RUSSIAGATE UNA GUERRA FREDDA MAI TERMINATA ORA VIRTUALE

Quello di Jenna Abrams è solo uno dei più di 200 profili Twitter falsi creati  nell’Internet Research Agency, la cosiddetta “fabbrica dei troll” sponsorizzata dal governo russo, che durante il periodo caldo delle elezioni sembra abbiano postato commenti negativi su Hilary Clinton. Tutto questo sembra coinvolgere indirettamente il presidente neo-eletto.

È stata la commissione d’inchiesta congressuale a far luce sulla vicenda. Già il 17 ottobre scorso l’emittente indipendentista russa TV Rain raccontava la vicenda dello pseudonimo Maksim assoldato dall’IRA per postare commenti negativi riguardo la candidata repubblicana sui principali organi d’informazioni americani in vista delle elezioni. Si stima siano stati creati più di 80mila account  falsi su Facebook fra il giugno 2015 e l’agosto 2017, almeno 36.746 su Twitter e circa 18 canali Youtube contenenti più di mille video e oltre 43 ore di filmati resi pubblici negli 88 mesi prima delle presidenziali. Ma non è tutto. Il consigliere generale Kent Walker e il direttore sulla sicurezza delle informazioni della nota società Google hanno scoperto che sono stati creati due account al solo scopo di pubblicare annunci anti Clinton, spendendo circa 5mila dollari. I manager delle società sopracitate verranno interrogati da tre commissioni parlamentari per cercare di capire in quale misura sia stata influenzata la politica degli Stati Uniti e se ne fossero a conoscenza.

Sebbene il capo della diplomazia russa Sergeij Lavrov e il portavoce del cremlino Paskov abbiano più volte dichiarato che queste sono tutte fantasie e che la procura non ha alcuna prova concreta molte notizie sono arrivate proprio da siti economici russofoni come la RBC. Lo staff e gli amici del presidente Trump hanno adottato altre linee difensive per difendere la loro posizione. Un esempio è l’intervista al Daily Caller di lunedì scorso in cui il consigliere repubblicano Roger Stone (da sempre amico e sostenitore di Trump, anche lui sotto indagine del Fbi) ha tentato  di screditare il procuratore speciale  Mueller accusandolo di non poter esercitare il proprio ruolo perché sotto inchiesta anche lui. Di cosa parlano?

Risale tutto al famoso fascicolo detenuto da Trump sulla Clinton. Nel giugno 2010 l’industria mineraria Harmz Uranium Holding Company cercò di acquistare l’Uranium One, un’azienda russa di stato con sede a Toronto ma che svolge  il proprio esercizio negli Stati Uniti. Il minerale viene considerato un asset strategico per la sicurezza nazionale e perciò il Dipartimento di Stato, del quale era stata messa a capo Hilary Clinton, si occupò di esaminarne l’acquisizione. Sembra che proprio durante questo processo il presidente di Uranium One abbia fatto delle donazioni legali di 2,3 milioni di dollari alla Clinton Foundation (soldi che  in seguito verranno utilizzati per finanziarne la campagna elettorale della stessa). L’allora capo dell’Intelligence interna era proprio Mueller, ora accusato dalla Casa Bianca di non aver indagato a sufficienza sulla questione nel vano tentativo di distrarre l’attenzione dall’indagine in corso. Una strategia di difesa debole da parte dello staff del presidente che crede di aver trovato un modo per indurre il procuratore a dimettersi. Questo tentativo di sotterrare la “patata bollente” del Russiagate potrebbe essere malvisto dall’opinione pubblica americana e potrebbe avere l’effetto controproducente di aumentare i sospetti sulle connivenze di Trump e dei suoi con esponenti  del Cremlino al fine di screditare la sua avversaria politica.

L’inchiesta giudiziaria è stata aperta dal procuratore Robert Mueller il 14 giugno 2016 quando il Democratic National Committee dichiara di essere stato bersagliato da hacker russi. L’inchiesta sembra coinvolgere principalmente l’ex responsabile della campagna presidenziale dell’attuale presidente Trump, Manafort, e il consulente per la politica estera nominato con grande entusiasmo dalla stessa Casa Bianca, Papadoupolos. Il primo mentre faceva il lobbista per gli ucraini filorussi (ancor prima della campagna di Trump) ha evaso le tasse sui guadagni conseguiti all’estero non dichiarando attività per un paese straniero. Il secondo (consigliere della politica estera di Trump)  dopo aver mentito per mesi all’Fbi ha finalmente vuotato il sacco raccontando dei rapporti avuti con i russi proprio durante la campagna elettorale di Trump. Sembra che avesse incontrato anche un professore di affari internazionali, un certo Mifsud, che gli avrebbe detto  dove trovare il necessario “dirt” per infangare la reputazione della candidata Clinton.

Mifsud è  un ben noto membro del Club di Valdaj, un’associazione di politologi e giornalisti stranieri che si riunisce una volta l’anno con Putin e ha tra i fondatori l’ex ministro degli esteri russo Igor Ivanov.

Una terza pista infine la cui veridicità è stata ormai accertata coinvolge direttamente la Casa Bianca e in particolare il genero del presidente in carica Jared Kushner, che avrebbe incontrato l’ambasciatore russo Serghei Kislyak  a Washington proprio durante la campagna del cognato insieme all’ex capo della sicurezza nazionale Michael Flyn licenziato dopo nemmeno 24 ore per aver discusso con l’ambasciatore russo. Il genero di Trump,  un mese prima dell’insediamento del nuovo presidente alla Casa Bianca, sembra abbia poi incontrato Gorkov –  numero uno della banca russa Vnesheconombank oggetto di sanzioni Usa dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia.

Insomma sono molti i filoni che collegano direttamente la Casa Bianca alla Russia, dai parenti del presidente ai suoi più stretti collaboratori. Una guerra fredda che non è mai davvero finita che è passata dall’acquisizione economica di alcune compagnie ad una vera e propria guerra hacker sul web, uno degli strumenti di propaganda politica più usati in tutto il mondo. Un grande schermo che collega tutti in cui però non si può mai sapere chi c’è davvero dietro. Il fatto che una potenza straniera così a lungo ostile agli Stati Uniti possa aver pilotato le sue elezioni presidenziali fa sentire ancora meno al sicuro quella nazione già devastata dai propri conflitti interni, dalle grandi industrie e dalle compagnie assicurative. Una guerra, un conflitto che, negli ultimi anni, si è sviluppato sul mondo virtuale, ma  i cui effetti si avvertono oggi fuori dagli schermi, nel nostro mondo.

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