“Nulla di grande entra nella vita dei mortali senza portarsi dietro una maledizione”.

E’ con questa citazione di Sofocle che si apre film/documentario The social dilemma”. Un prodotto del regista Jeff Orlowski presentato al Sundance Film Festival il 26 Gennaio 2020 e poi distribuito da Netflix negli Stati Uniti nel Settembre dello stesso anno. “The social dilemma”, l’uomo come vittima e carnefice Direttore responsabile: Claudio Palazzi
Interessante come il film affronti l’argomento dei social attraverso interviste agli stessi creatori, ingegneri o dirigenti delle aziende che esso stesso intende criticare. In molte parti del documentario tali interviste assumono un’importanza di rilievo poiché riportano testimonianze dirette di come anche gli stessi creatori dei social spesso tendono a non riuscire a controllare il loro utilizzo. Come se la macchina, lo strumento da loro stessi creato, dopo un primo sviluppo iniziale, prenda vita e riesca a sfuggire al controllo della volontà umana. Perché succede questo? Perché l’uomo è di natura un essere sociale, e in quanto tale tende a connettersi con i propri simili al fine di sviluppare le proprie qualità; i social fanno leva su questo. Chiunque dopo l’invenzione di Facebook ha ricercato parenti ed amici anche lontani per connettersi con questi, per “condividere” momenti della giornata e successi personali. Fin qui nulla di così mostruoso, infondo ogni invenzione digitale che sia stata la televisione o il telefono ha portato sì dei cambiamenti notevoli, ma anche dei benefici; il tutto sta nel comprendere fin quando i benefici risultino essere superiori alle problematiche. E’ questa la tematica centrale, la maledizione di cui parlava Sofocle millenni fa è reale ed è sotto gli occhi di chiunque sia disposto a vederla. Fin quando i social vengono descritti nella loro funzione basilare risultano essere nulla di più utile e innocuo, se poi ci soffermiamo alle tematiche affrontate da Orlowski, qualcosa cambia.

I social raccolgono una serie di informazioni, i cosiddetti “dati”, e le elaborano attraverso algoritmi. Si viene a creare una versione di noi digitale, con interessi ben definiti utili alle aziende per incrementare il loro profitto. “Se non lo paghi, il prodotto sei tu”; siamo noi stessi ad alimentare ciò che può distruggerci. Come? Semplicemente usando i mezzi che le aziende ci mettono a disposizione gratuitamente. Forse però un prezzo da pagare c’è, il nostro essere umani, il nostro essere razionali, il nostro essere in grado di creare autonomamente idee e pensieri. Siamo sempre più vulnerabili e alla fine sempre meno connessi veramente con i nostri simili. L’ultima pellicola di Orlowski dimostra come ciò che avviene sui social abbia poi un riscontro nella vita reale e come quindi questi due mondi, uno digitale e uno reale, si sovrappongono e finiscono per non distinguersi più. E’ dimostrato come bambine e bambini abituati a vedersi attraverso i filtri di instagram tendono poi a non accettare più il loro aspetto aspirando ad una perfezione che nel mondo reale non esiste.

Un’esempio palese di ciò che i social possono provocare è sotto gli occhi di tutti da quando è scoppiata la pandemia da Covid-19. Le masse tendono a dare sempre meno credibilità a fonti istituzionali e ad affidarsi sempre più a ciò che leggono sui social. Purtroppo però ciò che leggono può non essere reale (ormai diffusissimo è il fenomeno delle fake news) oppure può non essere uguale a ciò che leggono i propri simili. Quante volte sentiamo, in varie discussioni, la fatidica domanda: “Ma non lo leggi ciò che scrivono su facebook?”, la vera risposta è negativa.

Non tutte le notizie sono diffuse a tutti gli utenti in egual misura o con la stessa frequenza, ad esempio un Novax vedrà senza alcun dubbio più notizie favorevoli alla sua posizione contro i vaccini piuttosto che notizie favorevoli ai vaccini stessi. Questo perché l’algoritmo di queste aziende è studiato per far rimanere più tempo possibile le persone davanti il loro prodotto, di conseguenza sarà più fruttuoso fargli leggere notizie che gli interessano piuttosto che notizie confermanti teorie a cui non credono. Per non parlare delle teorie complottiste; attraverso i social è stato facile far credere a un gruppo non piccolo di persone che la terra fosse piatta, figuriamoci la facilità con cui potessero sviluppare un pensiero complottista in relazione alla pandemia mondiale. I riscontri sulla vita reale possono essere pericolosi e possono portare ad episodi di violenza tra fazioni che non riescono a capire il pensiero dell’altro perché plasmato su notizie che non possono aver letto, che non possono aver visto. Si finisce per non comprendersi più.

L’effetto dei social diviene ancor più terrificante se si pensa che attraverso questi, senza saperlo, potremmo essere spinti a votare un partito piuttosto che un altro. Oppure come quando nel 2012, in piena era Obama, si dimostrò che facebook era riuscito a portare alle urne 340 mila elettori in più attraverso un “esperimento sociale”. Il problema è quindi insito nella fragilità dell’essere umano. Crediamo di poter controllare tutto, di poter smettere in qualsiasi momento, ma in realtà ci ritroviamo in un mondo sempre più connesso composto da persone sempre più sole.

E’ doveroso quindi ricordare che, se è con il coraggio che si mettono in moto le grandi rivoluzioni della storia, è con lo stesso coraggio che si deve fare un passo indietro quando ci si rende conto che la direzione intrapresa non è quella corretta.
Serve coraggio per tornare ad essere “umani”.

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