Le fotografie di Matteo Salvini, leader della Lega Nord e Ministro dell’Interno, in versione DJ circolate in questi giorni, non potevano fare altro se non scatenare una grande quantità di reazioni contrastanti. Già infatti era stato ripreso settimane fa, sulla spiaggia di Milano Marittima, con il figlio sulla moto d’acqua della polizia e le polemiche non si sono fatte attendere. Le ultime invece raffigurano il ministro al Papeete Beach, stabilimento balneare sempre nella stessa zona, salito in consolle con l’Inno di Mameli come sottofondo e uno stuolo di giovani a ballare in suo onore.

Subito sono arrivati i parallelismi, soprattutto dall’opposto schieramento politico, con le immagini dei vari leader del passato, Aldo Moro, Togliatti, ma anche Andreotti, De Gasperi e Berlinguer che stridono se paragonate a quelle arrivate dal Papeete pochi giorni fa.

Fino a pochi decenni or sono, infatti, il politico doveva presentarsi come qualcosa di “altro” rispetto al cittadino medio, e, pur essendo un rappresentante del popolo italiano, ne doveva rappresentare prevalentemente gli aspetti più morigerati e casti, spesso scontando però una certa distanza dagli usi dei “rappresentati” (distanza che spesso era per altro rivendicata e ricercata).

In ogni caso, al tempo, la politica era soprattutto impersonale, legata perciò prevalentemente allo schieramento politico e agli interessi che questo difendeva, piuttosto che alla personalità del singolo leader. Non era necessario, e forse era addirittura controproducente, per un Aldo Moro o un De Gasperi mostrarsi in qualche modo simili all’uomo comune, esibirsi in costume a torso nudo in spiaggia, proprio perché in qualche modo si voleva superare l’ostentazione del corpo tipica del ventennio fascista e della sua personalizzazione della politica.

A partire dagli anni 80, però, con l’intrusione sempre più prevalente dei mass media nella vita (politica e non) del nostro paese, i leader politici iniziarono a sentire sempre più l’esigenza di creare un “personaggio” da vendere agli elettori.

Non è certo una tendenza unicamente italiana: da Barack Obama a Pyramid Beach, a Vladimir Putin a caccia dello squalo, capi di governo e importanti esponenti della politica a livello globale si sono preoccupati della loro immagine e di come questa trasparisse agli occhi del grande pubblico.

Tale processo, in Italia, raggiunse naturalmente l’apoteosi con Silvio Berlusconi a cavallo tra gli anni 90 e 2000. Indimenticabili le immagini che lo ritraggono, nell’estate del 2004, ad accogliere Tony Blair a Porto Rotondo col capo ornato da una bandana.

E proprio l’ex premier sembra essere un punto di riferimento per Matteo Salvini, almeno per quanto riguarda le modalità comunicative. Ma se Silvio Berlusconi rappresentava, per certi versi, un modello per tanti italiani in un periodo di relativa stabilità economica come quello degli anni 90 e inizio 2000, Salvini rappresenta lo specchio del paese in un periodo del tutto diverso, pieno di difficoltà, di tensioni sociali, disoccupazione e generale smarrimento.

Berlusconi era ciò che gli italiani volevano diventare o che comunque invidiavano: un imprenditore di successo che, in fondo, faceva quello che “tutti avrebbero fatto al suo posto”. Salvini non ha le sue stesse possibilità: non è il padrone del Milan, ma ne è un semplice tifoso; non tende al lusso sfrenato, ma allo svacco; non si circonda di escort, ma di cubiste; gli è toccato un riciclare un partito di seconda mano, piuttosto che fondarne uno tutto suo che girasse intorno alla sua personalità.

Insomma, Salvini non è la causa di una qualche “degenerazione morale” degli italiani, ma semmai un abile comunicatore in una particolare congiuntura storico-economica nella quale ad essere degenerate sono le condizioni di vita degli italiani che ora si adattano a sopravvivere a rimanere a galla, piuttosto che ad inseguire lo sfarzo e il successo, come negli anni passati.

É evidente come il vero nodo da sciogliere, se si ha a cuore, per qualche motivo, un ritorno ad uno stile più sobrio da parte dei nostri politici, sia quello di rimettere al centro la politica stessa, intesa in senso impersonale, come definizione di valori, di fini che la comunità politica deve perseguire, piuttosto che semplicemente puntare il dito contro il comportamento del singolo politico a caccia di consensi.

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