Tutti siamo stati a scuola: primaria, secondaria di primo e secondo grado. Durante le lezioni c’era chi seguiva ogni singola parola dei professori, chi scarabocchiava sul diario, chi ridacchiava con un compagno. Tutti abbiamo “respirato” quelle sensazioni delle ore vissute nelle aule. Ricordiamo sicuramente lo scorrere delle lancette e alcune noiose lezioni delle quali non ne capivamo il senso. Tuttavia, ci sono sempre stati degli argomenti che hanno attirato i piccoli studenti. Uno di questi è la storia dell’Unità d’Italia. Ciò non significa che tutti erano appassionati della storia del nostro Paese ma, in generale, c’era un coinvolgimento emotivo maggiore. Sicuramente, è più difficile percepire come vicina a noi la storia degli antichi egizi o di altre civiltà, mentre, quando si arrivava al capitolo sul Risorgimento, sembrava essere arrivati a noi.
17 marzo 1861
Inizialmente, la storia de Risorgimento viene raccontata in modo quasi mitologico, con Garibaldi protagonista indiscusso. Poi, con l’avanzare delle classi scolastiche, si approfondiscono meglio personaggi quali Cavour e Mazzini. Mano a mano che si cresce si riesce a comprendere meglio la complessità di un tale evento storico. Da piccoli era scontato che la parte del “bene” era quella guidata da Garibaldi, perchè era scontato che l’Italia doveva essere unita, altrimenti oggi non saremmo esistiti così come siamo. L’importanza di quel 17 marzo del 1861 riecheggia ancora oggi nelle Istituzioni, nelle Scuole e nell’anima del Paese. L’Italia divisa era finalmente unita. Certamente non tutta, ma era l’inizio del processo di unificazione. Quella che sembra solo una data è in realtà un terreno comune, preparato in quel preciso periodo storico, tanti anni fa, dove, ancora oggi, è possibile costruire. Una costruzione che certamente è cambiata, dalla monarchia alla repubblica passando per una dittatura, ma che rimane radicata in quel terreno. Questo è il sentimento, il sentire comune. Accanto a questo sentire bisogna però associare la realtà. Quanta di quella volontà unificatrice è stata trasformata in un reale sistema organizzato e uniforme? Ed è proprio questo il più grande conflitto, non armato, del nostro paese. Una ferita che provoca un’emorragia di risorse che nessuno sembra riuscire a curare. Questo squarcio tra Nord e Sud ha radici ben prima del 1861 e, sopratutto, ha rami che sembrano impossibili da controllare.
“Sud, ce fai o ce sei?”
Da un’analisi presentata dal Senato possiamo ricostruire quale era la situazione di questa ferita nella fase preunitaria. In questo senso troviamo gli studi del prof. Barbagallo che evidenziano un’economia basata su strutture agrarie precapitalistiche e la presenza di un’organizzazione latifondista. La letteratura storica comprende anche altre posizioni, ad esempio quelle del prof. Bevilacqua. Nella sua analisi sull’economia del meridione fa emergere come, alla vecchia cerealicoltura estensiva, si erano insediate nuove colture che risultavano più redditizie. Comunque, da entrambi gli studi emerge uno scarto, più o meno ampio, tra l’economia del Sud e quella del Nord pre-unità. Un punto di vista “tragico” è quello del politico, e Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia, Nitti. Quest’ultimo si espresse per denunciare un vero e proprio trattamento discriminatorio nei confronti del Sud. Nitti sottolineò come la situazione preunitaria del Sud non fosse molto diversa rispetto a quella del Nord ma, per spostamenti di risorse verso il settentrione, il Sud si fosse ritrovato penalizzato. Questa posizione, che vedeva il mezzogiorno sfruttato da politiche pro-settentrione, venne accolta da altri politici liberali italiani. Anche socialisti del calibro di Salvemini concordarono su questa visione ma ponendo l’accento sulla classe popolare del Sud come unica vittima di quel sistema. Infine, queste politiche “anti-Sud” sono state riconosciute anche da Gramsci ma con un presupposto diverso. Per il deputato socialista quelle scelte furono la conseguenza di una impossibilità del meridione di partecipare alla crescita economica. L’unica cosa che accomuna tutte queste visioni è la riconoscenza di uno scarto effettivo tra i due poli della penisola.
Sbagliare è umano, perseverare è diabolico
Mettiamo ora da parte i vari punti di vista sulla ricostruzione storica del divario e parliamo dell’attualità. Appreso il problema, siamo riusciti a invertire la rotta? La risposta monosillaba è no. A seguito della recente pandemia è stato approvato il Pnrr che, in alcuni punti, si concentra proprio sul divario Nord-Sud. Una pubblicazione del 2023 dell’ Istat inizia così: “Il Mezzogiorno è il territorio arretrato più esteso dell’area euro”. Andiamo a vedere qualche dato per comprendere la caratura del problema. Andando al mero dato economico il “PIL pro-capite” del meridione si attesta al 55-58% rispetto a quello del Centro-Nord. Nel campo dell’istruzione l’Italia è “il quasi fanalino di coda”, posizione che spetta alla Romania, per numero di laureati in Europa. Il dato appare ancora più preoccupante se visto con una prospettiva interna. Nel Mezzogiorno un cittadino su tre, in età tra i 25 e i 49 anni, ha al massimo la licenza della Scuola Secondaria di Primo grado. Altro tema di attualità, legato al cambiamento climatico, è la siccità. I dati parlano di reti idriche che perdono la metà dell’acqua che trasportano, dato che si trasforma in ¼ al Centro-Nord. I trasporti, in particolare il treno, sono un elemento costitutivo identitario per qualsiasi nazione. Anche in questo caso il Meridione ha una dotazione di infrastrutture di trasporto nettamente inferiore all’altra faccia della penisola. La lista delle inefficienze continua: dai servizi per l’infanzia al gap sulla digitalizzazione.
L’Italia chiamò?
Non devono esistere pregiudizi, o peggio ancora, forme di razzismo territoriale di fronte a questi dati impetuosi. Bisogna comprendere però che questo è un problema secolare che ha a che fare con l’identità della nazione. Oggi, che l’idea di nazione è scalfita o quantomeno modificata, bisogna interfacciarsi con realtà sovranazionali. La prima e più vicina è l’ Unione Europea ma sono tanti i protagonisti internazionali con cui l’Italia deve confrontarsi. Nasceranno, e sono già nate, nuove problematiche multilivello che lasciano poco tempo a regionalismi e divisioni interne. Si parla sempre di credibilità e di forza del “sistema Paese” nei palcoscenici internazionali. Si dice che dobbiamo alzare la testa, assurgere ad essere un Paese di tutto rispetto, tornare grandi, come se il problema fossero gli altri paesi che, in teoria, sono nostri alleati. Vogliamo davvero essere pronti alle sfide internazionali? Allora è inevitabile passare per quella ferita. Non basterà il 17 marzo 1861 e la sua memoria a curarla, ma serviranno scelte politiche decise a riavvicinare i due lembi e a farci, finalmente, diventare un corpo unico.