Se dovessimo descrivere la nostra società a un uomo del passato, la tecnologia sarebbe forse il punto dal quale partiremmo: la tecnica come primo “fatto sociale” alla base delle nostre vite. La nostra è la civiltà più iper-tecnologizzata di sempre: internet, nel giro di qualche anno, ha stravolto il mondo occidentale (e non). Il 2020 ha esasperato questa tendenza. La tecnologia salverà il mondo (se resa bene pubblico e sottratta al monopolio delle grandi corporations) Direttore responsabile: Claudio Palazzi
Pandemia e tecnica

La pandemia del 2020 ha generato alcune costrizioni (il dover stare a casa in primis) a cui la tecnologia è stata chiamata a dare una risposta. E lo ha fatto. Nell’istruzione la didattica a distanza ha permesso il prosieguo dell’anno scolastico. Nel lavoro lo “smart-working” ha permesso di lavorare senza spostarsi dalla propria abitazione. Nell’ambito “comunitario” i social networks si sono rivelati cruciali nel sostituire la “fisicità” dei rapporti. In quello dell’intrattenimento le case di produzione cinematografica si sono rivolte ai servizi di streaming on-demand per la distribuzione di film che sarebbero dovuti approdare in sala.

Nel mondo della musica e del teatro sono state innumerevoli le iniziative per trasmettere in live streaming performance e concerti, permettendo al pubblico di usufruirne comodamente sul proprio divano di casa. Persino in ambito sanitario la tecnologia si è dimostrata utile: i sistemi di tracciamento sono risultati fondamentali per il contenimento dell’epidemia soprattutto in Cina e Corea del Sud, le raccolte fondi organizzate da famosi influencers hanno permesso di canalizzare aiuti economici direttamente alle strutture ospedaliere, mentre è notizia degli ultimi giorni la realizzazione di sistemi di monitoraggio dei malati curati in casa attraverso l’uso di braccialetti elettronici.

Insomma, tutto bello, tutto funzionale. La tecnologia, però, cela alcuni rischi, relativi più che altro a una sua non-regolazione politica e materiale.

Partiamo però da un presupposto: una vera visione progressista del mondo non può essere reazionaria e tradizionalista. È vero, spesso affascinano quei discorsi che idealizzano un passato “semplice” e primitivista, fatto di cose concrete, reali. Affascinano i localismi perché riportano indietro a un tempo idealizzato in cui l’aspirazione principale di un popolo era il benessere mentale, quel benessere dato da pochi ma intensi rapporti interpersonali.

Nell’epoca globale tutto ciò non è più concesso: rapporti sempre più stop and go, reti verticalistiche di interrelazione, riunioni in videocall, il tutto nell’ottica di uno snellimento nelle pratiche della vita quotidiana verso la strada dell’efficienza e della riduzione degli sprechi. Il problema è che questa strada è stata resa “totalizzante”: doveva servire a ridurre le ore lavorative, a parità di output. Le ore lavorative non solo sono rimaste invariate, ma il benessere psicologico della collettività è radicalmente calato. Si è reso sovrapponibile ciò che doveva essere sostituibile: ed è ovvio che, guardandosi indietro, i localismi affascinano.

Non bisogna però confondere le esternalità di un modo di produzione insostenibile con le potenzialità progressiste intrinseche della tecnologia. La tecnologia è fatta per semplificare le nostre vite; semplificare il dovere per aumentare tempo e qualità del piacere.

Le contraddizioni di questo clash fra tecnica e modello di sviluppo capitalistico sono emerse, eruttate, proprio durante la pandemia.

La pandemia da Covid-19 ha infatti costretto il capitalismo a intraprendere definitivamente il sentiero della tecnica, di cui esso- il capitalismo- si è servito per rispondere a una crisi che ne ha colpito svariate strutture portanti. È avvenuto, probabilmente, il più grande spostamento ineguale di risorse nella storia dell’umanità: si è assistito, in questi mesi, al vero e proprio exploit di alcuni colossi del tech che si sono fatti trovare pronti nel rispondere alle esigenze che la pandemia ha generato: Amazon laddove i negozi fisici erano chiusi, le app di videocall di Google e Microsoft sono state presenti quando il lockdown impediva alle persone di incontrarsi face to face, il social network ha incrementato ancor di più il suo significato di “piazza virtuale”, così come le app di messaggistica sono diventate il nuovo bar sotto casa dove poter fare una chiacchiera; Netflix, Dazn altri servizi di streaming sono diventati i nuovi luoghi d’intrattenimento, vista la chiusura di cinema, teatri e stadi.

È impensabile, miope, credere che tutto questo, finita l’emergenza sanitaria, svanirà nel nulla, tornando a una fantomatica “vita frugale”; la pandemia ha accelerato un percorso che esisteva già da tempo: il processo di appropriazione privata della tecnologia. Ed è questo processo che va invertito: occorre, invece, socializzare la tecnologia.

Socializzare per politicizzare: porre nuove costrizioni

Socializzare non significa solo rendere il prodotto a beneficio della collettività tutta, ma significa anche, conseguentemente, liberare il potenziale intrinseco della tecnologia, finora sopito dall’inefficienza di un orizzonte privo di quelle costrizioni che sono alla base dell’adattamento umano e del progresso tecnico, prendendo le mosse dalla teoria demografica di Ester Boserup, contrapposta al neo-classicismo fatalista di stampo malthusiano. Porre la costrizione del “socializzare i benefici della tecnologia” significa contemporaneamente creare processi di adattamento atti a emancipare il potenziale inespresso delle scienze tecnologiche. In un mondo che voglia risolvere davvero il problema della fame nel mondo, la tecnologia si troverebbe a scatenare il suo potenziale inespresso. In un mondo in cui vi fosse la ferma volontà di combattere il cambiamento climatico, di fermare l’inquinamento, di sfruttare nuove fonti di energia rinnovabile (es. idrati di metano, fusione nucleare) questo processo significherebbe spezzare le catene che imprigionano la tecnica in un recinto di invenzioni fatte per pochi e introiettate al semplice e banale mantenimento dello status quo. Il cambiamento dello status quo apre invece orizzonti inesplorati per il progresso tecnologico, perché crea nuovi interessi, pone il superamento di ulteriori costrizioni che il neoliberalismo, ideologicamente, tiene nascoste sotto a un tappeto. In questo senso occorre contestare e ribattere a quella “lenta cancellazione del futuro” prodotta dalla postmodernità capitalistica, quella sorta di “ritorno dell’uguale” in cui il progresso si conserva entro un “set rigidamente definito e fisso di parametri”, che tarpa le ali di quello che i due filosofi politici Alex Williams e Nick Srnicek definiscono «un processo sperimentale di scoperta nell’ambito di uno spazio universale di possibilità»: in breve, una nuova politicizzazione della tecnica, mirata a sfruttare il reale potenziale emancipativo di progresso collettivo intrinseco in essa.

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