Con la dichiarazione del 6 ottobre 2022, Joe Biden ha dato inizio al processo di decriminalizzazione del possesso di marijuana e di perdono delle precedenti condanne per possesso di marijuana a livello federale. Al fianco di questa sua netta presa di posizione in ambito di legalizzazione della cannabis, il presidente statunitense pone particolare attenzione al fenomeno razzista che trova, nella lotta alla droga, la sua origine e la sua conseguenza. Con l’abolizione della schiavitù e con la cessazione del regime di segregazione razziale si può pensare che ormai il razzismo statunitense si riduca alle ingiustizie e violenze perpetrate da singoli individui, ma non è così purtroppo. Il razzismo sistemico è ancora una realtà tangibile e resistente, ma assume nuove forme, contemporanee e molto più subdole.
L’ACLU (American Civil Liberties Union) considera gli effetti penali e civili nei confronti di coloro che usano o commerciano droghe, attuati dal governo americano dalla seconda metà del 1900, un “nuovo Jim Crow”.

Il razzismo sistemico prima: Jim Crow

Quando si parla di Jim Crow, si fa riferimento ad un periodo ben preciso della storia americana, che va dal 1877 agli anni ‘60. Dopo l’abolizione della schiavitù voluta da Abraham Lincoln, mediante l’approvazione del Tredicesimo Emendamento nel 1865, la discriminazione nei confronti delle persone nere cambia faccia. Viene instaurato un sistema di caste razziali e le persone nere vengono relegate ad uno status di cittadini di seconda categoria, posizione giustificata e alimentata dalle correnti di pensiero popolari del tempo. Darwinismo sociale, Eugenetica, Fisiognomica sono solo alcune delle teorie, poi ideologie a tutti gli effetti, che ribadivano non solo l’esistenza delle cosiddette razze all’interno della specie umana, ma la necessaria prevaricazione di una, quella bianca, sull’altra, quella nera. Numerosi politici si opponevano espressamente all’integrazione sociale della comunità nera, temendo la possibile “contaminazione della razza bianca”. Quotidiani e riviste facevano comunemente uso di appellativi dispregiativi, con i quali ancora oggi le persone nere sono costrette a fare i conti, e le loro narrative anti-blacks contribuivano a consolidare la deumanizzazione, la visione di sub-umano da parte delle persone bianche, di chi bianco non era. Addirittura l’elemento più innocente della vita quotidiana, i giochi per bambini, ridicolizzavano e soggiogavano la persona nera, trasformata in un bersaglio da colpire o in un personaggio parodistico, finalizzato unicamente alla derisione. Le leggi e la società si sviluppavano quindi intorno al principio del “Separate but Equals”, separati ma uguali, principio che a primo impatto potrebbe trasmettere un qualche senso di libertà e di autodeterminazione delle singole comunità, il quale però altro non faceva che stabilire una vera e propria segregazione razziale. Scuole, bagni, ospedali, mezzi di trasporto, luoghi lavorativi separati, sulla base del colore della pelle (si ricordi il celebre episodio di Rosa Parks, la quale sull’autobus si rifiutò di cedere il posto a sedere ad una persona bianca). In teoria, come disposto dagli Emendamenti 13,14 e 15, alle persone nere era da garantire la stessa protezione legale delle persone bianche.

Ma, nella pratica, la realtà era molto differente: le restrizioni delle libertà condizionavano ogni aspetto della vita della comunità nera e i modelli di comportamento da rispettare pervadevano anche le sfere più intime della quotidianità. I motoristi bianchi avevano la precedenza a qualunque incrocio, le persone bianche andavano servite per prime, nel caso eccezionale in cui siedano allo stesso tavolo di persone nere, e ovviamente un uomo nero non poteva avvicinarsi, neanche accendere una sigaretta, ad una donna bianca, poichè con tutta probabilità avrebbe dovuto affrontare un linciaggio pubblico per una presunta violenza sessuale. Questo modello di società ha la sua affermazione ufficiale, la sua legittimazione, con la sentenza Plessy v. Ferguson del 1896, con la quale la Supreme Court stabiliva che i luoghi di bianchi e neri andassero mantenuti distinti, con la semplice condizione che fossero giuridicamente assicurati alle persone nere le libertà e i servizi garantiti alle persone bianche. La sostanza si dimostra però molto diversa dalla forma, infatti gli spazi ed i trattamenti riservati alle persone nere erano qualitativamente coerenti con il loro status di cittadini di seconda categoria.

Gli Stati Uniti vedono convivere in se stessi due società, nettamente distinte: una che godeva della migliore offerta di servizi e vantaggi, l’altra che si vedeva privare sistematicamente di ciò che secondo la costituzione le spettava. La manifestazione forse più lampante della solo formale, falsa uguaglianza riservata alle persone nere si osservava nel voto. Nel 1868, l’approvazione del Quattordicesimo Emendamento decretava l’estensione dei diritti civili ai cittadini neri, ma ciò non si tradusse in un diritto di voto effettivo. Vennero infatti messe in atto innumerevoli pratiche e normative per ostacolare l’esercizio del voto, dal mero impedimento fisico di entrare nel seggio, ad imposte da pagare per essere autorizzati a votare (misura che effettivamente colpiva solo la popolazione nera, ultima nella scala economica, che non poteva permettersi tale costo).

Il razzismo sistemico dopo: War on drugs

Con il Civil Rights Movement degli anni ‘60, la condizione degli afroamericani, almeno a livello giuridico, cambia significativamente. Le leggi che prima, anche a livello statale, ostacolavano il diritto di voto vengono rimosse, insieme a molte altre che espressamente negavano la parità fra cittadini bianchi e neri. Ciò che però permane, e che permea le istituzioni, il sistema della giustizia e la politica americana in generale, è il razzismo sistemico, che si manifesta però con modalità e premesse molto differenti, che non sono subito individuabili da un occhio poco attento. Le politiche razziste dell’età contemporanea non sono scritte nero su bianco ma si annidano nelle consuetudini, nei tecnicismi, nelle strategie che indirettamente riportano le persone nere ad uno stato di subalternità, paragonabile al regime segregazionista di Jim Crow. L’espressione più palese di questa componente discriminatoria si ha infatti con la War on Drugs.

Dal 1971, la droga è il “nemico pubblico numero 1” degli americani, così come la definiva il presidente repubblicano Richard Nixon, ed effettivamente come tale è stata disciplinata: le parole chiave sono eradicazione, interdizione, incarcerazione. Viene infatti adottato un regime punitivo estremamente duro nei confronti di coloro che la commerciano, che ne sono in possesso o che più semplicemente ne fanno uso. A livello penale, le persone che commettono crimini legati alla droga ricevono sentenze estremamente severe, pur trattandosi di reati non violenti (e che, statisticamente, per la maggior parte sono di semplice possesso). Sia a livello statale che federale, sono previste delle sentenze minime obbligatorie anche al primo arresto per i reati che hanno a che fare con la droga. Le prigioni statunitensi sono, ad esempio, piene oltre la loro capacità di condannati per crimini non violenti legati alla marijuana, che devono scontare sentenze sproporzionatamente lunghe per il tipo di reato commesso. Negli ultimi decenni, se da una parte la percentuale di incarcerazioni per crimini non legati alla droga è rimasta stabile, quella dei crimini legati alla droga è aumentata notevolmente, dando un contributo sostanziale al record mondiale degli USA per numero di carcerati (negli USA vive il 5% della popolazione mondiale, ma gli incarcerati statunitensi costituiscono il 25% della popolazione mondiale delle carceri).
La giustizia nei confronti dei crimini per droga è fortemente politicizzata, e ne sono un esempio evidente le leggi dello stato di New York: la pena per il possesso di 454 grammi circa di marijuana (categorizzata come droga leggera) è la detenzione in prigione dagli uno ai tre anni minimo, a un massimo di sette anni, cioè la stessa sentenza riservata ai reati di compravendita illegale di arma da fuoco, e di possesso di un dispositivo esplosivo o di una pistola automatica. La vendita, invece, di 454 grammi di marijuana comporta la stessa pena che si ha nel caso di vendita illegale di 10 armi da fuoco, dai 3 ai 15 anni. Questo approccio tratta la marijuana come se fosse pericolosa quanto, se non più, le armi da fuoco.

Le sanzioni dei reati per droga però non si riducono solo alle misure penali, ma comportano anche gravi ripercussioni sulla condizione civile e socioeconomica della persona. Negli Stati Uniti la punizione per un reato continua anche dopo la fine della sentenza. Una persona condannata infatti, sia per il più leggero reato connesso alla droga, sia nei casi in cui non si impone la detenzione o sia anche stata scontata la pena, si potrebbe vedere negare la custodia dei figli, diritti di voto, opportunità di lavoro, prestiti bancari per iniziare una propria attività, concessioni in licenza (cioè possibilità di far valere il proprio diritto d’autore su proprie invenzioni o produzioni), strumenti di assistenza per gli studenti, accesso ad abitazioni popolari.

Per colpa di quello che potrebbe essere, nel caso più comune e leggero, un arresto per possesso di marijuana, anche per ragioni mediche, si verificherebbe una vera e propria limitazione dei diritti civili e una negazione delle pari opportunità per tutti, relegando i condannati di reati per droga ad uno status di veri e propri cittadini di serie B. Ed è proprio dietro a questo fenomeno, che a prima vista potrebbe sembrare solamente una dottrina giuridica esageratamente severa nei confronti dei reati per droga, che si nasconde in realtà uno dei nuovi volti del razzismo sistemico, che va a sostituirsi a Jim Crow negli anni ‘70.
Ciò che avviene in ogni altro ambito della giustizia e della lotta alla criminalità, non si sottrae certamente alla disciplina della droga, cioè che, in poche parole, le persone non bianche (specialmente nere e latine) vengono punite sproporzionatamente di più.
Un’indagine di ACLU, nella quale si focalizza l’attenzione sugli arresti per crimini legati alla marijuana fra il 2001 e il 2010 (che furono ben 8.2 milioni, l’88% dei quali per semplice possesso), dimostra l’enorme differenza di trattamento fra persone bianche e persone nere. Constata infatti che, pur facendo un uso di cannabis più o meno uguale in percentuale, le persone nere vengono arrestate ben 4 volte tanto rispetto alle persone bianche, pur costituendo una fetta minore della popolazione statunitense. In alcuni stati si raggiungono addirittura una frequenza di arresti per le persone nere 7 volte maggiore di quella delle persone bianche.

Ciò evidenzia un concreto bias razziale e razzista, che non è dato, come si potrebbe pensare, da una maggiore base di fumatori all’interno della popolazione nera, poiché come già si è ribadito prima questa è uguale entro la popolazione bianca. In realtà ciò è provocato dall’estremo overpolicing (cioè l’eccessiva presenza di corpi di polizia in determinati quartieri, anche se non ve n’è il bisogno, e l’aggressiva risposta a fattispecie che costituiscono reati minori e non violenti) dei quartieri neri, oltre alle sentenze penali mediamente più lunghe per le persone nere rispetto alle persone bianche, per gli stessi crimini.

Questi due fenomeni non possono essere spiegati se non con il razzismo ancora saldamente radicato nelle istituzioni americane.
Questo cosa comporta?
Sommando la discriminazione civile e socioeconomica, disposta successivamente ad una condanna, alla grande sproporzione di arresti a svantaggio delle persone nere, si delinea una realtà totalmente opposta all’immagine diffusa di eccellenza democratica degli Stati Uniti.

Secondo la Drug Policy Alliance:
Un bambino afroamericano su nove ha un genitore in carcere. Difficilmente una situazione familiare di questo tipo permette di sperare in un miglioramento della propria condizione, dovendo far fronte a tutta una serie di problematiche economiche e legate al benessere psichico dei figli.
Una persona nera su tredici, fra coloro che hanno compiuto i 18 anni, è oggetto di interdizione legale (disenfranchisement), viene cioè privata del diritto di voto, come conseguenza ad una condanna, che perdura anche dopo l’uscita dal carcere. Per capire meglio la gravità di questo provvedimento, in Italia tale pena accessoria è riservata ai condannati all’ergastolo e a coloro che devono scontare minimo 5 anni di reclusione per reati non colposi, ma tale privazione di alcuni diritti civili termina, in ogni caso, al terminare della sentenza.

Questi dati dimostrano ancora di più quanto possa essere efficace la War on drugs come strumento politico: al momento, il numero di persone nere incarcerate (792,000 circa) costituisce il 38% della popolazione della carceri, pur costituendo solo il 13% della popolazione americana. In più, sono 1,4 milioni i cittadini afroamericani (cioè il 13% della comunità afroamericana) che si vedono privati del diritto di voto, e in più di dieci stati tale percentuale raggiunge il 20%. Si tratta di 1,4 milioni di voti che hanno potenzialmente il potere di rovesciare un’elezione, ma che verranno negati ai loro titolari per tutta la vita. Entrano perciò in gioco gli interessi politici di entrambe le parti, sia di coloro che hanno solo vantaggi a mantenere la situazione così com’è, sia delle persone che intendono mettere fine a questo regime.

Tolto quindi il velo di Maya dagli Stati Uniti, come terra di libertà e di opportunità, dell’American Dream, ci si accorge che la democrazia statunitense è tutto fuorché perfetta, ma ha anzi innumerevoli difetti ed ostacoli concreti all’effettivo godimento dei propri diritti, specialmente se non si fa parte della maggioranza bianca della popolazione. Se, anzi, ci si rifà al concetto di razzismo strutturale, il razzismo americano si può dire non sia frutto di un sistema politico democratico che funziona male, ma di un sistema politico discriminatorio che funziona benissimo e che fa esattamente quello che vuole fare.

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