Walter Tobagi, difensore della democrazia
La mattina del 28 Maggio 1980 cinque colpi di pistola scuotono la quiete di via Salaino, a Milano. Ad esploderli sono cinque ragazzi. Tutti figli della classe borghese, appartengono alla “Milano bene”, eppure sono anche militanti della “brigata 28 Marzo”. Alcuni, paradossalmente, sono figli di noti giornalisti. Il paradosso sta nel fatto che questi colpi sono rivolti proprio verso un giornalista, di nome Walter Tobagi.
Il nuovo decennio doveva portare, nelle speranze di tutti, una nuova ondata di pace sociale. Dopo il sequestro di Aldo Moro e la sua uccisione ad opera delle Brigate Rosse, responsabili anche dell’omicidio di Carlo Casalegno (vicedirettore de “la Stampa”), si pensava che lo Stato fosse in grado di rispondere colpo su colpo. Eravamo invece nel pieno degli “anni di piombo”.
Classe 1947, Walter Tobagi si era distinto fin da ragazzo per le sue qualità di giornalista, approdando al “Corriere della Sera” nel 1976. Il suo impegno fu fin da subito rivolto alla lotta a qualsiasi forma di terrorismo. A Tobagi va ad esempio riconosciuto di essere stato tra i primi a non accettare la descrizione delle Brigate Rosse come “banda di provocatori fascisti”, come molti ambienti del giornalismo di sinistra allora sostenevano.
Il suo lavoro aveva come obiettivo quello di costruire, per le generazioni future, una società lontana da quella in cui lui era costretto a vivere, dove l’unica logica a cui rispondevano le masse era quella della violenza e del terrore. È interessante vedere come nonostante la fermezza delle sue posizioni Tobagi non avesse timore di aprire un confronto con coloro che invece sostenevano la necessità della violenza. Infatti, subito dopo l’attentato a Casalegno, sarà Tobagi a recarsi dai militanti di “Lotta Continua” per chiedere loro cosa pensassero dei brigatisti e dell’uso terroristico che facevano degli ideali comunisti, ricevendo come risposta un rifiuto del terrorismo ma non della violenza come strumento di lotta di classe.
Fu uno dei testimoni delle violenze subite da un ragazzo di sedici anni, militante della associazione giovanile di estrema destra “Fronte della Gioventù”, rinchiuso e malmenato in uno stanzino del liceo Parini. Il suo obiettivo non era però aizzare a nuovi episodi di violenza, ma mostrare come gli stessi fossero, nel loro essere bipartisan, quanto di più nocivo al benessere della società.
Anche per questo possiamo leggere nei suoi articoli del Gennaio 1980 una piacevole sorpresa di fronte alle manifestazioni di vicinanza, silenziose ma concrete, portate dai tantissimi studenti presenti al funerale di tre agenti di polizia, uccisi dalle Brigate Rosse a Milano.
Tobagi credeva nel potere riformatore e progressista delle leggi dello Stato, vedeva in esse l’unica via al miglioramento della condizione umana, rispetto alle quali l’agire dei terroristi rappresentava “il partito armato delle tenebre”. La spiegazione che dava del fenomeno era che si trattasse di un tragico paradosso: “i terroristi uccidono per dimostrare che sono vivi”, scriveva il 26 Gennaio 1980.
Il suo assassinio può essere considerato uno dei tanti passaggi all’interno della lotta tra terrorismo politico e Stato democratico; passaggi che avremmo volentieri evitato, ma che hanno reso più forti le convinzioni di coloro che, come Walter Tobagi, hanno la piena consapevolezza che non esiste convivenza senza mediazione, e non può esserci mediazione in presenza di violenze ingiustificate. Perché l’ondata di sangue che ha colpito il mondo del giornalismo tra gli anni ’60 e ’80 può a tutti gli effetti essere considerata come un lungo e crudele accanimento contro una delle componenti più vitali e allo stesso tempo vulnerabili della società.
Un mondo, quello del giornalismo, in grado di mantenere il sangue freddo pur nel pericolo mortale: ne è un esempio la scelta operata durante il sequestro Moro. Piuttosto che oscurare in maniera radicale i vari comunicati delle Brigate (e vista la natura anche propagandistica degli stessi non mancavano le motivazioni favorevoli alla censura) il presidente del sindacato dei giornalisti Murialdi scelse di pubblicarli e contestualmente demolirli attraverso il peso delle parole. I commenti dei vari redattori erano l’arma più forte contro le azioni scellerate dei brigatisti; allo stesso tempo contribuivano ad eliminare il rischio che si diffondesse un’idea dei criminali come “fuorilegge per la causa di tutti”, mostrando a tutta Italia la brutalità dei loro comunicati. Insomma, la vera forza di uno stato democratico è riscontrabile nello stato di salute della stampa; questa potrà essere messa sotto stress, ma finché il dibattito e la circolazione delle idee in libertà sarà garantita, allora vivrà anche la democrazia.
Mantenere viva la memoria di Walter Tobagi e di come sia stato ucciso, del perché sia stato ucciso, contribuisce a rafforzare in ognuno di noi i valori per cui Walter si è sacrificato suo malgrado. I valori della libertà di pensiero e di espressione, cardini delle democrazie contemporanee. Negli anni di piombo possono essersi piegati, conoscendo il peso del terrorismo politico, ma non si sono mai spezzati.
Direttore responsabile: Claudio Palazzi