Il progetto della via della seta è un tema dibattuto forse uno dei pochi temi ad avvicinare partiti politici in Italia che raramente sembrano essere d’accordo su qualcosa. Eppure, nonostante sia uno dei nodi più complessi che il governo si è trovato ad affrontare dall’inizio della nuova legislatura, sono ben pochi gli italiani che conoscono effettivamente che cosa sia questo famigerato progetto a matrice cinese.

La Nuova Via della Seta, il cui nome ufficiale è Belt and Road initiative (BRI) è un’iniziativa di sviluppo economico ed infrastrutturale annunciato dal governo cinese del 2013, lo stesso anno in cui Xi JinPing è stato eletto presidente: l’idea di collegare Asia ed Europa attraverso reti di trasporto e commercio non è di certo opera sua questo è chiaro, è un progetto che affonda le proprie radici nei primi rapporti tra l’Impero Romano e l’Antica Cina, ma è stato proprio il governo del nuovo presidente a gettare le fondamenta per quello che potrebbe essere l’iniziativa strategica più audace del XXI secolo.

Ma esattamente come sta realizzando il progetto il governo di Xi JinPing?

La Cina sta attuando la Belt and Road Initiative (BRI) attraverso una combinazione di investimenti pubblici e partenariati con altri paesi. Questo coinvolge progetti infrastrutturali come strade, ferrovie, porti e reti energetiche. La Cina fornisce finanziamenti attraverso prestiti, investimenti diretti e partecipazioni azionarie in diverse nazioni lungo le rotte della Nuova via della seta.

Chiaramente il progetto offre vari vantaggi strategici ed economici al paese finanziatore.

Innanzitutto la BRI faciliterebbe la creazione di collegamenti commerciali più efficienti tra la Cina e altri paesi, aprendo nuovi mercati alle merci cinesi.

Permetterebbe inoltre alla superpotenza di diversificare la propria economia e di promuovere la crescita economica nelle sue regioni più arretrate. Infine sul piano politico la Cina rafforzerebbe la sua influenza politica, creando legami di partnership a lungo termine con i paesi partecipanti.

Prima di affrontare i pro ed i contro di un’eventuale partecipazione dell’Italia alla Belt and Road initiative bisogna prima spiegare le problematiche che affliggono la maggioranza dei porti italiani: questi sono nati in un momento storico in cui erano ancora prevalenti le rotte specializzate, dunque due porti di medie dimensioni relativamente vicini non entravano in competizione perché spesso si occupavano di merci diverse. Questo è cambiato dall’introduzione del container: se da una parte permetteva di ridurre i costi di trasporto, dall’altra implica l’utilizzo di navi sempre più grandi in grado di trasportare diverse tipologie di merci allo stesso tempo seguendo rotte marittime globali. Ma il declino delle rotte specializzate non è stato l’unico fattore ad impattare negativamente sulla competitività dei nostri porti, un altro problema importante è che dal punto di vista logistico questi non sono attraenti per le grandi compagnie di import export: infrastrutture obsolete, burocrazia e lentezza amministrativa e la mancanza di connettività tra la zone retroportuali e le grandi autostrade rendono tantissimi porti inadeguati alle necessità del mercato globale.

Quali sono gli aspetti positivi e negativi nella partecipazione alla BRI?

L’adesione dell’Italia garantirebbe innanzitutto una nuova ed ampia fonte di investimenti nel nostro paese: vari progetti infrastrutturali come strade, ferrovie e porti potrebbero beneficiare dell’ ingente capitale cinese, questo a sua volta potrebbe stimolare la crescita economica e creare posti di lavoro. Dal punto di vista commerciale l’adesione migliorerebbe l’accesso delle imprese italiane ad uno dei mercati più vasti e redditizi del mondo soprattutto per chi produce beni di lusso. In ambito strettamente geopolitico la scelta dell’Italia, un paese occidentale, di inserirsi in un rapporto di partnership con la Cina potrebbe contribuire alla stabilizzazione dei rapporti tra questa ed i membri della NATO, specialmente in un momento storico in cui i rapporti tra Washington e Pechino sono particolarmente tesi.

Ma non è tutto rosa e fiori quando si parla di BRI: tra i vari casi in cui l’adesione al progetto ha portato effetti negativi nei confronti dei paesi partecipanti il più significativo è quello dello Sri Lanka. Il porto di Hambantota, pur non essendo stato costruito come tassello per la nuova Via della Seta,  è diventato un simbolo significativo delle dinamiche finanziarie e geopolitiche associate alla BRI: le difficoltà finanziarie dello Sri Lanka nel rimborsare i prestiti cinesi hanno portato allo scambio di quote di partecipazione e all’affitto a lungo termine del porto alla Cina, sollevando preoccupazioni riguardo alla sovranità nazionale e l’influenza cinese nel paese.

L’Italia, a differenza di altri attuali membri della BRI, non correrebbe tanto il rischio di trovarsi al punto di dover cedere un porto alla Cina a lungo termine ma potrebbe comunque trovarsi ad affrontare ricadute negative: un’eccessiva dipendenza economica da investimenti stranieri renderebbe il paese vulnerabile ad eventuali cambiamenti nella politica cinese, un altro aspetto da non sottovalutare sarebbe un’eventuale concorrenza sleale nei confronti delle imprese italiani che, rispetto alle loro controparti cinesi, devono rispettare standard e regolamenti più rigidi. Infine alcuni critici sottolineano il tema della trasparenza nei contratti: in passato in alcuni casi dettagli finanziari dei prestiti cinesi o degli investimenti non sono stati resi pubblici, in altri casi invece è stata la mancanza di chiarezza riguardo alle clausole e le condizioni inserite nei contratti a sollevare preoccupazioni.

Il progetto comunque è in continua evoluzione ed il governo cinese ha mostrato disponibilità a rispondere alle preoccupazioni sollevate e migliorare la cooperazione con altri paesi. L’Italia aveva inizialmente deciso di aderire al progetto firmando durante il primo governo Conte ( Coalizione Movimento 5 stelle – Lega) un memorandum d’intesa che prevedeva accordi fino a 20 miliardi di euro ma vari fattori, tra cui una non insignificante influenza da parte degli Stati Uniti, hanno portato l’attuale governo guidato da Giorgia Meloni alla decisione di non rinnovare il memorandum: si tratta sicuramente di una sconfitta diplomatica importante per Pechino, avendo perso l’unico paese del G7 entrato nel progetto.

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