RIVOLUZIONE O RIVOLTA? LA VIOLENZA NEGLI USA DI GEORGE FLOYD

L’omicidio di George Floyd (impossibile utilizzare un termine diverso) a Minneapolis è stata la scintilla in una società, quella americana, pronta ad esplodere.
Il suo fermo e la successiva morte per asfissia (come dichiarato sia da una autopsia indipendente sia, in maniera più criptica ma ugualmente risolutiva,da quella ufficiale) hanno risvegliato grumi di rabbia repressa, esplosa improvvisamente e diffusasi a macchia d’olio su tutto il territorio degli USA. Una rabbia legittima, alimentata dalle rinnovate richieste di un maggior controllo dell’operato delle forze dell’ordine e, ovviamente, la riapertura del dibattito sul problema del razzismo in America.

Un problema con radici antiche, sicuramente non circoscrivibile ai soli “States” ma all’intera mentalità occidentale che però ha trovato nel “nuovo mondo” un terreno tristemente fertile, in quanto il 12% della popolazione è di etnia afroamericana.
Non servono excursus storici per ricordare i numerosissimi episodi di razzismo che hanno macchiato la società americana, né sarebbe utile ricordare le battaglie di grandi uomini come Martin Luther King o Malcolm X per ribadire il concetto che su questa terra siamo tutti uguali.

Possiamo invece fare alcune riflessioni sullo strumento con cui in questi giorni non si chiedono solo maggiori diritti, ma un cambio radicale nella società.
È giusto che nel nome dell’antirazzismo vengano vandalizzate le città? È giusto che per chiedere un controllo più serrato sull’operato degli agenti di pubblica sicurezza se ne incendino gli edifici? Ed è ugualmente giusto che quanto più la polizia continuerà con i suoi soprusi (l’anziano spintonato e lasciato a terra dissanguandosi, la vicenda di Manuel Ellis, precursore rimasto sotto traccia di George Floyd), tanto più dovrà aspettarsi nuove ondate di odio? La risposta, da alcuni inaspettata, per altri incomprensibile, è che si, in questo caso la violenza sembra essere l’unica arma in grado di smuovere le coscienze di una classe dirigente che è globalmente connivente con l’abuso di potere delle forze dell’ordine nei confronti dei cittadini comuni.

Sia chiaro, questo non vuole essere un incitamento alla rivoluzione armata di una nazione contro i suoi apparati statali. Sarebbe invece necessario da parte di chi ha il potere uno sforzo mentale ulteriore per capire perché un popolo scenda in piazza. Come affermato dalla deputata democratica Alexandra Ocasio-Cortez, chiedere semplicemente che i disordini finiscano senza interrogarsi sul perché siano scoppiati non significa avere a cuore gli interessi della nazione, ma solo di quella percentuale privilegiata che non doveva (né voleva) porsi questi problemi. Significa chiedere il mantenimento dello stato delle cose, ossia di uno stato di ingiustizia dilagante e brutale. Significa pensare che il problema del razzismo si combatta con il numero di occupati e le percentuali di PIL (Donald Trump ha detto anche questo).

La storia ci riempie di esempi di sommosse popolari contro gli oppressori, ognuna con tenori e motivazioni diverse, ma mai per il semplice piacere della violenza. Certo, va ribadito il principio per cui “la storia la scrivono i vincitori”; se queste sollevazioni avevano raggiunto il loro scopo verranno ricordate come rivoluzioni (la guerriglia per le strade di Parigi nel 1789 con la presa e la successiva distruzione della Bastiglia come emblema dell’oppressione monarchica), mentre se a spuntarla era il potere costituito verranno ridotte a rivolte (come la rivolta dei Ciompi del 1378 a Firenze, dove il “popolo grasso” e il “popolo minuto” –banchieri e borghesia – si unirono per schiacciare le proteste dei piccoli commercianti), termine più rozzo e terrifico in grado di suscitare paura in chi lo sente ed istintiva vicinanza verso chi lo reprime. Rivoluzione negli Usa di George Floyd

E quindi perché chiedere scioccamente che si scenda in piazza per difendere i diritti dei più deboli ed oppressi senza che vengano distrutte le vetrine e incendiate le caserme? Non è possibile aspettarsi che l’unica reazione a secoli di violenze unilateralmente legittimate non sia altrettanto violenta. La rabbia che contraddistingue queste manifestazioni è il più evidente sintomo di quanto sia stato sbagliato l’approccio nei confronti del problema fino a questo momento. Rivoluzione negli Usa di George Floyd

Un atteggiamento che nel migliore dei casi assume l’aspetto di un bianco paternalismo, per cui le ingiustizie che i neri subiscono sono aberranti ma dovrebbero essere risolte sperando che il buon senso discenda, deus ex machina, sulle menti degli ingiusti; un paradosso, un “fardello dell’uomo bianco” del terzo millennio. Nel peggiore dei casi invece la mentalità razzista è stata dominante, e almeno in certi settori della società americana, come quello della polizia, è tutt’ora così: se un uomo bianco ha in mano un oggetto potrebbe essere di tutto; se un uomo nero ha in mano un oggetto molto probabilmente è un’arma.

La speranza rinnovata è che ormai sempre più persone abbiano effettivamente preso coscienza di come non esistano differenze tra esseri umani semplicemente basandosi sul colore della pelle, sulla provenienza geografica, sulla religione. Ormai, come ha fatto notare il regista Spike Lee, i ragazzi di tutto il mondo si unisco a prescindere da ogni differenza in difesa dei loro simili più colpiti dall’ingiustizia. E questo sembra rendere ancora più agguerrita quella minoranza che si ostina a vedere nel diverso un nemico, un elemento perturbatore della società che deve essere eliminato.

Fino a quando ci sarà un poliziotto bianco inginocchiato sulla gola di George Floyd; fino a quando i Suv della polizia caricheranno la folla per disperderla; finché si considererà il razzismo un problema esclusivo delle classi inferiori, risolvibile con la panacea capitalista; finché inginocchiarsi disarmati di fronte ad un manipolo di agenti in tenuta antisommossa sarà considerata una provocazione a cui rispondere con i manganelli; fino ad allora sì, bruciare una caserma sarà un atto rivoluzionario.

Direttore responsabile: Claudio Palazzi

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