dimenticare il 2020, un anno in cui ha visto sgretolarsi prima i risultati economici raggiunti, poi la vittoria alle elezioni ed infine la sua figura politica, con il secondo impeachment a simboleggiare una moderna “damnatio memoriae”. Il suo successore, l’ex vicepresidente Joe Biden, dovrà raccoglierne l’eredità, ripartire da quanto di buono è stato fatto, ma soprattutto evitare di ripeterne gli errori. Da Trump a Biden: Make America Great Again Direttore responsabile: Claudio Palazzi
Trump lascia la presidenza dopo quattro anni in cui ha cercato di mettere in pratica lo slogan “Make America Great Again”, simbolo della sua vittoria contro Hillary Clinton nel 2016, attraverso una politica di stampo nazionalistico, basata sul principio “America first” e su grandi promesse, come quella di costruire un muro al confine con il Messico. Sul piano economico i risultati sono arrivati, almeno nel triennio 2017-19, ma sono stati vanificati da un anno terribile sotto ogni aspetto: nei primi tre anni di mandato il PIL era cresciuto ad una media del 2.4% annuo, ma è poi crollato del 3.7% nel 2020; allo stesso modo il tasso di occupazione era passato dal 59.7% di inizio 2016 al 61% di inizio 2020, per poi precipitare al 51% ad Aprile (minimo dal 1948) e risalire al 57.4% a Dicembre; discorso opposto per il tasso di disoccupazione, che dal 5.1% nell’Aprile 2016 era sceso al 3.5% lo scorso Gennaio, ma è poi cresciuto al 14.8% (massimo dal 1948) in piena pandemia ed infine è risceso fino al 6.7%. I fatti degli ultimi mesi hanno provato fortemente gli Stati Uniti e, nonostante la loro ripresa, ne hanno minato, forse definitivamente, la leadership mondiale.

Nemico pubblico

Nell’ambito di una politica estera molto complessa e a volte contraddittoria, il tema centrale è stata la contrapposizione con la seconda potenza mondiale, la Cina di Xi Jinping. Se negli anni 90 si era affermata l’idea che integrare la Cina nel sistema di mercato globale l’avrebbe forzata a rispettare le regole internazionali, Trump ha fin da subito cambiato rotta, preferendo l’isolamento all’integrazione. Il governo americano ha quindi avviato una guerra dei dazi, imponendo tariffe su prodotti cinesi per un valore di 360 miliardi di dollari, danneggiando sì le imprese cinesi ma anche i consumatori americani. Inoltre, è stata proibita la vendita di tecnologie americane ad imprese cinesi, tra cui il colosso Huawei, e sono state introdotte regole contro le aziende accusate di essere coinvolte nei sistemi di sorveglianza e soppressione della minoranza musulmana degli Uiguri nella regione dello Xinjiang. Pechino ha risposto annunciando l’introduzione di regole e sanzioni contro le aziende che rispetteranno le restrizioni americane; ciò ha posto le stesse aziende in una scomoda posizione tra due fuochi e potrebbe spingerle a fare pressione sul nuovo governo per allentare la tensione, nel tentativo di evitare di dover rinunciare ad uno dei due maggiori mercati globali.

Il contrasto USA-Cina ha toccato molti temi, tra cui la gestione della pandemia e le proteste di Hong Kong, e si è riflettuto anche nelle relazioni internazionali dei due paesi, dove però la strategia isolazionistica di Trump ha essenzialmente fallito. Gli Stati Uniti hanno creato poco e disfatto molto: hanno imposto dazi contro i paesi europei, hanno messo in discussione la NATO e l’OMS, si sono ritirati dalla “Trans Pacific Partnership” (Tpp), che avrebbe coperto il 40% del PIL mondiale ed escluso la Cina, si sono ritirati dagli accordi di Parigi sul clima, si sono ritirati dagli accordi con l’Iran sul nucleare. Al contrario, la strategia di Pechino è stata improntata su una maggiore apertura verso l’esterno e ha portato ad un accordo con l’Unione Europea sugli investimenti e alla firma della “Regional Comprehensive Economic Partnership” (Rcep), un accordo di libero scambio tra 15 paesi dell’Asia Pacifica che vale il 30% del PIL mondiale e costituisce il maggiore blocco commerciale al mondo.

Accordi e disaccordi in Oriente

Di tutt’altro stampo è stato l’approccio americano in Medio Oriente, con un’inversione di tendenza rispetto sia a Bush, che era intervenuto in Afghanistan contro Al-Qaida e in Iraq contro Saddam Hussein, che a Obama, il quale, pur realizzando un parziale disimpegno, si era dovuto confrontare con la primavera araba, col conflitto in Yemen e con la lotta all’Isis. Trump, invece, si è spesso vantato di non aver iniziato nuove guerre, una delle cose positive che i suoi sostenitori, e non solo, gli riconoscono. Effettivamente, durante la sua presidenza, gli Stati Uniti non hanno dato il via a nuovi conflitti armati, ma ciò non significa che non ci siano andati vicino e che non abbiano commesso atti di guerra. In seguito all’utilizzo di armi chimiche da parte del regime siriano di Assad, nel 2017 Trump ha ordinato il lancio di 59 missili sul territorio siriano, provocando 15 morti, e un anno dopo, insieme a Francia e Gran Bretagna, ha autorizzato un secondo raid, sganciando un totale di 105 missili. Anche i rapporti con l’Iran sono stati caratterizzati da una forte tensione, culminata nell’uccisione del generale Kasem Soleimani, in risposta all’attacco del 27 Dicembre 2019 contro l’ambasciata statunitense a Baghdad, che ha fatto seriamente temere l’inizio di un conflitto. Con la Corea del Nord le cose non sono andate molto meglio e, nonostante lo storico incontro nel Giugno 2019 al confine con la Corea del Sud, Kim Jong-Un ha ribadito, alla luce dell’elezione di Biden, di considerare gli Stati Uniti il nemico numero uno e di voler aumentare ancora il già considerevole arsenale nucleare nordcoreano.

Nonostante tutto, nel 2020 Trump è riuscito a realizzare un vero disimpegno delle truppe americane dall’Afghanistan, sebbene dopo un elevatissimo numero di bombardamenti negli anni precedenti. Con gli accordi di Doha del 29 Febbraio è stato deciso il ritiro di 3400 soldati americani e il rilascio di 1500 talebani, una scelta che, insieme al ritiro delle truppe dal nord della Siria, ha ridotto l’influenza statunitense nella zona in favore di Russia e Turchia. Sono nettamente migliorati, invece, i rapporti con Israele, a partire dal riconoscimento di Gerusalemme capitale, e si è arrivati agli accordi di Abramo, con i quali Bahrein ed Emirati Arabi Uniti hanno normalizzato i rapporti con Israele.

Nel tentativo di trovare un contrappeso all’egemonia cinese in Asia, Trump ha rafforzato la relazione degli Stati Uniti con l’India, grazie anche al suo buon rapporto con il Primo Ministro Narendra Modi, con cui condivide la visione nazionalista. Dopo essere stato eletto nel 2014, Modi è stato riconfermato nel 2019 ed ha avviato un processo di rafforzamento del proprio potere, attraverso provvedimenti che, secondo gli osservatori, hanno portato il paese ad un regresso democratico. Mentre le relazioni con la Cina sono peggiorate (l’India è l’unica delle maggiori potenze asiatiche a non aver preso parte al Rcep), il Primo Ministro indiano si è impegnato al Quadrilateral Security Dialogue (Quad), un forum informale con Stati Uniti, Australia e Giappone. Proprio il Quad potrebbe rivelarsi uno strumento a favore del neopresidente Biden, dal quale ci si aspetta una maggiore attenzione per il rispetto dei diritti umani nella zona, tenendo anche conto del fatto che la neovicepresidente Kamala Harris, la cui madre è indiana, si è già detta preoccupata per la situazione instabile nel Kashmir, zona al confine tra India e Pakistan.

Cosa è rimasto

L’obbiettivo americano di isolare la Cina non è stato raggiunto, ma la colpa non è solo di Trump. Quasi tutte le altre potenze mondiali hanno stretto accordi con Pechino, mostrando chiaramente come le questioni economiche abbiano prevalso su quelle morali, sul rispetto dei diritti umani, sui principi democratici. In un mondo governato dall’incertezza, la Cina si affaccia al 2021 più forte che mai, dopo essere riuscita a crescere economicamente, nonostante una pandemia globale, e senza un vero e proprio rivale che possa contrastarla. Gli Stati Uniti sono ancora la prima potenza mondiale, ma non lo saranno ancora a lungo: secondo l’ultimo rapporto annuale del Cebr, la crescita di Pechino è stata nettamente superiore a quella di Washington e lo sarà anche nei prossimi anni, fino ad arrivare al fatidico sorpasso nel 2028, cinque anni in anticipo rispetto le precedenti previsioni.

Biden eredita un paese lacerato, diviso e carico di tensione, dopo dieci mesi segnati, tra le altre cose, da una pandemia, dalle proteste antirazziste, da un’elezione molto discussa, dall’assalto al Congresso. Il neopresidente dovrà calmare al più presto le acque e guidare il paese alla ripresa economica. Ci si aspetta un aumento della spesa per il welfare, il sostegno agli investimenti nelle industrie americane, specialmente nel settore tecnologico, e la creazione di nuovi posti di lavoro. In ambito internazionale, Biden seguirà la linea del suo predecessore, in merito al non coinvolgimento in nuovi conflitti e alla contrapposizione con la Cina, ma lo farà utilizzando toni più pacati. Dovrà poi cercare di riaffermare la credibilità e la leadership americane, riprendendo la strada del multilateralismo e riavvicinandosi alla NATO e agli alleati (Unione Europea su tutti). Paradossalmente, il vero compito di Biden sarà rendere l’America “great again”.

Fin dalla loro nascita, gli Stati Uniti sono stati più volte tra i primi a sperimentare eventi e cambiamenti che poi si sarebbero riproposti nel resto del mondo, tra cui l’indipendenza dagli imperi coloniali, l’affermazione della democrazia, le crisi economiche. In un mondo globalizzato come quello odierno, non si può pensare che ciò che accade in un paese rimanga ad esso isolato senza avere effetti e ripercussioni all’esterno. L’assalto al Congresso, per quanto favorito dal malcelato sostegno di Trump e dall’inerzia della polizia, è il risultato di anni in cui le istituzioni democratiche hanno via via perso credibilità, alimentando dubbi, sospetti e teorie di complotto. La vecchia classe dirigente, l’establishment, non ha colto il cambiamento dei tempi, ha sottovalutato Trump e il suo utilizzo dei social per fini politici e non è stata in grado di proporre un’alternativa credibile. Senza la pandemia, probabilmente oggi staremmo parlando del secondo mandato di Trump e non di un nuovo presidente che, come già evidenziavano in estate i giornali americani, ha avuto come principale merito quello di aver atteso e sfruttato il suicidio politico del suo avversario. Le immagini di Capitol Hill ci ricordano che la democrazia non è scontata e che, se non si danno i giusti motivi per credere in essa, può essere messa in discussione. Se e quando ciò accadrà, ci saranno molte domande, a cui bisognerà dare delle risposte. E sarà meglio che siano convincenti.

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