Il difficile, bellissimo, complicato mondo dei videogiochi
Presi in mano per la prima volta una console nel lontano anno 2000. Si trattava di un Game Boy Color viola, andato perduto da molti anni con mio grande rammarico. La cartuccia inserita in quel Game Boy era, coerentemente con la mania di quegli anni, Pokémon Giallo. C’era una Play Station in casa mia (la prima, quella grigia) ma era per me un oggetto quasi sacro, non la toccavo. La accendevo, però, quando mio padre voleva fare una partita. Con quella piccola console grigia, che ha segnato la mia infanzia e quella di milioni di altre persone della mia generazione, ho vissuto opere che non solo mi hanno fatta innamorare dei videogiochi, ma che hanno in parte formato la mia personalità. Ho fatto molti passi da allora in quel senso, pur rimanendo a livello amatoriale. Specialmente negli ultimi tre anni il mondo dei videogiochi, grazie ad Internet, mi si è svelato per quello che è: un mondo complesso fatto non solo di storie, musiche e personaggi, ma anche di tecnica, denaro e controversie.
Siamo nel 2019, l’industria dei videogiochi muove un fatturato che solo due anni fa si attestava sui 116 miliardi di dollari, confermandosi come l’industria dell’intrattenimento leader in materia di vendite. Solo in Italia nel 2018 le console hanno effettuato vendite da 426 milioni di euro, i videogiochi da 1,3 miliardi. In molte case è presente una console, a volte più di una, si tengono ogni anno conferenze e fiere dedicate. Nonostante sia un’industria molto giovane rispetto ad altre, è fiorente più che mai. Si potrebbe pensare che sia ormai un mondo integrato nella quotidianità come lo sono il cinema e l’industria dei libri. Ma non è del tutto così, soprattutto in Italia.
Il rapporto tra l’Italia e i videogiochi è, per ora, molto difficile. Nonostante siano presenti sul suolo nostrano case di sviluppo indipendenti di un certo livello, nei confronti di questo medium è tuttora diffusa una forte diffidenza, che si traduce a volte in disprezzo e ostilità. Non per tutti è così, naturalmente: per molte delle persone nate negli anni Ottanta e negli anni successivi i videogiochi sono una realtà scontata e nota, che sia come hobby saltuario o come vera e propria passione. Per le generazioni precedenti, però, è un’altra faccenda. Molto spesso si rifiutano anche solo di accettare che l’industria videoludica sia qualcosa di serio e che dà peraltro lavoro a centinaia di migliaia di persone. Etichettano i videogiochi come “cose da bambini”, “stupidaggini” (per evitare la volgarità), il tempo passato con una console qualunque è sempre e comunque tempo “sprecato”, che sarebbe stato preferibile spendere uscendo con amici, leggendo, studiando o facendo qualsiasi altra cosa. E’ ritenuto da molte di queste persone più accettabile trascorrere un intero pomeriggio guardando la televisione piuttosto che un’ora o due con un qualsiasi videogioco. Sono passati otto mesi dalle dichiarazioni dell’ex Ministro dello Sviluppo Economico Calenda, il quale su Twitter definiva i videogiochi “droga” e li accusava di rendere i bambini incapaci di giocare e leggere (è buffo il fatto che fu grazie ai videogiochi che io imparai molte parole italiane e le mie prime parole in inglese), addirittura di “atrofizzare” loro il cervello. Con tutto il rispetto, ma io e mio fratello stiamo a contatto con i videogiochi da quando eravamo bambini, eppure mi permetto di dire che non abbiamo affatto il cervello “atrofizzato”, sappiamo leggere benissimo e abbiamo molte altre passioni oltre ai videogiochi. E non ci aggiriamo in casa come zombie agonizzando nell’attesa della prossima “dose”.
Non solo in Italia, però. Anche all’estero sono recentemente avvenuti fatti simili. Ricorderete probabilmente la tragedia della scuola superiore di Parkland in Florida, avvenuta nel febbraio 2018. Per chi non ricordasse il fatto, il 14 febbraio 2018 l’ex studente della Parkland Nicolas Cruz fece irruzione nel suo ex liceo e aprì il fuoco dopo aver attivato l’allarme antincendio, uccidendo diciassette persone e ferendone altrettante. Questa ennesima tragedia riaprì il dibattito sulla vendita massiva di armi da fuoco negli Stati Uniti, vendita la cui regolamentazione è sempre stata impedita dall’NRA (National Rifle Association), la più grande lobby statunitense delle armi. Ma c’è un dettaglio che non tutti sanno: la colpa di questa strage, secondo le dichiarazioni di allora del presidente Donald Trump, non fu della grande disponibilità di armi o dello stragista. No, dichiarò che era colpa dei videogiochi. Più precisamente dichiarò che i videogiochi (e anche i film) violenti inducevano la violenza nei ragazzi. Il legame tra violenza e videogiochi è un tema dibattuto su cui sono stati fatti e si fanno tuttora numerosi studi e ricerche, che di volta in volta appoggiano o negano l’esistenza di tale nesso causale. Certo, è altamente plausibile che essere esposti a lungo a videogiochi violenti possa abbassare l’empatia e suscitare nel tempo comportamenti aggressivi. Io per prima sostengo l’importanza di far rispettare il PEGI, il sistema di classificazione dei videogiochi in base a fasce d’età e contenuti delicati, e io per prima sono fermamente contraria a far accedere i bambini a videogiochi con tematiche violente e pesanti. Mi sento però di dire che, a mio parere, la possibilità di comprare una pistola o un fucile senza problemi crea molto più rischio di strage che giocare ad un qualunque Call Of Duty.
Da bambina guardavo sempre mio padre giocare a Resident Evil 2, pietra miliare degli anni Novanta con protagonista un poliziotto che deve fuggire da una città invasa da zombie, ma non sono diventata una violenta. La conseguenza più grave che ho avuto è stata l’essere diventata con gli anni un’amante dell’horror.
C’è chi pensa persino che i videogiochi non possano trattare determinate tematiche. Ciò nasce dall’antico pregiudizio che vuole i videogiochi come opere esclusivamente dedicate ai bambini e che quindi debbano essere esenti da temi delicati. Ricordo bene due casi a riguardo. Il più recente risale al dicembre 2017. La polemica nacque attorno ad un trailer del videogioco Detroit Become Human, titolo che tratta di una società futuristica in cui gli androidi sono senzienti e vivono a servizio degli esseri umani. Tale trailer aveva come protagonista Kara, una dei tre androidi protagonisti, che vede il proprio padrone picchiare, in preda all’alcol, la propria figlia bambina. In quell’occasione il deputato conservatore britannico e presidente del comitato di Cultura, Media e Sport Damian Collins dichiarò al Daily Mail che la violenza sui minori non dovrebbe mai essere trattata in un videogioco, poiché in questo modo verrebbe banalizzata. Esther Rantzen, fondatrice dell’associazione Childline, ha appoggiato la dichiarazione del deputato invitando persino Sony a ritirare il gioco o a censurare tale scena, in quanto avrebbe potuto far stare male i bambini. E’ chiaro che tali dichiarazioni nascono dal tuttora diffuso pregiudizio che vuole appunto i videogiochi come opere dedicate solo all’infanzia e di puro intrattenimento e che quindi non dovrebbero parlare di temi quali, in questo caso, la violenza sui bambini. Non importa che le trattino con serietà e drammaticità, non possono farlo e basta perché il solo trattare tali temi in un videogioco li rende banali, li rende “un gioco”. Mi permetto di dire che tale obiezione è completamente senza senso. Se i film e le tanto amate serie possono trattare qualsiasi tematica, perché non dovrebbero poterlo fare i videogiochi? Come esistono film di ogni genere e dedicati ad ogni fascia d’età, esistono videogiochi di qualsiasi tipo. Esiste il già citato PEGI, riportato sulle confezioni, che indirizza in maniera chiara l’acquirente segnalando le tematiche trattate nel videogioco e l’età più consona ad esso. Esistono videogiochi leggeri che vogliono solo far passare qualche ora di divertimento, adatti ai bambini, come esistono videogiochi che raccontano storie e personaggi complessi e affrontano in maniera degnissima tematiche mature. Un esempio illustre è la saga cult Metal Gear Solid, che affronta con serietà e attenzione tematiche quali la Guerra Fredda, la politica, l’energia nucleare e i suoi rischi, il controllo delle informazioni e la psicologia dei soldati, oltre ad essere una saga dal tono fortemente antimilitarista. Un altro esempio è la saga horror Silent Hill in cui, soprattutto nel suo secondo capitolo, l’ambientazione (la nebbiosa città di Silent Hill) e i mostri che in essa vivono non sono altro che rappresentazioni metaforiche dei disagi e dei disturbi psicologici del protagonista e dei personaggi che egli incontra, similmente a quanto fece George Romero nel 1968 con il suo film L’alba dei morti viventi, in cui gli zombie rappresentavano l’uomo moderno schiavo del consumismo. Entrambe queste saghe sono figlie degli anni Novanta, ma andando in tempi recenti troviamo ad esempio Bloodborne, titolo uscito nel 2015, che pesca a piene mani dall’immaginario orrorifico creato da Lovecraft fondendo tematiche “metafisiche” (come quella della conoscenza) a scenari sanguinari e poetici; innumerevoli sono inoltre i titoli la cui componente narrativa è fondamentale e di alto livello, esempi celebri sono la notissima saga Final Fantasy ed altre come Dragon Age e Fallout, titoli questi ultimi che, oltre a creare un intero universo narrativo, si basano su trame costruite anche sulle scelte morali del giocatore (appoggiare una o l’altra fazione politica, schierarsi dalla parte di un personaggio o di un altro), su personaggi complessi e su un’elaborata lore (termine inglese con cui si intende la parte di storia del mondo di gioco precedente all’avventura e che viene narrata al giocatore in maniera indiretta). Talvolta i videogiochi si spingono a toccare la filosofia, come accade nella trilogia Bioshock, che nei suoi primi due capitoli fa una feroce critica alla filosofia oggettivista di Ayn Rand e nel terzo si scaglia contro il razzismo e il fanatismo religioso cristiano.
Il secondo caso, ancora più eclatante, è stato quello il cui ricordo mi ha ispirato nella scrittura di questo reportage. Dobbiamo tornare indietro nel tempo di ben tredici anni, nell’autunno 2006. All’epoca ero una undicenne spesso con la console in mano (che non era più il Game Boy Color viola ma un Game Boy Advance SP color rubino, ancora in mio possesso) e al telegiornale si parlava di un videogioco per Play Station 2 che non conoscevo, intitolato Rule Of Rose. Rule Of Rose fu oggetto persino di un’ordinanza di un gruppo di deputati, che richiese al Parlamento Europeo di vietare la vendita in Europa di tale titolo in quanto istigava alla violenza sui minori. Dalle immagini trapelate del gioco si vedeva infatti un gruppo di bambini intenti a seppellire viva un’altra bambina ridendo. Rule Of Rose venne esposto all’opinione pubblica, oltre che con servizi nei telegiornali, anche con un articolo su Panorama con copertina dedicata, in cui era riportata la scritta “Vince chi seppellisce viva la bambina”. Tale articolo risultò poi copiato, con alcune modifiche, da una recensione presente sul forum GamesRadar. Rimasi molto incuriosita da quel videogioco ma con gli anni ne persi le tracce (ad oggi Rule Of Rose è molto difficile da reperire ed è venduto a prezzi altissimi su Internet come titolo da collezione), solo dopo molto tempo scoprii la verità. In quel titolo, la cui vicenda ritengo sia uno dei simboli dell’ignoranza relativa al mondo dei videogiochi e degli effetti che essa ha, non c’era nessuna gara “a chi seppellisce viva la bambina”. Viene raccontata la storia di una ragazza che rivive nei suoi ricordi, distorti dal tempo e dal dolore, gli anni passati in un orfanotrofio dove era vittima dei soprusi di un gruppo di coetanei, e tra le varie violenze che le inflissero c’è anche quella di essere sepolta viva, peraltro non a morte. Una storia di bullismo estremo, in sintesi, un racconto di certo doloroso e pesante, ma quanti film e libri esistono che raccontano la violenza ma che, invece che essere accusati di istigazione alla violenza, vengono celebrati come opere d’arte? Anche Arancia Meccanica, quando arrivò nei cinema, suscitò scandalo, ma nessuno oggi si sognerebbe di vietarne la vendita. Lolita di Nabokov, il mio romanzo preferito in assoluto, tratta la pedofilia in maniera elegante e mai volgare ma lo fa dal punto di vista del carnefice, I Turbamenti del Giovane Törless di Musil contiene dinamiche molto simili a quelle trattate in Rule Of Rose (in quel romanzo si accenna in maniera velata ma chiara anche a ripetuti stupri subiti da uno dei personaggi), ma sono entrambi giustamente celebrati come capolavori della letteratura. Rule Of Rose non è di certo un capolavoro del suo genere, ma ritengo che i videogiochi abbiano diritto a trattare tali tematiche, se lo fanno con rispetto. Tutti i videogiochi sopracitati sono ovviamente indirizzati ad un pubblico adulto che, oltre a poterne capire e apprezzare le trame, può sostenere certe tematiche potendone trarre riflessioni e persino informazioni prima sconosciute. Di certo non sta all’industria videoludica o agli autori di videogiochi autocensurarsi per evitare che un bambino possa vedere qualcosa che potrebbe spaventarlo o farlo star male, ma è compito dei genitori o degli eventuali tutori accertarsi che il bambino acceda solo a videogiochi adatti alla sua età. Il fatto che spesso tale controllo non ci sia per ignoranza sulla tematica o a volte, purtroppo, per semplice pigrizia, non può e non deve limitare la creatività degli autori andando a danneggiare sia gli autori sia chi può e vuole usufruire di prodotti più adulti. Se qualcuno facesse un simile discorso sul cinema sostenendo che dovrebbero essere distribuiti in DVD e in Blu-Ray e trasmessi nelle sale e in televisione solo i film sicuri per i bambini si parlerebbe subito, e a ragione, di censura. E’ necessario che ci siano, in questo ambito, più informazione e consapevolezza e meno pregiudizi.
I videogiochi, forse più del cinema, sono aperti ai cambiamenti sociali. La tematica dell’omosessualità, ad esempio, difficilmente affrontata in maniera consona nei film di Hollywood, è presente nella mia “memoria videoludica”, per non citare l’esempio banale che è la saga The Sims, dal 2008, anno in cui entrò in casa mia l’appena uscito Dragon Age: Origins. Nella monumentale guida strategica di tale gioco ci sono, tra le molte informazioni, schede sui personaggi principali e viene spiegato passo per passo come poter realizzare, se desiderata, una storia d’amore tra il/la protagonista e i vari personaggi, incluse storie d’amore omosessuali. Tali personaggi in più non sono macchiette ma hanno personalità a tutto tondo e ognuno di essi ha la propria storia, le proprie idee, i propri drammi e i propri principi irrinunciabili, si relazionano fra loro anche scontrandosi e discutendo. La possibilità di intraprendere storie d’amore non eterosessuali resterà nei successivi capitoli della saga e nella saga fantascientifica “sorella” Mass Effect, creata dalla stessa casa di sviluppo. In questo anno si è però arrivati secondo me ad un punto importante in tal senso. Nello scorso giugno la casa di produzione polacca CD Projekt Red ha annunciato che nel suo prossimo titolo, Cyberpunk 2077, in uscita ad aprile 2020, sarà presente la possibilità per il giocatore di creare un/a protagonista transgender o nonbinary, cioè che non si riconosce nel sistema binario uomo/donna. Tale dichiarazione ha suscitato polemiche in cui si accusava la casa di produzione di essere asservita al politically correct, ma anche moltissimo, e da me condiviso, plauso. Innanzitutto ritengo sia importante e giusto che persone transgender e nonbinary si vedano rappresentate in un’opera di così larga diffusione, in un mondo in cui le storie “di massa” raccontano quasi esclusivamente di persone cisgender ed eterosessuali; in più offre molta più libertà di scelta ai giocatori, fattore che non è mai negativo. In tal senso è da segnalare il fatto che alla scorsa conferenza E3 (Electronic Entertainment Expo, la più grande fiera annuale di presentazione di videogiochi e console) è stato annunciato che il famoso attore Keanu Reeves, apertamente omosessuale, interpreterà Johnny Silverhand, uno dei personaggi principali del gioco, notizia che ha suscitato un enorme entusiasmo da parte di Internet e del pubblico della conferenza, in cui lo stesso attore si è presentato di persona sul palco. Peraltro non è la sola partecipazione di un attore importante ad un videogioco di quest’anno: nel titolo Death Stranding, in uscita il prossimo novembre ed ideato da Hideo Kojima, la stessa mente creativa dietro la saga Metal Gear Solid, saranno presenti personaggi interpretati da Norman Reedus, attore della serie The Walking Dead, dal famoso attore danese Mads Mikkelsen e dall’attrice Léah Seydoux, mentre i registi Guillermo Del Toro e Nicolas Winding Refn presteranno solo il proprio volto. E’ una pratica ormai consolidata da anni, quella di “ospitare” celebri attori nei videogiochi (un esempio meno recente è quello di Beyond: Two Souls, in cui la protagonista è interpretata da Ellen Page), ma che quest’anno ha avuto particolare spicco grazie a questi celebri nomi del cinema.
Dopo tanta positività voglio chiudere però con una nota seria. Di certo i videogiochi non sono nocivi per loro natura, ma possono esserlo. Come tutte le cose, possono diventare una droga. Nel maggio di quest’anno l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ufficialmente incluso nella lista delle malattie il gaming disorder, ovvero la dipendenza dai videogiochi. Dalla mia esperienza su Internet ho visto che la notizia è stata accolta da un lato con una certa preoccupazione da parte degli appassionati, i quali hanno visto in tale decisione dell’OMS una nuova possibile via per i detrattori di screditare i videogiochi e demonizzare i videogiocatori; dall’altro lato è stata vista in maniera positiva. Ci tengo però a specificare un questione. I videogiochi possono diventare oggetto di dipendenza, ma non danno dipendenza di per sé. Se infatti le sostanze stupefacenti, la nicotina e gli alcolici agiscono chimicamente sul cervello e sono per propria struttura fautori di dipendenza, i videogiochi diventano oggetto di dipendenza perché usati come mezzo per distaccarsi da realtà non gradevoli, come ad esempio una situazione familiare difficile o in casi di bullismo scolastico o lavorativo. In tali situazioni una persona vuole distogliere il pensiero da ciò che le accade, isolarsi per sfuggire alla sofferenza e i videogiochi, con la loro forte componente di coinvolgimento, offrono tale opportunità, scatenando a volte un circolo vizioso in cui i problemi non vengono risolti (o addirittura si aggravano) e la persona si isola sempre di più sprofondando nella dipendenza. Ma appunto, non sono una droga, possono diventarlo così come lo può diventare qualsiasi altra cosa, come ad esempio lo shopping, l’attività sportiva e la televisione. Dopo questa digressione secondo me importante, dico che ritengo più che giusta la decisione dell’OMS, in quanto il riconoscimento del gaming disorder come malattia permetterà di offrire a chi ne soffre assistenza psicologica e cure adeguate. Non è la sola problematica legata al mondo videoludico: un altro tema importante e spesso ignorato è quello del crunch, ovvero dei turni massacranti di lavoro a cui sono sottoposti gli sviluppatori nei mesi appena precedenti l’uscita di un titolo sul mercato, problema a cui sono soggette tutte le case di sviluppo e che purtroppo non ha ancora trovato una soluzione. Bisogna parlarne poiché credo che se si è davvero appassionati di qualcosa si deve avere la maturità di accettare non solo gli onori ma anche gli oneri, si deve riconoscere ed ammettere l’esistenza di eventuali problematiche legate alla propria passione e si devono appoggiare le iniziative che vogliono risolverle. Si deve essere fan consapevoli, insomma, perché chi ama davvero qualcosa ne deve vedere anche i difetti, non solo i pregi, in modo da far sentire la propria voce e, nel proprio piccolo, contribuire al miglioramento. Non solo perché le storture e le ingiustizie vanno corrette in quanto tali ma, mi permetto di dire in tono provocatorio, anche perché sono sfide. E chi ama davvero i videogiochi ama la sfida.