«Seaspiracy: esiste una pesca sostenibile?» Così è intitolato il documentario diffuso dalla piattaforma di streaming Netflix e diretto dal giovane regista britannico Ali Tabrizi. Il documentario si apre con la storia di Tabrizi e il suo amore per gli oceani definiti «fonte inesauribile di ispirazione». Sin dall’inizio vengono riportate una serie di notizie su cetacei trovati morti sulle coste del Regno Unito a causa delle plastiche ingerite. Inizia così la ricerca dell’impatto umano sugli oceani. Ali Tabrizi, assieme alla compagna Lucy, va alla ricerca di una modalità di pesca sostenibile. Forma gradualmente la sua opinione attraverso viaggi, interviste e ricerche su Google. La sua conclusione è che «non esiste una pesca sostenibile».

Il documentario

Nei primi minuti di film, Tabrizi e la compagna Lucy documentano la caccia alle balene che si svolge ogni anno nella baia giapponese di Taiji. Durante le riprese, i due assistono alla cattura e mattanza dei delfini. Ma perché li uccidono? La risposta ufficiale è che sono considerati una specie infestante. Mentre, al porto peschereccio di Kii-Katsuura, uno dei più grandi per la pesca del tonno, i due documentano il traffico di pinne di squalo. Un’industria da miliardi di dollari, spesso legata alla criminalità come spiega Paul De Gelder, attivista e conservatore degli squali, nello stesso documentario.

Tabrizi critica i marchi che garantiscono la pesca sostenibile. Tra questi, la Marine Stewardship Council e il suo bollino blu rilasciato alle aziende che si impegnano per la pesca sostenibile; il marchio Dolphin Safe rilasciato dall’Earth Island Institute; la Plastic Pollution Coalition; e Oceana. Alle organizzazioni ambientaliste, Tabrizi rimprovera di restare in silenzio sui danni causati dalla pesca commerciale, inclusa quella a strascico, e di concentrarsi solo su cannucce, sacchetti di plastica, etc. (che comunque a detta di scrive hanno la loro importanza e il loro impatto). Tutte accuse rispedite al mittente da parte delle citate organizzazioni.

Si apre, quindi, la questione della pesca sostenibile. Tabrizi riprende la testimonianza di Sylvia Earle, biologa marina, oceanografa ed esploratrice. Ritiene, quindi, che non esiste una definizione di pesca sostenibile e che non possa esistere una pesca sostenibile su vasta scala.

Verso la fine appare proporsi un’alternativa sostenibile alla pesca commerciale. Con l’itticoltura si evitano le catture accidentali, la devastazione dei fondali, non si uccidono specie a rischio e si lavora in sicurezza. Tuttavia, Corin Smith, fondatore di Inside Scottish Salmon feedlots e Don Staniford, fondatore di Scottish Salmon Watch, evidenziano problemi come i pidocchi di mare, i rifiuti organici dell’industria del salmone e la morte per patologie dei salmoni. Ed è arrivati a questo punto che Tabrizi introduce il tema della schiavitù, parlando dell’allevamento di gamberi e scampi e riportando testimonianze di alcuni pescatori thailandesi.

Il documentario è quasi al termine e il regista si sposta alle Fær Øer per riprendere la caccia alle balene secondo l’antica tradizione, considerata un’alternativa sostenibile alle baleniere perché le specie cacciate non sono a rischio e non provocano danni. Le immagini, tuttavia, sono agghiaccianti.

Dunque, la sostenibilità è la via giusta per difendere l’Oceano? Secondo l’autore quel che bisogna fare è chiudere vasti tratti di mare alla pesca commerciale, eliminare i sussidi governativi dannosi e, soprattutto, evitare di mangiare animali marini.

Reazioni

Seaspiracy ha causato molto dibattito, tra chi ritiene che esso semplifichi troppo il tema di cui tratta e chi non vuol più mangiare pesce.

Parlando con amici e conoscenti che hanno visto il documentario sono emerse alcune considerazioni anche diverse tra loro. Da un lato, discutendo è emerso che l’obiettivo di questo documentario, caratterizzato da un crescendo costante, è quello di creare panico. È come se si volesse dipingere un’immagine secondo cui nessuno sta lavorando a questo problema che comunque esiste e va affrontato. Dall’altra, sempre parlando di Seaspiracy è però emerso che è sì un documentario angosciante ma comunque interessante. Un documentario che ad ogni modo presenta in maniera forte un problema e che, per certi versi, apre gli occhi sulla pesca intensiva ed è, quindi, consigliabile a chi voglia approcciarsi al tema.

Considerazioni conclusive

Il documentario «Seaspiracy: esiste una pesca sostenibile?» evidenzia un tema cruciale, quello della pesca intensiva e dei danni che provoca all’ambiente marino. Sin da subito, Seaspiracy ha attirato numerose critiche incentrate su due accuse principali, quella di narrazione impostata e quella di rappresentazione distorta dei fatti.

Nel documentario l’autore scredita il lavoro delle organizzazioni ambientaliste che vengono accusate di complicità con l’industria della pesca. In realtà, sono anni che queste si battono per denunciare il problema e modificare la legislazione vigente.

Seaspiracy si basa su dati scientifici, ma, secondo alcune analisi, alcuni di essi sono incorretti oppure vanno rivisti ed aggiornati. Per farsi un’idea si veda «Seaspiracy: cosa non torna nel documentario Netflix contro la pesca».

E’ chiaro che la soluzione di smettere di mangiare pesce è inattuabile, pensiamo anche a quelle società meno avanzate della nostra dove il pesce è l’unico sostentamento. Ma, dal canto nostro, bisogna far attenzione ad alcuni aspetti. Cosa mangiamo, quanto ne consumiamo, come possiamo evitare gli sprechi, come produciamo il cibo che mangiamo, quali agenti chimici vengono usati, qual è l’impatto sulla nostra salute e sulla salute della terra e dei mari. E ancora pensiamo a problemi che si ritengono completamente estirpati dalle nostre moderne società avanzate. Il documentario ci ha mostrato uno scorcio di quello che è lo sfruttamento delle persone e in qualche caso la loro messa in una condizione affine alla schiavitù. Non pensiamo solo alla pesca. Come denunciano alcuni libri, ad es. «Uomini e caporali» di Alessandro Leogrande, questo avviene anche altrove nel nostro paese, come nel settore agricolo (ad es., la raccolta di pomodori).

Dunque, i temi che emergono in questo documentario, seppur adattati per il grande pubblico, sono assolutamente attuali ed è fondamentale affrontarli con tutti i mezzi a nostra disposizione a partire da una maggiore attenzione e regolamentazione da parte dei governi.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here