“La quarantena non è finita”: essere un dipendente Amazon nell’era post-covid

Spesso teatro di scioperi, lo stabilimento Amazon di Passo Corese è rimasto operativo durante tutto il lockdown. Con due casi di contagi registrati, in piena pandemia, i sindacati Filt e Nidil hanno proclamato un’agitazione dopo aver ricevuto diverse segnalazioni dal personale circa l’impossibilità di rispettare le norme di sicurezza.  Il colosso americano è, peraltro, anche in tempi normali, bersaglio di critiche quanto alle condizioni dei suoi lavoratori. Contro qualsiasi dubbio, abbiamo intervistato un dipendente del FC01, esperto di ritmi di lavoro “amazoniesi”, anche in tempi di quarantena.

Amazon e il centro di distribuzione di Passo Corese

Amazon ha aperto la sua sede a Passo Corese nel 2017. Con i sue duemila dipendenti, che nei periodi di picco sfiorano i tremila, è destinato a diventare uno dei principali, se non il principale, snodo merci di una multinazionale che in Italia ha investito 1,6 dei 27 miliardi destinati all’Europa. Situato in un punto strategico, sull’autostrada Roma-Milano e antistante la ferrovia che collega con l’aeroporto di Fiumicino e la capitale, si è trovato spesso al centro delle cronache. L’attacco è arrivato dagli ambientalisti che hanno sottolineato come la sua costruzione abbia comportato la distruzione di una collina di uliveti e siti archeologici; e dai sindacalisti che ne hanno denunciato spesso l’atteggiamento scarsamente tutelante nei confronti dei lavoratori dipendenti. In particolare, all’alba del contagio di due operatori tra marzo e aprile, Massimo Pedretti per la Filt Cgil Roma Lazio e il Segretario Generale di Nidil Rieti Roma Eva, Mihai Popescu, hanno evidenziato la mancanza di strumenti di protezione sanitaria.

Per saperne di più, abbiamo intervistato Mario, dipendente a tempo indeterminato da luglio 2019 presso lo stabilimento Amazon di Passo Corese. Lavora nel reparto che si occupa delle spedizioni, quotidianamente a contatto con centinaia di trasportatori provenienti da tutta in Italia.

È la tua prima esperienza lavorativa? In caso contrario, quali sono i pro e i contro di essere un dipendente Amazon?

Non è la mia prima esperienza lavorativa. Ho lavorato anche in proprio. Il fatto di lavorare in Amazon garantisce, in confronto, diversi vantaggi. Ti senti tutelato sia a livello di diritti, che di retribuzione. È una tra le aziende nella fascia più alta di stipendio della categoria, ti viene riconosciuto tutto: dal quarto d’ora alla mezz’ora di straordinario. Io non mi sento sfruttato piuttosto motivato. Quello che fai, viene apprezzato da lead e menager e c’è meritocrazia. Ci sono anche dei premi e delle giornate particolari, un po’ all’americana, dove si festeggiano eventi. È un’idea di lavoro nuova, alla quale in Italia non siamo molto abituati. Essendo però un’azienda estremamente attenta alla sicurezza, rischi di ricevere feedback negativi per aver fatto qualcosa di non contemplato. Per una persona assunta a tempo determinato ciò potrebbe costare il non passaggio a tempo indeterminato. Per chi lavora a tempo indeterminato ha un peso minore, certo poi dipende dalla gravità dell’errore. A influire davvero sulla carriera è una potenziale lettera di richiamo: ha una durata di sei mesi, e può compromettere la possibilità di candidature a cariche superiori.

Come è stato lavorare in Amazon per l’intero periodo di lock-down?

All’inizio l’emergenza non è stata presa molto sul serio. Poi abbiamo iniziato a preoccuparci e a chiederci se fossimo tutelati, se incorressimo in un rischio per la nostra salute. Lo stress è aumentato, specie per chi come me lavora a contatto con il mondo esterno. I camionisti venivano controllati: chiunque avesse transitato nella zona del lodigiano o dintorni fino a una settimana prima veniva rimandato indietro. Ma la preoccupazione c’era. Sei in uno stabilimento dove circolano tremila persone al giorno. È quasi impossibile che nessuno sia venuto in contatto con una persona contagiata. All’inizio era come se ci aspettassimo un untore da qualunque parte, in qualunque reparto. Col passare del tempo ci siamo tranquillizzati, anche perché l’azienda ha cercato di tutelarci con mascherine, igienizzanti, distanziamenti e quant’altro. Intanto la mole di lavoro aumentava. In un periodo in cui solitamente si lavorava poco, in cui ci si preparava alla prime-week di luglio, è come se ci fosse stato eccezionalmente un picco continuo.

Condividi la decisione di non chiudere lo stabilimento?

Da un certo punto di vista la condivido: abbiamo spedito prodotti di prima necessità. È stato un servizio in fondo, in un momento in cui ad esempio i negozi per i bambini o per gli animali erano chiusi. Con ciò non voglio dire che sia un’attività di prima necessità, ma da quando è cambiato il mercato, oggi quasi interamente online, è di sicuro diventato molto importante. D’altro canto, però, si tratta di un luogo di lavoro dove transitano migliaia di persone e si poteva benissimo trasformare in un focolaio.

Ti sei sentito tutelato dall’azienda, soprattutto sul posto di lavoro?

Mi sono sentito tutelato e continuo a sentirmi tale perché mentre nel resto del mondo hanno cominciato ad alleggerire le restrizioni, qui ancora continuano ad esserci tutte. Ci misurano ogni giorno la temperatura, c’è sempre un medico in sede.  

Tra marzo e aprile sono stati registrati due casi di contagio nel tuo stabilimento. Come hai reagito tu? E l’azienda?

C’è stato in parte allarmismo. Non sapevi se fossero entrati in contatto con tuoi colleghi di reparto o se fossero stati nel reparto stesso. C’è una pratica di Amazon in base alla quale ogni giorno ricopri un ruolo differente sia nel tuo reparto che in reparti limitrofi, e con quella rischiavi. Però comunque i casi sono stati trovati immediatamente e l’area è stata sanificata.

A quarantena finita, cosa è cambiato rispetto a prima in Amazon?

La quarantena non è finita, continuiamo a portare avanti le regole che ci sono state imposte nel periodo di lock-down. Non c’è ancora un clima di tranquillità. A livello di attività, la mole di lavoro è ancora ingente. Probabilmente la prime-week non si farà, ma non mi sembra ce ne sia bisogno. Prima della quarantena si facevano breathing a metà turno, che erano un momento di distrazione e che ora sono bloccati. Spero ricomincino. Inoltre, non potendo accedere all’azienda mezz’ora prima del turno del pomeriggio e venti minuti prima di quelli della notte e della mattina (per evitare assembramenti), a volte non si fa neanche in tempo ad andare in mensa, nonostante abbia ripreso a funzionare.

Cosa vorresti sia migliorato?

Mi piacerebbe un andamento più lineare nei turni. Una volta che hai staccato da una settimana di pomeriggi, andare due giorni dopo a fare quella delle mattine e dopo ancora quella delle notti non consente di abituarti. Cominci il nuovo turno sempre spossato, non hai un ritmo di vita regolare. E poi vorrei che fosse cambiato il servizio mensa: ti propongono spesso la stessa a cosa a pranzo e a cena, è quasi monotono. Nonostante ciò, è un buon ambiente di lavoro, se sei abituato a muoverti.

Soppesare i lati positivi e quelli negativi nel colosso di Bezos non è affar semplice. Ritmi di lavoro estenuanti ma servizi a portata di click, anche in piena pandemia. Colline che vengono spianate e migliaia di posti di lavoro che sorgono. Mario sembra cavarsela piuttosto bene, è forse il frutto di una robotizzazione ormai assimilata? Per ora ci accontentiamo di sapere che stia bene, e come lui tutti i suoi colleghi.

Direttore responsabile: Claudio Palazzi

1 commento

  1. Mi riferisco all’intervista fatta al dipendente di Amazon. Le domande sono corrette e condivisibili, le risposte fanno sorgere molti dubbi a chi ha visto come me il film “Sorry
    we missed you” di Ken Loach. E’ vero in questo caso ci troviamo in Inghilterra, ma in Italia le cose sono davvero molto diverse?
    Giovanna

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