Tra i principali punti di riferimento culturali per l’intera Africa nonché uno dei più importanti motori politico-economici dello stesso continente, l’Etiopia sta affrontando probabilmente la peggiore crisi interna della sua storia recente. Dopo le minacce provenienti dal Fronte di Liberazione del Tigray e la conseguente proclamazione dello “stato d’emergenza” lo scorso 2 novembre 2021 da parte del Primo Ministro etiope Ahmed, la soluzione diplomatica sembra ormai molto lontana: il quadro politico-istituzionale si fa sempre più incerto, mentre il rischio di un colpo di stato e di una nuova e catastrofica crisi umanitaria sempre più vicino. S.O.S. Etiopia: la crisi attuale fra conflitti interni ed ingerenze esterne Direttore Claudio Palazzi
La storia etiope: fra dinastie, invasioni, dittatura e repubblica
Terra di antichi regni che reclamano origini bibliche così come di popoli ed etnie tribali, quella dell’Etiopia è una storia tanto “ricca” e affascinante quanto dinamica: la storia etiope infatti si contraddistingue nel tempo sulla base di diverse fasi o epoche ormai ben definite, fondamentali per capire i tratti distintivi che appartengono al Paese di oggi.
Dai regni di “D’mt” e “Axum”, passando per la “dinastia Zaguè” e quella “Salomonide”(a cui corrispose tra l’altro l’epoca imperiale e la suddivisione del regno in feudi) è però probabilmente solo con l’apertura del Canale di Suez, poco dopo la metà del 19 sec, che l’Etiopia cominciò ad attirare l’attenzione delle più importanti potenze europee per i loro progetti imperialistici.
La svolta tuttavia, in termini di politica interna, avvenne soprattutto con gli imperatori Teodoro II e Menelik II: il primo riuscì a riunire molti dei numerosi feudi in cui il Paese era suddiviso, centralizzando il potere dello stato a scapito delle diverse etnie che animavano il territorio; il secondo riuscì nel completamento finale dell’opera avviata dal suo predecessore, riunificando tutti i feudi etiopi sotto un unico regno e fondando la città di Addis Abeba, nuova capitale dell’Etiopia.
Sarà infatti proprio con la morte di Menelik II che l’Etiopia perderà molta di quella stabilità costruita nel tempo mattone dopo mattone. Il Paese infatti, dopo le nuove rivendicazioni e le feroci rivolte da parte dei feudi più antichi, risulterà spartito tra due figure imperatrici, Zauditù e Ras Tafari Maconnèn; garantendo così un terreno fertile per la seguente invasione straniera, quella italiana, cominciata nel 1936 e terminata nel 1941.
Proprio nel 1941, una volta terminata l’occupazione italiana, Ras Tafari Maconnèn rientrò dall’esilio riprendendo così pieni poteri sull’Etiopia. Diventato ormai simbolo assoluto del Rastafarianesimo, Ras Tafari Maconnèn si fece pieno portatore di valori anti-colonialisti, promettendo di fornire diverse terre a tutti gli africani che sarebbero rientrati di lì a poco in Etiopia.
Nel 1975, in seguito alla sua morte, l’Etiopia affrontò molte instabilità interne: è il periodo della dittatura socialista DERG, che durò esattamente 10 anni, per poi culminare in una carestia devastante per l’intero Paese.
L’avvento della carestia coincise con la nascita della Repubblica Democratica Popolare d’Etiopia: tuttavia questa ancora non poteva definirsi una repubblica alla stregua di quelle occidentali, a causa della presenza e dell’influenza di molti membri facenti capo alla precedente dittatura socialista.
Sarà solo nel 1994, dopo 3 anni di governo di transizione, che l’Etiopia inaugurerà l’attuale Repubblica federale Democratica, con una costituzione moderna fondata sui principi democratici occidentali: nonostante la nuova forma di stato però, tensioni e divisioni interne continueranno ad animare la sfera politica e sociale etiope fino ai nostri giorni, dove il pericolo di una potenziale crisi umanitaria sembra essere sempre dietro l’angolo…
Politica ed equilibri interni
Per comprendere pienamente la complessità che caratterizza una realtà tanto variegata come quella etiope, basta portare alla luce alcuni degli aspetti che più contraddistinguono il Paese: la popolazione etiope è pari oggi a circa 117 milioni di cittadini, in più risulta caratterizzata da oltre 80 diversi gruppi etnici, a cui corrispondono circa 90 lingue diverse.
Tra le principali etnie che abitano il territorio troviamo sicuramente gli Oromo, pari circa al 34,4% della popolazione; gli Amhara, pari a circa il 27% degli abitanti; infine i Tigrini, che rappresentano circa il 6,22% della popolazione.
Proprio per far fronte ad una tale eterogeneità, si optò per la formula federalista: dal 1996 l’Etiopia è suddivisa in nove stati regionali etnicamente e politicamente autonomi, cui si aggiungono le due città autonome di Addis Abeba e Dire Daua. Non a caso, per ridurre i conflitti etnici interni, la costituzione attribuisce ampi poteri agli stati regionali, che possono stabilire il proprio governo e la democrazia secondo quanto previsto dal governo federale.
Le prime elezioni multipartitiche avvennero solamente nel 2005, e furono stravinte dal Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope: una coalizione elettorale fondata in Etiopia nel maggio 1988, che riuniva i partiti più rappresentativi della Nazione e quindi delle etnie più diffuse (Tigrini, Amhara, Oromo). Leader storico della coalizione sarà Meles Zenawi, già segretario del Fronte di Liberazione del Tigrai dal 1993 nonché primo ministro etiope dal 1995 al 2012.
Il Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope sotto la guida di Zenawi, esponente della minoranza Tigrina, dominerà anche le elezioni del 2010: numerosissime, in tutte e 2 gli appuntamenti elettorali, saranno le denunce di irregolarità dei principali partiti d’opposizione, così come manifestazioni di protesta e scioperi nazionali, caratterizzati da innumerevoli arresti, vittime e feriti.
Il culmine delle proteste però, si raggiungerà nelle elezioni del 2015: dopo l’ennesima stracciante vittoria del Fronte Democratico Rivoluzionario, guidato questa volta da Hailé Mariàm Desalegn, l’Etiopia conoscerà un lungo triennio di instabilità. Manifestazioni di protesta periodicamente e duramente represse dalle forze di sicurezza; centinaia di morti, feriti e numerosissimi arresti anche tra i giornalisti; le ribellioni contro il governo, espressione della minoranza tigrina, si diffusero l’anno seguente da parte dei due principali gruppi etnici del Paese, Oromo e Amhara.
Sotto la pressione di proteste e ribellioni, nel 2018 il primo ministro tigrino Hailé Mariàm Desalegn rassegnò le dimissioni: un mese dopo Abiy Ahmed Ali, presidente dell’Organizzazione Democratica del Popolo Oromo (uno dei quattro partiti della coalizione di governo) è stato votato leader della stessa, assumendo il ruolo di primo ministro e diventando così il primo premier Oromo del Paese. Quì cominciano a fondarsi le basi del devastante conflitto fra il governo federale ed i Tigrini, scoppiato definitivamente nel 2020 e che ancora oggi spaventa non solo l’Etiopia, ma tutto l’occidente.S.O.S. Etiopia: la crisi attuale fra conflitti interni ed ingerenze esterne
La situazione attuale
Dopo l’elezione di Abiy Ahmed a capo del governo nel 2018, l’Etiopia sembrava procedere finalmente verso la tanto auspicata stabilità politico-sociale, cercando di superare definitivamente il sistema etnico che la contraddistingueva. Il neo primo ministro infatti si rese protagonista di una storica visita in Eritrea, terminando così il conflitto dalla durata ormai ventennale tra le due potenze ma non solo: liberò definitivamente tutte quelle migliaia di prigionieri politici arrestati nel decennio precedente, promise importanti riforme economiche insieme alle libere elezioni, che sarebbero avvenute verosimilmente ad inizio 2020.
Saranno proprio le mancate elezioni regionali, a causa della pandemia, a scatenare la furia del Fronte di Liberazione del Tigray: i rappresentati di questo, opponendosi categoricamente al rinvio delle elezioni, hanno proceduto ad organizzare ugualmente una consultazione elettorale il 9 settembre 2020.
Le relazioni tra il governo federale e quello regionale del Tigray si sono quindi guastate dopo le elezioni sopracitate, ed il 4 novembre 2020 Abiy Ahmed ha ordinato un’offensiva militare in risposta agli attacchi tigrini verso alcuni reparti dell’esercito federale di stanza in quell’area, causando migliaia di profughi in fuga e il definitivo avvio della “Guerra del Tigrè”.
Il conflitto, scoppiato nel 4 novembre dello scorso anno, procede ormai ininterrottamente: ad affrontarsi troviamo da una parte il Governo Federale Etiope, con a capo Abiy Ahmed; dall’altra il Fronte di Liberazione del Tigray. Lo scontro tra le due fazioni è anche lo scontro tra Addis Abeba e Makallé (capitale della regione e sede del Fronte di Liberazione), tra governo federale e ribelli indipendentisti: non a caso il manifesto ideologico dei Tigrini prevedeva la secessione del Tigrè dall’Etiopia e la formazione di una repubblica indipendente.
Se già più volte nel corso del conflitto il rischio di catastrofe umanitaria sembrava essere più che una remota possibilità, adesso sembra essere dietro l’angolo: il 2 novembre 2021, dopo le recenti conquiste del fronte indipendentista tigrino, il Primo Ministro etiope Ahmed ha proclamato lo stato di emergenza nel Paese. Il richiamo alle armi dei cittadini e la sospensione di alcune garanzie costituzionali si sono affiancate ad un sentito e tragico appello a difendere il Paese con ogni mezzo, anche a costo della vita.
Sul lato militare poi, il governo federale ha intensificato i bombardamenti su Makallé e su altri centri del Tigray: nonostante ciò, le forze tigrine sono riuscite a comprimere militarmente le truppe etiopi attorno alla capitale, rendendo la marcia su Addis Abeba una fattispecie quasi imminente.S.O.S. Etiopia: la crisi attuale fra conflitti interni ed ingerenze esterne
Le ingerenze esterne
Quello che sta succedendo in Etiopia è molto importante ai fini dell’equilibrio geopolitico: sia perché il Paese è il secondo più popoloso dell’Africa e per molti aspetti rappresenta un paradigma di stabilità, sia perché l’area in cui il conflitto si svolge è particolarmente sensibile. Il Corno d’Africa è infatti un punto altamente strategico, in cui si allungano gli interessi di diverse potenze globali e regionali, occidentali e orientali.
La situazione risulta particolarmente confusa, sia perché le zone interessate dal conflitto si mostrano pressoché inaccessibili per giornalisti e funzionari internazionali, sia perché le atroci violenze che si sono consumate durante la guerra interessano entrambi gli schieramenti in lotta.
Pur sostenendo politicamente l’operato del Primo Ministro Ahmed, Stati Uniti ed Unione Europea rimarcano la necessità di interrompere il conflitto e di optare per una soluzione diplomatica: le Nazioni Unite hanno puntato il dito contro il governo federale etiope, reputato responsabile di bloccare cibo, aiuti e medicine destinati alla popolazione del Tigray; il governo federale è anche accusato di aver volontariamente ostacolato le comunicazioni ed espulso giornalisti e operatori dell’informazione, per coprire abusi e crimini di guerra commessi nel Tigray.
Se infatti da una parte il governo federale etiope può contare sul sostegno anche in termini di milizie della vicina Eritrea, e dell’alta tecnologia militare fornita dagli Emirati Arabi Uniti, dall’altra il Premier Ahmed accusa le Nazioni Unite di “ingerenza negli affari interni”. La causa di quest’attacco politico verso i suoi stessi sostenitori occidentali risiederebbe negli “aiuti salvavita” inviati dall’O.N.U. verso la regione del Tigray, a fronte del blocco di medicine e cibo imposto proprio dallo stesso governo centrale.
Ad alimentare l’idea di ingerenze esterne nel conflitto ci sarebbero poi le stesse dichiarazioni del premier Ahmed; secondo questo molte delle perdite registrate dal governo federale sarebbero da imputare a stranieri non identificati che, secondo lui, stanno combattendo a fianco dei Tigrini.
Seguendo gli ultimi sviluppi e la percezione generale degli esperti, gli Stati Uniti sotto l’amministrazione Biden sembrerebbero essere più vicini ai Tigrini, così come l’Egitto ed Israele, in quanto consapevoli del vantaggio assunto dagli stessi ribelli tigrini nel conflitto: secondo molti, si starebbero già ponendo le basi per le nuove relazioni tra gli U.S.A. e l’Etiopia post-Abiy Ahmed, che garantirebbero proprio agli U.S.A. un maggiore spazio politico e commerciale.
Al contrario la Turchia di Erdogan, la Russia di Putin e specialmente la Cina di Xi Jinping, si mostrerebbero invece molto più solidali con il governo federale etiope, facendo leva sul forte sentimento anti-americano largamente diffuso ormai fra la popolazione etiope: l’obiettivo sembrerebbe essere quello di imporsi come potenze di riferimento alternative a quelle tradizionali atlantiche, aumentando così la propria influenza geopolitica nel continente africano a scapito proprio di U.S.A. e U.E.