Matteo Garrone ha risposto ad un’esigenza collettiva, con il suo nuovo film io capitano. Un film di cui, bisogna proprio dirlo, l’Europa aveva bisogno. Ci si rende conto quando si è di fronte ad un’opera, che realmente possa dirsi artistica, per via della domanda che inevitabilmente ti fa esplodere nelle viscere: perché nessuno ci ha pensato prima? Ci si rende immediatamente conto della necessità di quell’opera. Del fatto che “se non esistesse, bisognerebbe inventarla”. E questo poiché, nella loro semplicità, esse vanno a pescare consapevolezze radicate nell’inconscio collettivo, e le portano semplicemente in superficie. Nella loro autenticità, sono in grado di mostrarci il nostro stesso sguardo sul mondo.

Il PLOT io capitano

Parte tutto dal Senegal, all’interno di un contesto famigliare caloroso ed accogliente, ove subito si identificano i protagonisti del nostro racconto: Seydou e Moussa, due adolescenti che, sebbene sembrino vivere in armonia con tale realtà, si comprende subito come stiano tramando di partire per l’Europa (in particolare per l’Italia), all’insaputa delle loro famiglie.

Per permettersi questo viaggio, i due hanno lavorato segretamente per mesi, riuscendo a racimolarsi da parte un gruzzolo di partenza. Nei primi minuti di film emergono di già un paio di tratti del tutto stranianti: anzitutto, la lingua parlata dai protagonisti, in cui si svolgerà la più parte del racconto, (il Wolof) è incomprensibile. Si tratta, di fatti, del dialetto locale senegalese. Il secondo fatto straniante, è che, nonostante il lessico ostile ci allontani dai personaggi da un lato, dall’altro la cornice iniziale in cui il film presenta tale parte di mondo, è tutt’altro che angosciante, ma del tutto familiare. Egli colloca i nostri protagonisti, non in una situazione di carestia, fame, o guerra civile, in cui la propaganda populista ci ha detto che si debbano trovare i migranti prima di effettuare un viaggio di tale significato, non ci induce pena, commiserazione, ribrezzo. Anzi, mostrandoci una realtà di vita ancora semplice, gioiosa, all’insegna di una dimensione comunitaria, dove non sembrano esserci problemi maggiori rispetto alla “casa che va a pezzi” (e dalle immagini ciò non risulta nemmeno troppo), genera quasi una certa invidia. Si mostra una vita dai valori ferrei, ma semplici. In un’ottica verghiana, potremmo dire, ancora dettata dai tempi della natura, ove la fiumana del progresso non ha radicato i suoi tentacoli.

O meglio, così appare. In realtà, anche li son giunte le sue spore, e ‘stavolta, le sfortunate cavie di questo giogo meschino, invece di essere i Malavoglia, son proprio Seydou e Moussa, ancora ignavi di ciò che tale spinta verso l’oltre gli comporterà. Garrone, ha messo sotto gli occhi di tutti come l’abbraccio mondiale al sistema capitalistico il cui emblema si concretizza nella diffusione degli smart-phone non è una scelta unicamente economica. Tale liberismo legato alla globalizzazione porta con sé un inevitabile diffusione dei suoi valori (individualismo, libertà di pensiero e di movimento tipiche dell’homo economicus che si crea la propria strada nel mondo, smaterializzazione dei legami) che impatta direttamente sulle proprie aspettative di vita, ed in maniera legittima. Ciò che spinge Seydou e Moussa alla volontà di intraprendere tale devastante viaggio, è, come nel caso di ogni famiglia borghese, di ogni cittadino affogato nelle crepe del nostro agognato “progresso”, la semplice possibilità (nonché ambizione) di farlo. Il desiderio della scoperta, dell’esplorazione, del mettersi alla prova rispetto al mondo, di permettere alla propria famiglia di fare un salto economico. È la storia dei Malavoglia, ripetuta ancora una volta e ancora una volta e ancora una volta. Come si sceglie dunque, chi può abbracciare questi valori e chi no? Nel momento in cui i medesimi strumenti di cui noi ci dotiamo per comunicare, giungono negli angoli remoti di mondo, come si può, non assumersi la responsabilità di una tale corruzione di intenti? io capitano

Insomma Seydou ad un certo punto viene insinuato dal dubbio. E, in un momento di apertura con la madre, prova a comunicargli il suo intento di partire, ma non appena ella esplode in una reazione di sgomento, severità e preoccupazione, ritira subito il dichiarato nascondendosi dietro allo “scherzo”. È una scena intima e allo stesso tempo del tutto drammatica, non potendo far altro che immedesimarci con i timori materni, nell’amara consapevolezza, che Seydou quel viaggio lo compirà. Che uscirà anche lui dal nido. E così, dopo una tappa di rassicurazione dallo sciamano del villaggio, descritta con scene fotograficamente sognanti ed ineccepibili, i nostri cugini sono pronti a partire.

Il resto, purtroppo, tutti noi lo conosciamo. Il deserto, le prigioni libiche, il mare. Ognuno di questi ostacoli sembrano passaggi obbligati per chi voglia intraprendere tale odissea, con la percezione continua di trovarsi all’interno di una tratta che oramai è niente più che traffico di esseri umani. Si ha la sensazione di trovarsi al cospetto di una spietata associazione a delinquere (sotto un’acquiescenza occidentale a noi nota), decisa a sfruttare le ambizioni di tali persone (indotte dai nostri stessi strumenti), per fomentare schiavitù e riciclaggio di denaro. Dividi et impera, come si suol dire. io capitano

LO STILE

Il soggetto è assolutamente in linea con i film di Matteo Garrone. In particolare, con ciò che è stato l’andazzo degli ultimi anni, per cui si parla sempre dei c.d. vinti ma con una vena di speranza in più, rappresentata spesso dai protagonisti sempre più giovani, e dagli inserti fiabeschi entro le maglie di uno spietato realismo. In particolare, in questo caso le due dimensioni si sposano bene, seppur mantenendo un regime di, potremmo dire, separazione dei beni. Il connubio risulta infatti vincente, ma non diviene mai un sinolo. I due mondi viaggiano in parallelo, accostati, ed accennati. Creando un’atmosfera surreale all’interno di un dramma del tutto reale. Matteo Garrone in questo caso, non ha infatti bisogno di rendere il tutto più spietato di quanto già non sia. Non ha bisogno di enfatizzare al massimo delle loro potenzialità gli snodi drammatici, tentando anzi, di alleggerirli ponendoci dalla prospettiva di Seydou che è ancora adolescenziale. Il viaggio, tuttavia, come ogni viaggio che si rispetti, lo porrà di fronte a delle sfide, che inevitabilmente lo faranno maturare, e tale maturazione emergerà sempre più forte nello sguardo del protagonista, che man mano che il racconto procede si ammanta di un’ombra sempre più ambrata. Tutto il film si sviluppa in tensione. E fino a che egli non avvista la costa italiana e non emette il grido di “Io, capitano” siamo, come lui, in apnea. In vuoto d’aria.

Garrone, ad ogni modo, non si dilunga oltre tale momento. Egli fa una scelta intelligente che conferisce al film un afflato universale, senza però perdere della sua specificità. In realtà, Garrone non ripercorre tutto il viaggio, ma ci accompagna fino al momento in cui i protagonisti giungono alle nostre porte, senza curarsi di entrare in polemiche inutili su ciò che accade dopo. Ma sappiamo tutti come, oltre quel plot-point, il viaggio dei nostri protagonisti sarà tutt’altro che finito. E ci si raggela il sangue al pensiero, che quel sospiro di sollievo sarà seguito da una nuova, ulteriore, apnea. io capitano

LA REALIZZAZIONE: un’opera corale

Il film racconta di un’impresa a tutti gli effetti. Non solo dei protagonisti della vicenda, ma anche dello stesso regista, nel voler riportare tali fatti. La scelta di costui, di assumere una prospettiva non eurocentrica, ma in prima persona dei viaggiatori, è stata oltre che coraggiosa, eroica. Guardando il film, non si può far altro che notare l’immensità della prova. Nel farlo, Garrone ha inoltre scelto di affiancarsi di giovani senegalesi, svolgendo i casting in loco, ed il resto delle riprese in Marocco. Egli, di fatto, più che porre al centro la propria autorialità, si è reso al servizio dei veri protagonisti della storia. È divenuto la bocca al servizio di chi, purtroppo, ancora oggi non verrebbe ascoltato. Come, d’altronde, in ogni suo lavoro.

Per compiere uno sforzo empatico, per liberarci dalla fitta propaganda sovranista e populista attuale, ecco perché occorre guardare io capitano: perché i nostri vicini di mondo se lo meritano, e perché, anche noi d’altronde, ce lo meritiamo.

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