La storia italiana si è legata indissolubilmente a quella del Corno d’Africa, in particolare all’Eritrea e all’Etiopia. Dalla fine del XIX secolo al secondo dopoguerra l’Eritrea è stata una colonia italiana in tutto e per tutto. Oltre ai legami politici ed economici, si venne a creare un legame sociale tra i coloni e la popolazione locale, che fu profondamente influenzata dai decenni spesi sotto la dominazione italiana. Ancora oggi camminando per Asmara, la capitale eritrea, a tratti sembra di esser tornati indietro nel tempo, nell’Italia dei primi del Novecento. Il primo luogo di contatto fra italiani ed eritrei fu senza dubbio l’esercito, dove vennero create delle divisioni locali composte da soldati eritrei: forti della loro conoscenza del territorio ed equipaggiati con le più moderne armi italiane, i cosiddetti “ascari” svilupparono ben presto dei rapporti umani spesso profondi con il superiore italiano. Oltre a questo, gli italiani inviati per colonizzare le terre si stabilirono sul territorio con conseguenze inevitabili, venendo a creare un legame tra due popolazioni, che molto spesso è andato oltre il rapporto tra invasore e invaso. Sono queste poi le situazioni che hanno dato vita a famiglie, amicizie, storie di vita. Tutto ciò che va oltre alla politica, alla diplomazia e alle guerre, ci restituisce storie di persone.

Purtroppo, una volta che le strade tra il Corno d’Africa e l’Italia si sono ufficialmente separate questo non ha coinciso con la pace e la stabilità da parte africana. Proprio l’intervento italiano con il quale venne colonizzata l’Eritrea andò a creare una nuova unità territoriale, che fino a quel momento aveva sempre fatto parte dell’impero etiope. Da allora, la neonata Eritrea ha iniziato a sviluppare un sentimento nazionale, complici le diverse dominazioni che hanno contribuito a creare una storia diversa da quella dell’Etiopia. Oltre ai decenni passati sotto gli italiani, per la nascita dell’identità nazionale eritrea è stato fondamentale il decennio di dominazione britannica, tra il 1941 e il 1952, dove si sono strutturati i primi movimenti politici. In quegli anni, nonostante l’Italia avesse rinunciato formalmente alle proprie colonie, la presenza italiana era ancora consistente poiché i coloni che si erano insediati anni prima avevano delle vite avviate che spesso avevano visto la nascita di una seconda generazione di italiani in Eritrea, altrettanto spesso a delle famiglie miste. La comunità italiana partecipò attivamente alle prime formazioni politiche in Eritrea, in particolare i veterani italiani fondarono il Partito Pro-Italia, che successivamente divenne il Partito Eritreo Pro-Italia. Il partito era orientato su una posizione indipendentista proprio perché la comunità italiana era fortemente radicata e sperava così di poter esercitare ancora un’influenza su un’Eritrea libera, piuttosto che sotto la dominazione di qualcun altro.

Per l’Eritrea però le Nazioni Unite scelsero la soluzione della federazione con l’Etiopia. L’imperatore Haile Selassiè ebbe così modo di tenere l’Eritrea vicina fino a quando nel 1962 non la ridusse nuovamente ad una semplice provincia, violando di fatto la risoluzione dell’ONU. Questo periodo però coincise con l’epoca d’oro degli italiani d’Eritrea, che erano rimasti al loro posto, complice il fatto che ormai si era creata una sorta di fiducia e un legame economico, amministrativo, culturale tra i due popoli. L’imperatore Haile Selassiè perdonò gli italiani per ciò che era accaduto in epoca fascista (la colonizzazione dell’Etiopia, con annesse violenze e soprusi) e li lasciò alle loro vite, preferendoli a qualsiasi altra dominazione straniera, se non altro in ragione del legame di lunga data che si era creato.

Se la comunità italiana viveva un periodo piuttosto prosperoso, così non era per la comunità eritrea, sempre più insofferente per la dominazione etiope. A cambiare le cose, non in meglio, fu la rivoluzione etiope e il conseguente colpo di stato: nel 1974 l’Etiopia destituiva il suo longevo imperatore e diveniva un regime militare a carattere socialista. Il fermento dell’epoca e la caduta dell’impero etiope diedero una spinta decisiva al movimento indipendentista eritreo, che sperava di poter approfittare della situazione. Così non fu. Il nuovo signore dell’Etiopia, il “negus rosso” Menghistu Haile Mariam, strinse il pugno di ferro con l’Eritrea. Iniziò così una guerra d’indipendenza che sarebbe durata 30 anni, fino al 1991, anno della caduta del regime militare etiope e della liberazione di Asmara. Il Derg, l’organizzazione militare che prese il potere, si rifaceva al marxismo e ciò comportava l’espropriazione e nazionalizzazione dei beni che infatti non si fece attendere. La situazione che si venne a creare era del tutto nuova: la comunità italiana che da decenni era stabilita in Eritrea aveva bisogno dell’aiuto dello Stato italiano ed era quasi costretta al rimpatrio. Peccato che molti di loro in Italia non erano neanche mai stati. Questa è la storia degli italiani emigrati in Italia.

Ci troviamo sul litorale romano, più precisamente in una frazione di Anzio, Lavinio. Da sempre lido di villeggiatura, con i suoi ritmi pacati e le strade tranquille, Lavinio ospita i romani che fuggono in gran numero del calore estivo di Roma, per trovare refrigerio e pace sulle spiagge del litorale. A metà degli anni 70’ Lavinio si trovò ad accogliere, oltre ai romani, dei profughi italiani provenienti dalle ex colonie del Corno. Spesso si trattava di famiglie nate da unioni di italiani ed eritrei o dall’unione di due meticci, che ad Asmara avevano frequentato la scuola italiana, che da sempre vivevano circondati da italiani (chi più chi meno), ma che l’Italia non l’avevano mai vista. E che dagli italiani non erano sempre considerati tali. Lo Stato italiano mise dei mezzi a disposizione dei profughi, che avevano la possibilità di chiedere il rimpatrio immediato all’ambasciata e una volta arrivati venivano accolti e smistati in diverse destinazioni. Una di queste era proprio Lavinio, dove si è venuta a creare una comunità di eritrei ed etiopi rimpatriati in quegli anni. Abbiamo intervistato uno di loro, per riportare una storia di guerra, di speranza, di duro lavoro, ma soprattutto un pezzo di storia italiana che è passato in sordina.

Quando è arrivato in Italia?

Il 14 maggio del 1975.

Cosa stava accadendo in Eritrea quando l’ha lasciata?

In Eritrea, quando è iniziata la guerra nel gennaio del 75’, per prima cosa il Consolato – italiano – ha inteso chiudere tutte le scuole e hanno promosso tutti all’anno seguente. Non c’era niente da fare, era tutto chiuso e sembrava che la guerra dovesse durare qualche giorno.

La guerra tra chi era?

La guerra era tra gli etiopici e gli indipendentisti eritrei, quelli che da noi chiamavano partigiani, che volevano liberare l’Eritrea dall’oppressore etiope.

Che ricordi ha della guerra?

È iniziato tutto un pomeriggio, in cui hanno iniziato a sparare. Noi ci siamo chiusi in casa, abbiamo spento le luci e la mattina dopo pensavamo che tutto fosse finito. In realtà io e mia sorella siamo andati a scuola, mio padre era andato dove aveva la stalla. Ma lì la situazione era già abbastanza grave. Il ricordo netto che ho è che quella mattina a scuola si sentivano i cannoneggiamenti a distanza ed erano sempre più vicini. Arrivò una circolare del consolato dicendo di mandare tutti a casa. C’era un via vai di persone e lì è l’ultima volta che ho visto i miei compagni di scuola, alla fine ci siamo lasciati così. Io non avevo chi mi venisse a prendere, mio padre era nei campi. Si è offerto un professore per accompagnare me e un altro alunno. Dopo qualche chilometro, sotto il monte Baldissera c’era un campo militare, c’era un soldato ogni tre metri e quando il professore li vide ci fece scendere. Ci siamo incamminati uno da una parte e uno dall’altra. Una volta arrivato a casa, tra mille peripezie, il problema era che mia sorella non era arrivata. Siamo partiti con una vecchia Volskwagen per andarla a cercare e il mio terrore è che avevamo nascosto un vecchio fucile da caccia sotto al sedile, a casa non potevamo lasciare nulla. Per nostra fortuna ci controllarono ma nessuno pensò di controllare sotto il sedile. Ogni 100 metri ci fermavano e ci perquisivano. Poi ci siamo trasferiti da una famiglia che stava un po’ in periferia e un pomeriggio siamo andati a riprendere la roba a casa, ma abbiamo trovato la casa aperta, si erano portati via tutto.

Qual era il suo legame con l’Italia?

Io nasco figlio di un italiano e di una madre eritrea, quindi cittadino italiano dalla nascita. Culturalmente l’Italia era distante, avevo contatti con qualcuno che arrivava dall’Italia, lì comunque era una ex-colonia italiana. Quando usciva un film in Italia una settimana dopo era nei cinema di Asmara: c’era il cinema Roma, il cinema Impero, l’Odeon. Nella mia scuola poi erano tutti figli di italiani, ce ne erano migliaia.

Suo padre è arrivato in Eritrea?

Nel 1936 se non vado errato. Ci è rimasto per tutta la guerra, fino al 45 o il 46, quando gli inglesi hanno vinto la guerra contro gli italiani. Tornato in Italia aveva trovato la povertà vera, tutti i suoi fratelli erano emigrati in Argentina, lui non ci riuscì e quindi pensò di ritornare in Eritrea, dove aveva visto che aveva qualche possibilità. A Pescopagano (in Basilicata) non c’era davvero nulla. Tornò in Eritrea e si mise a coltivare la terra, prima in mezzadria e poi con una concessione.

La vostra infanzia da cittadini italiani in Eritrea come se la ricorda?

Era alquanto felice devo dire. Eravamo ben visti, benestanti, avevamo la possibilità di entrare nelle scuole italiane. Poi mio padre aveva questa fattoria, l’allevamento del latte, l’associazione del consorzio zootecnico. Stavamo bene, le possibilità non mancavano. Tutto questo sotto l’impero etiope, fino alla rivoluzione del 74’.

Nel 1975 poi è arrivato in Italia, come ha deciso di partire?

Avevo rischiato di essere ucciso ad un blocco di polizia, la sorte ha voluto che non finisse come per gli altri, che spesso venivano presi ed annientati. Ricordo che mi salvai perché avevo un documento rilasciato dal consolato italiano, che attestava che fossi cittadino italiano. Mi avevano fermato ad un posto di blocco e mi avevano già tolto la catenina e l’orologio. Io ero andato a scambiare dei giornaletti, come li chiamavamo noi, con un mio amico di scuola. Mi hanno fermato e messo in un angolo con il mitra puntato addosso, ricordo che ce ne era uno sopra che incitava l’altro a risolvere la cosa velocemente, sparando un colpo. Chiesi di poter mettere una mano in tasca e lui mi disse di non farlo, ma io lo tirai fuori lo stesso. Vide che ero italiano e mi cacciò con un calcio sulla bicicletta. Io non raccontai nulla ai miei, ma gente che aveva visto lo riportò a mia madre. Poi andavo in giro spesso a vendere il latte e mi avevano un po’ puntato, mia madre aveva sentito che per me stava diventando rischioso, quindi andò al consolato italiano per farmi i documenti per spedirmi in Italia. E così è successo, contro il volere di mio padre. Ero minorenne, avevo 16 anni e mezzo, sono andato ad Addis Abeba l’8 maggio del 75’ per aspettare la documentazione. Garantirono a mia madre che avrei continuato gli studi e che qualcuno si sarebbe occupato di me, ma così non fu.

All’arrivo in Italia cosa trovò?

Il pomeriggio del 14 maggio del 75’ sono arrivato in Italia a Roma, c’era un assistente sociale che vedeva come dividere le famiglie, come smistarle. Lo stato aveva preso degli alberghi vuoti destinati ai profughi eritrei. Alcuni li avevano mandati a Frosinone, altri a Fiuggi, altri rimasti a Roma, altri a Napoli. Io sono arrivato da solo a Lavinio, mi avevano detto “prendi questo pullman e vai a Lavinio”, ma nessuno si era preoccupato di me francamente. Questa è la storia in realtà.

A Lavinio arrivai in una giornata bellissima, io mi aspettavo la neve. Da ragazzino vedevo le cartoline dei parenti che avevo in Piemonte, quindi per me l’Italia era la neve. Arrivato qui ero straordinariamente meravigliato di non trovare la neve, anzi che c’era lo stesso clima che avevo lasciato. Qui stavo in un albergo, dove c’erano un sacco di famiglie di Asmara che non conoscevo, ma si mangiava sempre insieme, era un via vai di gente. Io dopo una settimana mi ero già trovato un lavoro in una falegnameria qui vicino, a 6 mila lire al giorno. Iniziai a lavorare lì e poi non mi sono mai più fermato, poi trovai in un benzinaio, poi ad un autolavaggio e così via.

Con lei sono arrivate altre persone? Se sì, in che situazione si trovavano?

Si, erano tutti cittadini italiani. Lo stato italiano si era mobilitato alla grande, avevano esteso gli stessi benefici della legge per i profughi provenienti dalla Libia, mi pare l’evacuazione fosse stata nel 70’. Davano la possibilità a questi concittadini che arrivavano dall’estero di reintegrarsi. Un profugo che arrivava veniva accolto e sistemato, alla famiglia veniva assegnata una casa popolare, offerto un lavoro. C’era una circolare del governo che diceva che nelle grandi aziende 1 dipendente ogni 100 doveva essere profugo. Ecco, io che non sapevo tutto questo a 16 andavo in giro a cercare e guardarmi intorno. Poi lo scoprii nel 78’, quando iniziai a cercare un altro lavoro, si andava al collocamento obbligatorio a Roma, il giovedì era la giornata per i profughi. Si andava lì e si sceglieva sui cartelloni il lavoro, magari ti dicevano “vuoi andare alla Rai, all’Eni o all’Alitalia?”, quindi la gente ha avuto modo di scegliere e sistemarsi. Io ero arrivato un po’ in ritardo e poi nessuno si era preoccupato di me, dicendomi cosa dovevo fare.

A livello sociale? Era facile integrarsi?

No, era molto difficile, erano tempi diversi. Quando ci vedevano arrivare con i capelli ricci e un po’ moretti venivamo visti un po’ così. Ricordo che una volta stavo facendo la spesa al supermercato e una signora iniziò a toccarmi i capelli e mi chiedeva da dove venissi, pensando che fossi sardo perché era sorpresa di come parlavo bene l’italiano.

L’integrazione di tante famiglie non è stata semplice. Il colonialismo ha creato delle dinamiche sociali a dir poco complicate, di persone nate da straniere in un altro paese, che spesso vivevano nella bolla della propria comunità. Come raccolto anche da questa testimonianza, i figli di italiani frequentavano le scuole italiane e più in generale, la comunità tendeva a rimanere compatta negli interessi e nello stile di vita. Proprio il cambiamento di stile di vita e di status sociale è stato uno dei motivi di maggior disagio per gli italiani rientrati forzatamente dalle colonie. Erano infatti abituati ad una vita semplice ma allo stesso tempo agiata, complici le agevolazioni date dall’essere cittadini italiani in un paese che negli ultimi decenni era stato amministrato dagli italiani stessi, che avevano avviato uno sviluppo economico in una posizione privilegiata.

Lo Stato si trovò così a gestire il retaggio coloniale in un momento storico in cui il colonialismo in Italia era un capitolo chiuso. O almeno questa era la percezione in terra italiana. La guerra scoppiata nel Corno fu l’episodio che portò ad una brusca conclusione un processo iniziato più di 80 anni prima. Se l’avventura coloniale italiana in Eritrea ed Etiopia si era formalmente conclusa nel 1947 con la rinuncia alle colonie, queste storie ci dimostrano come il colonialismo non sia stato un fenomeno soltanto politico, economico e militare, ma anche sociale. E proprio la dimensione sociale fu quella più difficile da affrontare per coloro che arrivarono in Italia in quegli anni. Se lo Stato si è dimostrato pronto ad accogliere e a provvedere economicamente per quei cittadini che vivevano nelle ex-colonie, la loro l’integrazione sociale spesso non è stata altrettanto semplice. Complice il fatto che sotto questo aspetto mancò un supporto statale vero e proprio, come dimostra la storia che abbiamo raccontato: quella di un ragazzo di 16 anni a cui fu data una sistemazione provvisoria e null’altro. Se questa però è una storia a lieto fine, ce ne sono state altrettante che si sono interrotte troppo presto o sono giunte a un triste epilogo. Diventa difficile reintegrarsi nel proprio paese sentendosi stranieri ed è questo che spesso il fenomeno coloniale ha creato: persone che faticano a trovare la propria identità o che non accettano di averne più di una. Ma anche persone la cui ricchezza è data dall’unione di due popoli e dal sentirsi a casa in due paesi diversi. L’Italia ha cancellato l’avventura coloniale con la stessa foga con la quale l’ha inseguita ed ottenuta. A ricordarcela, alla fine, rimangono le persone. Pezzi di storie che valgono la pena di essere raccontate.

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